"C'è chi crede in dio o nel denaro. Io credo nel cinema, nel suo potere. L'ho scoperto da ragazzino, mi ha aiutato a fuggire da una realtà in cui ero infelice. È una delle forme d'arte più alte che l'uomo ha concepito. Credo nel suo futuro."
(John Carpenter)

lunedì 29 dicembre 2008

Last Action Hero

Last Action Hero

Il piccolo Danny Madigan vive con la madre in una realtà difficile e pericolosa, dalla quale tenta di fuggire grazie alla sua fervente passione per il cinema e in particolare per i film d’azione in cui il divo Arnold Schwarzenegger interpreta l’eroe Jack Slater. Una sera Nick, la maschera del cinema, gli offre l’opportunità di assistere in anteprima e in proiezione riservata all’ultimo capitolo della saga, Jack Slater IV, e a tale scopo gli regala un biglietto ricevuto molti anni prima dal mago Houdini. Una volta strappato, però, il biglietto rompe le barriere che separano la realtà dalla finzione, immergendo Danny nell’avventura accanto al suo eroe Slater…

Sebbene realizzato nel 1993, Last Action Hero può essere definito l’ultimo film degli anni Ottanta, per il senso dello spettacolo magniloquente e pieno, al servizio di un’idea di cinema destinata a un grande pubblico che non tema di rinnovare dinanzi allo schermo il piacere della scoperta e della meraviglia: lo sguardo estatico del piccolo Danny Madigan quando assiste alle avventure del suo eroe Jack Slater è in questo senso paradigmatico, così come il dualismo fra una realtà difficile e una mitopoiesi capace di assicurare una vittoria sul Male. Un parallelo può in questo senso essere tracciato con opere come I Goonies o E.T. e in generale con la concezione spielberghiana di avventura e fantasy, che in effetti hanno tracciato la via per tutto il cinema spettacolare americano degli anni Ottanta.

Ma Last Action Hero è al contempo anche il primo blockbuster degli anni Novanta, per la tendenza a una decostruzione critica dell’universo che mette in scena: il regista John McTiernan, nonostante proprio negli eighties si fosse costruito una certa fortuna come autore di action-movies con il primo, fortunato, capitolo di Die Hard, per il resto si è sempre considerato un artista postmoderno e questa sua indole si vede molto bene nella pellicola, che rappresenta allo stesso tempo un omaggio, una parodia e un’analisi dei meccanismi tipici del cinema spettacolare hollywoodiano. E’ perciò assolutamente indovinata la scelta di avvalersi di un attore come Arnold Schwarzenegger, volto e corpo iconici del cinema muscolare del decennio passato ma anche personaggio pubblico capace di mettersi in discussione iniettando all’interno delle sue storie una vena ironica fortemente dissacrante: basti pensare a titoli come Commando, che stemperano la marcata vena exploitation cara al regista Mark Lester (quella che in tempi passati fu definita “proverbiale cattivo gusto”), grazie a un frequente ricorso al risvolto ironico, sia esso una gag visiva o una battuta, tanto da coniare un neologismo, “arnoldismi”, che indica proprio tali espedienti che hanno fatto la fortuna dell’attore austriaco.

Ecco dunque che la scomposizione e dissacrazione dell’action movie moderno appare allo stesso tempo come un corretto tributo al percorso d’attore compiuto dallo stesso Schwarzenegger, il quale si espone in prima persona interpretando se stesso e, in una scena sicuramente molto audace per un divo del suo calibro, lo vediamo mettere a confronto l’ingenuo e idealista Jack Slater con il se stesso uomo di spettacolo dalla vena imprenditoriale e materialista. In questo senso l’eroe “finale” indicato dal titolo è proprio Schwarzenegger, che con il film completa la sua personale parabola all’interno del genere dopo il trionfo di Terminator 2. L’insuccesso di pubblico e le incomprensioni critiche lo spingeranno però a ripeterla in chiave più seria nel successivo True Lies, e lo stesso varrà per McTiernan, che dovrà tornare alla saga di Die Hard con il terzo capitolo.

A parte questo, comunque, il regista, agevolato da un’intelligente sceneggiatura dove spicca il nome di Zak Penn (il futuro autore di Incident at Loch Ness), porta a compimento un’operazione che ha il merito di tradire il patto di tacita sospensione dell’incredulità con lo spettatore, rimarcando anzi come la forza dell’action movie moderno (diversamente, ad esempio dal poliziesco degli anni Settanta dal quale pure deriva) stia proprio nella sua costante ricerca dell’implausibilità e nel gusto spiccato per l’assurdo. Infatti non stupisce notare come, sebbene molto divertente, il film sia anche uno splendido trattato sull’azione cinematografica, che McTiernan dirige con mano sicura, spingendo il tutto alle estreme conseguenze attraverso una serie di complicati stunt che coinvolgono il suo malcapitato eroe Slater. L’azione, insomma, sembra aver bisogno di una iperbole in grado di rivelarne l’essenza più intima di grande spettacolo circense, che cattura l’attenzione e innesca il processo mitopoietico, liberando infine la meraviglia (processo che anni prima veniva peraltro compreso e teorizzato anche da un altro grande artista d’azione e uomo di cinema come Jackie Chan).

Tutto questo anche per prevenire lo scetticismo sempre più radicato in un pubblico ormai smaliziato da anni di visioni spettacolari sullo schermo e pertanto reso più cinico dalla consapevolezza della finzione: quello che dunque si innesca è un gioco di ammiccamenti e deviazioni inattese con le aspettative dello spettatore, che si riconosce nel piglio dissacratore di Danny (che si diverte a sottolineare le varie implausibilità dell’universo di Slater), ma nello stesso tempo gode della familiarità di uno spazio completamente cinematografico, dove ogni angolo nasconde un riferimento extranarrativo che omaggia il cinema nella sua varietà ricchezza: un atteggiamento diverso da quello che qualche anno dopo muoverà Wes Craven per la sua saga horror di Scream (progetto pure abbastanza simile nei presupposti), poiché McTiernan alla fin fine non è interessato a scrivere il capitolo finale del cinema d’azione, ma a realizzare un’operazione di sintesi che unisca fra loro istanze opposte come dissacrazione e omaggio.

Pertanto il finale compie il maggiore dei tradimenti, mostrandoci uno Slater che, in azione nel mondo “reale”, riesce a sconfiggere il suo nemico compiendo gesta “impossibili” e degne del suo universo cinematografico: i mondi si sono quindi intrecciati e la magia del cinema ha raggiunto un compromesso con il cinismo del reale, al punto che l’eroe potrà continuare a essere tale pur sapendo che il trucco è ormai svelato. Il meccanismo non viene messo in crisi davvero e se questo può rappresentare un motivo di incompiutezza del ragionamento fino a quel momento abbozzato, ha comunque il pregio di essere motivato da una passione contagiosa che alla fine accontenta lo spettatore che ha accettato il gioco.

Last Action Hero – L’ultimo grande eroe
(The Last Action Hero)

Regia: John McTiernan
Sceneggiatura: Zak Penn, Adam Leff, Shane Black, David Arnott
Origine: Usa, 1993
Durata: 130’

Official Fan Site italiano di Arnold Schwarzenegger
Pagina di Wikipedia su John McTiernan
Panoramica sui principali film d’azione anni Ottanta

giovedì 25 dicembre 2008

Christmas Carol

Christmas Carol

Più degli aspetti religiosi o consumistici, avendo particolarmente a cuore il concetto di “immaginario”, sono sempre stato affascinato soprattutto dalla forza squisitamente “iconografica” del Natale. Ecco pertanto tre immagini da opere in bilico fra omaggio e dissacrazione:

Buone Feste a tutti!

venerdì 19 dicembre 2008

La frusta e il corpo

La frusta e il corpo
Il barone Kurt Menliff, uomo violento e privo di scrupoli, torna al castello di famiglia per partecipare alle nozze di suo fratello con la giovane Nevenka. Qui viene ucciso da una mano misteriosa. Il suo fantasma sembra però continuare a infestare la casa e si accanisce particolarmente su Nevenka. Anni prima, infatti, la ragazza era stata legata a Kurt da un perverso legame: lui la frustava selvaggiamente procurandole dolore e piacere e istillando in lei odio e desiderio. Intanto nel castello avvengono altri omicidi.

La frusta e il corpo, primo horror a colori di Mario Bava che si firma John M. Old, è anche il primo film del quale l’autore non cura personalmente la fotografia (affidata al suo operatore di fiducia Ubaldo Terzano). La storia ispessisce i termini del rapporto fra l’apparenza e la sostanza che è alla base del cinema del regista sanremese ammantando l’intera vicenda di una forte ambiguità e dando vita a un lavoro raffinatissimo e di grande impatto. Il lavoro sul colore (si potrebbe affermare che l’autore dipinge la scena anziché illuminarla) azzarda accostamenti cromatici che intingono lo spazio scenico in una atmosfera assolutamente antinaturalistica, anticipando molte trovate del successivo Sei donne per l’assassino e il ritmo stesso viene rallentato quasi per concedere all’occhio dello spettatore la possibilità di perdersi nelle atmosfere oniriche che il castello dei Menliff, reinventato dai giochi di luce, finisce per dispiegare a ogni angolo.

Puro piacere della visione, insomma, che si accompagna, però, a una delle pellicole più dolenti del cinema di Bava. Il regista non dimostra ancora quella propensione allo sberleffo nei confronti dei suoi personaggi, paladini di una umanità stupida e condannata alla propria infelicità, ma empatizza con i loro drammi, ossequiando una struttura che rimanda al feilleuton. Certo l’importanza meramente scenica del “corpo” (rievocato sin dal titolo) è fondamentale nella costruzione dell’arazzo visivo caro all’autore, ma coesiste con un latente senso di morte cui Bava condanna i suoi personaggi. La frusta e il corpo assume così i caratteri di un magnifico melò, dove i protagonisti riescono a trovare la loro ragione d’essere esclusivamente nel dolore. Le atmosfere rarefatte si uniscono, in un ossimoro sublime, a una fisicità e a una sensualità malata, dove lo schiocco della frusta diviene il contrappunto sonoro di una tangibile voglia di esserci.

Il legame perverso che unisce Kurt a Nevenka (una splendida Daliah Lavi) diviene così il paradigma di ogni possibile sentimento umano, diventa il più forte fra i possibili modi di donarsi all’altro, il momento in cui l’odio e l’amore si annullano in un desiderio che concepisce se stesso unicamente come aggressione (non risulta casuale, a questo punto, la scelta di Christopher Lee come protagonista, all’epoca celebre interprete del Conte Dracula per la Hammer Films e che torna a collaborare con Bava dopo il precedente Ercole al centro della Terra).

Le musiche importanti e struggenti di Carlo Rustichelli incorniciano a meraviglia questa atmosfera dolente e i momenti in cui Nevenka viene frustata da Kurt finiscono dunque per assumere una caratura lirica che induce naturalmente alla commozione e che conquista lo spettatore, suscitandogli in egual misura inquietudine per l’oggettiva brutalità della situazione e fascinazione per la potenza e l’intimità di un rapporto che non si può razionalizzare, ma accettare in modo soltanto viscerale.

L’ossequio alle regole dell’Horror risulta così scardinato e il film si chiude giustamente senza sciogliere l’ambiguità sull’esistenza del fantasma di Kurt. D’altronde come Bava consideri l’elemento whodunit è chiarissimo nel momento in cui Cristiano e Katia si interrogano su quanto sta accadendo e formulano diverse ipotesi, mentre la mdp concentra la sua attenzione su un vaso posto lontano dai due interlocutori. Un gesto che è anche un’espressione di poetica e libertà, di un modo di concepire il cinema puramente emozionale.

Sottovalutato dal fandom, ostacolato dalla censura a causa della componente erotica insita nel soggetto (negli Stati Uniti ci furono anche dei tagli) La frusta e il corpo è stato riscoperto solo in anni più recenti, dove si segnala l’elogio di registi come Martin Scorsese. Ugualmente questo non ha impedito che per troppo tempo l’unica traccia tangibile della sua presenza nel nostro paese restassero isolate registrazioni delle trasmissioni tv sulla Rai. Prossimo a vedere finalmente la sua prima pubblicazione italiana nel formato DVD per Eagle Pictures (l'uscita è prevista per il 28 gennaio 2009), il film potrà finalmente guadagnarsi la meritata riscoperta, riconsegnando agli appassionati di ieri e di oggi un autentico classico.


La frusta e il corpo
Regia: John M. Old (Mario Bava)
Sceneggiatura: Julian Berry (Ernesto Gastaldi), Robert Hugo (Ugo Guerra), Martin Hardy (Luciano Martino)
Origine: Italia, 1963
Durata: 88’

giovedì 18 dicembre 2008

Lady Snowblood

Lady Snowblood

Giappone, fine del XIX secolo, agli albori dell’era Meiji. Yuki ha trascorso i vent’anni della sua esistenza preparandosi al momento in cui avrebbe vendicato l’assassinio di suo padre, un compito ereditato dalla madre, morta in prigione dandola alla luce. La ricerca dei tre assassini ancora in vita vede la donna, educata alla lotta con la spada, affrontare i nemici con risolutezza, e trovare un complice nel giornalista e scrittore Ryurei Ashio, che fa della sua storia un best-seller.

“Ciò che accade prima della tua nascita può ripercuotersi su di te” afferma la giovane Yuki, interpretata con gelida precisione dall’attrice e cantante Meiko Kaji in questo piccolo classico del chanbara eiga. In effetti la missione della donna, più che animata da un reale sentimento di rivalsa nei confronti dei nemici, appare come preordinata in origine, da una madre che ha dato alla luce la propria erede unicamente per portare a termine quel compito che lei non era riuscita ad assolvere. In questo senso Yuki più che persona è strumento di una volontà altrui e frutto di una decisione presa prima ancora della sua nascita e alla quale non può e non vuole derogare. Il bianco del suo vestito evoca quello della pagina scritta e di una vita che nel suo farsi è comunque già incanalata in un’idea che deve soltanto trovare esplicazione e racconto.

Per questo motivo Lady Snowblood adotta una struttura metanarrativa che evoca l’idea della messinscena attraverso i classici ambienti ricreati in interni, una scansione in capitoli e un narratore che si riflette nel personaggio del romanziere Ashio, il quale sviluppa il racconto e lo organizza in una forma narrativa popolare. D’altronde alle spalle del film c’è un manga di Kazuo Koike, anch’esso evocato nei flashback e nei brevi excursus storici sottoforma di disegni che illustrano allo spettatore i trascorsi della vicenda e aiutano a contestualizzare la stessa. La narrazione diventa paritetica all’azione e, sebbene il film non sia particolarmente ricco di dialoghi, l’evocazione in forma orale, scritta o attraverso l’artificio della messinscena di stampo teatrale e cinematografico assume un’importanza molto specifica per allargare il discorso dal fatto personale ed elevarlo a grandezze più universali. Ecco dunque che la morte del terzo nemico Okono Kitahama è commentata da una evidente calata del sipario, mentre le scene di lotta sono arricchite da esplosioni di sangue anche eccessive, che possono essere viste come lirico controcanto all’inchiostro usato da Ashio per scrivere il suo romanzo.

Il fulcro del racconto diventa quindi il percorso che Yuki deve compiere per riappropriarsi progressivamente della propria umanità, rendendosi conto che il suo agire violento finisce naturalmente per innescare una spirale di confronti incrociati tra consanguinei destinata infine a procurarle una simbolica morte e rinascita. Ma allo stesso tempo la stessa missione si connota come una analisi del mondo nel quale Yuki si ritrova ad agire, al crocevia fra un passato fatto di ritualità precise all’ombra delle quali si consumano efferati delitti, e un presente apparentemente rinnovato e “ripulito” dai conflitti, dove il Giappone esce dall’isolamento culturale aprendosi al mondo. La presenza di Yuki favorisce quindi un confronto con i principi ideali del passato e con le ipocrisie di un presente che ha semplicemente permesso ai criminali di ieri di assumere nuovi posti di comando, accanto alle autorità (la polizia, i diplomatici): ciò che accade prima della nascita, in questo senso, si ripercuote davvero sull’oggi, obbligando a chiudere realmente i conti con il passato per dare vita a un futuro forse nuovo. I figli quindi si trovano nella posizione di dover rimediare agli errori dei padri aiutando Yuki nel suo compito, ma allo stesso tempo il tutto non riesce a evitare l’emergere di rancori mai sopiti, come testimonia il personaggio di Kobue Takemura, figlia di uno dei nemici di Yuki, che in seguito all’uccisione del padre, cerca di vendicarlo.

La vicenda staziona quindi nella scomoda posizione intermedia di chi si trova al centro di istanze fra loro difformi, aprendo gli spazi necessari alla collisione di forze contrapposte e quindi all’insorgere della tragedia, vera forza propulsiva del film. A questo proposito la regia di Fujita Toshiya si dimostra opportunamente capace di ondeggiare anch’essa fra la già citata evocazione della messinscena e un approccio più brutale con camera a mano in scenari realistici e un commento jazz che decontestualizza la storia rispetto al suo tempo per calarci nell’immediatezza della contemporaneità.

Il che naturalmente permette anche di vedere l’intera storia come una critica a una società moderna che non ha ancora chiuso i conti con il proprio passato e si caratterizza pertanto per una forte ambiguità di fondo.

Inedito per anni in Italia, Lady Snowblood è stato recentemente editato in DVD da Keyfilms/Medusa insieme al suo sequel sull’onda della riscoperta conseguente gli omaggi presenti in Kill Bill di Quentin Tarantino, che vanno dalla struttura in capitoli agli scenari nevosi dei duelli con le spade, fino all’idea stessa della vendetta. Da ricordare anche il libero e affascinante remake, Princess Blade, diretto da Shinsuke Sato nel 2001 e disponibile in italiano.

Lady Snowblood
(Shurayuki Hime)

Regia: Fujita Toshiya
Soggetto: dal manga di Kazuo Koike
Sceneggiatura: Kazuo Uemura
Origine: Giappone, 1973
Durata: 97’

Scheda di Meiko Kaji su Wikipedia
Approfondimento su Meiko Kaji (in inglese)
Brano musicale Shura no Hana/Flower of Carnage dalla colonna sonora

martedì 16 dicembre 2008

La morte e la fanciulla

La morte e la fanciulla

Sudamerica. Paulina è sopravvissuta alle torture del regime appena caduto e oggi è la compagna dell’avvocato Gerardo Escobar, cui sta per essere affidato il compito di dirigere i lavori di una commissione che faccia luce sui crimini perpetrati dalle precedenti autorità. Una notte però, la donna riconosce nel dottor Roberto Miranda, che ha offerto un passaggio a Gerardo dopo un temporale, il suo carnefice e perciò lo cattura per vendicarsi. E’ l’inizio di un serrato confronto a tre che vede in campo la forza della ragione contro quella dell’istinto, mentre Mirando continua a proclamarsi innocente.

Realizzato nel 1994, La morte e la fanciulla costituisce il tassello finale di un percorso profondamente lucido e amaro che Roman Polanski ha portato avanti a cavallo fra la fine degli anni Ottanta e i primi Novanta, con il quale ha descritto la progressiva disgregazione dei legami affettivi all’interno dei nuclei che compongono la società contemporanea, ormai priva di reali punti di riferimento. Nel 1987, con lo splendido Frantic, fulcro del racconto era un uomo che si vedeva improvvisamente calato all’interno di una realtà impazzita dove nuclei di potere tra loro contrapposti gli negavano il ruolo di marito all’interno di un rapporto di coppia rodato; successivamente il lacerante Luna di fiele (del 1990) scendeva all’interno dei sentimenti che agitano il rapporto fra i sessi dando vita a una straziante parabola dove l’amore deve cedere inesorabilmente il passo a un impeto distruttivo che dimostra la pochezza dei sentimenti stessi.

Con La morte e la fanciulla si compie un ulteriore passo in avanti, attraverso una struttura da kammerspiel, dove tre protagonisti mettono definitivamente in crisi i concetti assoluti di fiducia e verità facendo ondeggiare il racconto in un limbo di ambiguità dove nessuno è quel che sembra e lo spettatore è continuamente portato a chiedersi quali siano i reali termini del problema, partecipando emotivamente al dramma che si va consumando.

Ciò che dunque importa non è soltanto il dilemma morale che costringe a interrogarsi sulla liceità del comportamento di Paulina, ma soprattutto la sorpresa di fronte a un cambiamento continuo delle prospettive, che vede di volta in volta la donna nel ruolo di vittima e di carnefice: comportamenti fra loro opposti e che si rispecchiano a loro volta nell’enigmatica figura del dottor Miranda, accusato di crimini contro la persona, ma stoico nel rivendicare la sua innocenza.

L’andamento adottato da Polanski per il racconto è quindi quello di una progressiva discesa nella degradazione umana, dove il rimosso torna prepotentemente a galla costringendo ogni singolo personaggio a fare i conti con il passato e a sottostare a una serie di umiliazioni psicologiche (quand’anche non fisiche) nella speranza di trovare un punto fermo che aiuti a dirimere la questione.

Polanski sembra quasi suggerire che la questione morale sia un orpello ormai inutile di fronte a un dramma che si è già consumato: quello che in fondo noi vediamo non è altro che il dietro le quinte di una tragedia sviluppatasi in passato e che adesso necessita di essere elaborata e ineluttabilmente messa in scena. Ecco dunque che il racconto rivendica una messinscena di stampo teatrale che il testo si preoccupa di esplicitare attraverso una cornice che vede i personaggi assistere a teatro a un concerto di musica classica dove si suona la composizione di Franz Schubert che dà il titolo al film e che costituisce anche la chiave per comprendere la posta in gioco e i trascorsi del rapporto fra Paulina e Roberto Miranda. Il tutto è poi a sua volta un preludio per la vera rappresentazione, lo spettacolo della ripristinata legalità, ovvero la commissione che Escobar andrà a presiedere per mondare i crimini della terra in cui abita, ottenendo in questo mondo anche un grande prestigio.

Il resoconto che Polanski fa del film è dunque spietato e non teme di portare alla luce le ipocrisie di un sistema sociale che si preoccupa di mantenere la facciata di rispettabilità, censurando comportamenti mostruosi perché congeniti all’animo umano, come ribadisce la confessione finale dello stesso Miranda, ancora più terribile poiché esposta lucidamente, con il piglio di chi deve raccontare l’ineludibile verità di un vuoto dell’anima che ha caratteristiche universali.

La disgregazione familiare diventa quindi il primo tassello per una lacerazione più ampia, che interessa la società nelle sue figure di maggiore prestigio (un avvocato, un medico) all’interno di una nazione volutamente non definita (l’indicazione di uno stato sudamericano è utilizzata a livello esclusivamente archetipico) e porta linfa a un dramma a tinte forti condotto senza cedimenti, mantenendo sempre molto alta la carica emotiva, tanto da costituire un autentico tour de force per lo spettatore. Merito anche di una profonda empatia che il regista dimostra con i suoi attori: in primis un Ben Kingsley che riesce a sfruttare il suo consueto personaggio inerme rovesciandolo abilmente di segno, e soprattutto una magistrale Sigourney Weaver, che si concede con trasporto al ruolo disegnando una Paulina Escobar al contempo furente e tenera, perfettamente in equlibrio sul doppio registro del desiderio di vendetta e della dolente frustrazione di chi sa che i conti con il passato non possono essere risolti facilmente.

La morte e la fanciulla
(Death and the Maiden)
Regia: Roman Polanski
Sceneggiatura: Ariel Dorfman e Rafael Iglesias, dalla pièce teatrale di Ariel Dorfman
Origine: Usa/Uk/Francia, 1994
Durata: 103’

Articolo su La morte e la fanciulla di Franz Schubert
Sito dedicato a Roman Polanski (in francese e inglese)

domenica 7 dicembre 2008

ComicCult Lecce 2008

ComicCult Lecce 2008

E anche il Salento ha la sua Fiera del Fumetto! E’ iniziata ieri, sabato 6 dicembre, e continuerà fino a domani la prima edizione di ComicCult, per permettere agli appassionati dei comics e dell'animazione di trascorrere un ponte dell’Immacolata diverso dal solito!

Organizzata da “Regno delle Arti” e “Onigiri Group” di Taranto, “Club Giappone” di Brindisi e dalla scuola di fumetto “Lupiae Comix” di Lecce, ComicCult intende diventare un punto di riferimento per il Sud Italia, e per la sua prima edizione propone un programma di tutto rispetto, con ospiti quali il disegnatore Luca Troiano, il sociologo Marco Pellitteri e l’animatrice giapponese Yoshiko Watanabe, già collaboratrice del grande Osamu Tezuka in serie cult come Kimba il leone bianco e La principessa Zaffiro, e poi attiva anche in lungometraggi italiani come La gabbianella e il gatto: una bella occasione per confrontarsi con uno sguardo a cavallo tra Oriente e Occidente!

Presenti anche uno spazio espositivo con gli stand, mostre tematiche, un nuovo evento dedicato ai 30 anni di Goldrake e il concerto finale con il gruppo cover-band dei Raggi Fotonici.

La manifestazione, anticipata da alcuni eventi in giro per il Salento, si tiene al castello di Acaya a pochi minuti da Lecce (è stato approntato anche un servizio navetta dalla stazione).

Sulla carta sembra tutto molto interessante, e conoscendo le difficoltà che caratterizzano la realtà pugliese per le iniziative di carattere culturale, non può mancare un grande in bocca al lupo agli organizzatori per la riuscita di questa bella iniziativa!

UPDATE 11/12/08: Anche stavolta Segnalo il report di Comicsblog.it sull’evento, con galleria fotografica.

Sito di ComicCult
Blog di ComicCult
Sito del “Club Giappone” di Brindisi
Sito della scuola di fumetto di Lecce “Lupiae Comix”
Forum di “Onigiri Group” di Taranto
Sito dell’Associazione “Regno delle Arti” di Taranto

Cinecircolo Casalini 2008/2009

Cinecircolo Casalini 2008/2009

E’ partita venerdì 28 novembre la nuova stagione cinematografica del Cinecircolo Casalini di Taranto, che con i suoi 40 anni di attività costituisce un punto di ritrovo storico per gli appassionati del cinema d’essai e l'associazionismo culturale nel capoluogo jonico. Il programma prevede 13 appuntamenti che copriranno l'arco dell'intero inverno fino a primavera, con proiezioni (ovviamente in pellicola) di alcuni film significativi della passata stagione e omaggi a personalità del mondo del cinema.

Di seguito il programma:

28 novembre – Non pensarci, di Gianni Zanasi
5 dicembre – Un bacio romantico, di Wong Kar-wai
12 dicembre – Pranzo di ferragosto, di Gianni Di Gregorio
9 gennaio - Il matrimonio di Lorna, di Luc e Jean-Pierre Dardenne
23 gennaio – OFFICINEMA: Omaggio ad Anna Magnani
30 gennaio – Grace is Gone, di James C. Strouse
6 febbraio – Juno, di Jason Reitman
13 febbraio – Il falsario: Operazione Bernhard, di Stefan Ruzowitzky
20 febbraio – OFFICINEMA: Omaggio a Sean Penn
27 febbraio – La classe, di Laurent Cantet
6 marzo – Parigi, di Cédric Klapisch
13 marzo – OFFICINEMA: Omaggio a Julian Schnabel
20 marzo – L’innocenza del peccato, di Claude Chabrol

E’ possibile consultare il Blog del Cinecircolo Casalini per le schede critiche dei film, visionare i trailer e scaricare le foto in alta definizione.

Gli spettacoli sono alle ore 17.45 e 21.15, mentre gli incontri di Officinema soltanto alle 17.45.

Appuntamento ogni venerdì presso la Sala Chaplin, in via Plateja 142.

venerdì 5 dicembre 2008

Changeling

Changeling

1928. Christine Collins vive con il figlio Walter in una New York caratterizzata da numerose polemiche nei confronti del corpo di polizia, accusato di violenza e corruzione. Così, quando il piccolo Walter scompare misteriosamente e viene poi ritrovato, la felicità della donna sembra coincidere con la ritrovata autorevolezza dei tutori della legge. Ma quello che è tornato a casa non sembra essere Walter, Christine ne è convinta e si scontra per questo con la polizia, che non intende ammettere l’errore e arriva a internare la donna pur di non far scoppiare uno scandalo. Ma la battaglia avrà un lungo esito.

Il cinema di Clint Eastwood da anni si è concretizzato in un lungo dialogo con la morte, diretto, sincero, asciutto. Eppure, a giudicare dalle ultime pellicole, qualcosa è cambiato e quel discorso che apparentemente pareva denunciare una sorta di status quo con una realtà che aveva cannibalizzato il trapasso proponendosi come spazio fantasmatico, inizia a manifestare dei cenni di protesta, e una voglia di tornare nella carne e nella mente dei personaggi. Non è più dunque tempo di raccontare la fine di un’epica attraverso le gesta di antieroi come Bill Munny (il protagonista de Gli spietati), né tantomeno di dissolvere i propri dubbi nell’annullamento conseguente un doloroso gesto di pietà (si veda il finale di Million Dollar Baby).

Con il nuovo, straordinario, Changeling, infatti, subentra una condizione di resistenza fieramente umana a un dolore vissuto come stasi persistente conto la quale combattere in nome dell’amore filiale. Se Million Dollar Baby in fondo era la storia di un rapporto fra un padre putativo e una giovane ragazza che perdeva la propria integrità fisica, Changeling riparte da quell’annullamento e da quella privazione per cercare una nuova forza, che faccia della protagonista Christine Collins un personaggio in grado di rivendicare il proprio diritto di stare al mondo. Contro gli inganni instillati dalla propaganda storico-sociale (si riveda Flags of Our Fathers) e contro la morte stessa che allunga le sue mani sulla vita del piccolo Walter. Il titolo stesso, non a caso, focalizza l’attenzione proprio sul cambiamento, quello che porta una donna sola a combattere per fare valere le proprie ragioni.

Christine Collins può permetterselo perché in fondo già all’origine la sua condizione è quella di una donna fuori dalle convenzioni del proprio tempo: cresce il figlio da sola in un momento storico certamente poco incline alla condizione della madre single (sebbene questo aspetto non sia particolarmente approfondito dal film), è la prima donna a essere nominata caporeparto nel centralino dove lavora, è, insomma, un personaggio emancipato e indipendente rispetto a una cultura maschilista facilmente identificabile nell’ambiente della polizia. Ma Eastwood dribbla agilmente la trappola della sociologia spicciola per andare al fondo dei sentimenti e di una rabbia che fa appello alla dignità. Ecco dunque che Christine combatte per fare valere il proprio punto di vista e riesce, attraverso una lunga e sofferente opera di sopportazione a svariate umiliazioni, a ottenere infine una legittimazione pubblica delle sue ragioni. Viene dunque rovesciato anche l’inevitabile approdo alla violenza e alla giustizia sommaria come base fondante della cultura e della società americana che caratterizzava il formidabile Mystic River.

Esaurite le formalità giuridiche, la battaglia di Christine diviene quindi intima e personale e riguarda i demoni dell’animo, le paure che la stessa protagonista deve tenere a bada per non recedere dai propri propositi e che si incidono sulla sua figura grazie all’ottima prova d’attrice di una ritrovata Angelina Jolie, che si dona al personaggio con un trasporto davvero commovente e coinvolgente incarnando con la sua esile figura una fisicità sofferta ma indomita. I suoi timori peraltro si riflettono in quelli di più personaggi: dalla polizia che teme per il suo calante prestigio ai bambini che subiscono le violenze del maniaco che li ha rapiti e torturati. Qui il film gioca le sue carte più forti attraverso una regia che senza compiacimenti riesce a trasmettere il senso della violenza, della paura e del dolore mettendo in scena uno spazio cupissimo e puramente noir, che sembra guardare direttamente alla forza espressiva di romanzieri come James Ellroy.

Materiale estremamente ricco in un racconto fluviale che riesce a tenere insieme le sue parti non solo per merito della lucidità e della pienezza del racconto tipicamente eastwoodiana, ma anche grazie anche al lavoro di sceneggiatura del grande J. Michael Straczynski, vero deus ex machina del progetto, da lui inseguito per molto tempo a partire da un fatto reale. Una personalità, quella di Straczynski, eclettica e capace di lavorare, attraverso gli anni, su prodotti di vario genere e formato (cartoni animati televisivi, fumetti, film cinematografici), sempre con grande onestà e capacità. L’incontro con la sensibilità eastwoodiana è stato dunque l’unico approdo possibile per ottenere il risultato migliore.

Sito ufficiale italiano
Sito ufficiale americano
Dichiarazioni di Angelina Jolie

mercoledì 3 dicembre 2008

Lasciami entrare

Lasciami entrare

Stoccolma. Oskar, 12 anni, è un ragazzo introverso che vive in una realtà difficile, caratterizzata dal bullismo dei compagni di scuola. Una notte conosce Eli, una coetanea che si è appena trasferita nell’appartamento accanto al suo e con la quale progressivamente nasce un legame di empatia. La bambina però è una vampira e l’uomo con cui vive le procura le vittime, facendo nascere nel quartiere la sindrome del serial killer. Oskar ben presto scopre la verità, senza che però questo mini nel profondo il legame speciale instauratosi con Eli.

Qualche anno fa la Svezia aveva affrontato il genere vampirico con l’interessante Frostbiten, che però risultava in parte svilito dall’evidente intenzione di realizzare un prodotto d’esportazione. Ora, trasponendo l’omonimo romanzo di John Ajvide Lindqvist (distribuito in Italia da Marsilio), il regista Tomas Alfredson offre invece allo spettatore un esemplare ben più affascinante ed equilibrato di pellicola che riesce a sfruttare in modo molto più opportuno i tempi e i luoghi della realtà e della cinematografia scandinava.

Certo, l’idea di una storia di vampiri ambientata in un contesto nevoso non è originale e, anzi, di recente è stata anche ampiamente saccheggiata dalla saga fumettistica di 30 giorni di notte (dalla quale è stato tratto anche il deludente film 30 giorni di buio), ma in questo caso la capacità del regista sta tutta nell’essere stato capace di sfruttare tale location in senso non esotico, ma sostanziale. Quello che infatti vediamo è un universo raggelato, dove il tempo sembra essersi fermato e dove gli unici personaggi in grado di produrre lo scarto che genera un nuovo e possibile legame sono due dissociati: l’introverso Oskar e la vampira Eli. Respinti da una comunità che vede l’uno vittima del bullismo e l’altra come un mostro sanguinario, i due stabiliscono un legame proprio in virtù della loro capacità di armonizzarsi con l’immoto scorrere del non-tempo in un non-luogo. Alfredson da questo versante lavora proprio sulla cristallizzazione di un immaginario, mostrando una realtà apparentemente immobile in un passato prossimo dove la tecnologia non ha attecchito, dove i ragazzi possono divertirsi con un gioco desueto come il Cubo di Rubik e comunicare con l’arcaico codice morse: la prigionia di Eli, rinchiusa in una eterna pre-adolescenza è inoltre perfettamente coerente con la “gabbia” sociale che blocca i personaggi in ruoli ben definiti.

Il racconto pertanto si prende i suoi tempi, indugiando su piccoli gesti e sulla speciale comunicazione fra i due ragazzi, fatta di pause, silenzi, frasi incomplete, dove il toccarsi attraverso una barriera (sia essa un vetro, una parete o una scatola di cartone) diventa un modo molto personale di stabilire un contatto, simbolo di un legame che travalica le convenzioni comuni e stabilisce un codice intimo ed esclusivo.

L’empatia fra i due ragazzi finisce così per scompaginare i codici prestabiliti e vede Oskar tentare una prima ribellione contro i “bulli” della scuola innescando una catena di rivalse che non faranno altro che cementificare ulteriormente il legame con Eli e con la sua realtà fatta di crisi rabbiose, cui pure la ragazza tenta di resistere per non ferire il compagno. Si evidenzia in questo senso una componente esistenziale e intimista che arricchisce la storia, conferendole una vena particolarmente tenera e in grado di catturare lo spettatore e di conferire al tutto una vena di realismo particolarmente accentuata.

Proprio in virtù della forza espressiva già presente nella descrizione del legame affettivo, spiace però che Alfredson non abbia optato per un approccio ancora più radicale e asciutto, che negasse totalmente la componente fantastica, qui esplicitata sotto forma di alcune superflue scene spettacolari (Eli che si arrampica sui muri a mo’ di ragno ad esempio), anche se non si può negare che la gestione delle atmosfere prettamente orrorifiche risulti comunque indovinata e in grado di offrire un sincero brivido in più di un passaggio. Sicuramente inutile appare invece il subplot incentrato su una donna vampirizzata e sulle sue peripezie prima dell’inevitabile fine.

Il film funziona dunque soprattutto quando in scena sono i due protagonisti, ben interpretati dai giovanissimi Kåre Hedebrant e Lina Leandersson, antitetici nell’aspetto (lui biondo e dalla carnagione chiara, lei bruna e dall’aspetto poco curato, con il viso spesso sporcato dal sangue) e in grado per questo di far risaltare in modo ancora più fulgido la particolare natura di un rapporto basato sulla conciliazione degli opposti. Di fronte a questa particolare forza, per fortuna, le perplessità scivolano facilmente in secondo piano, facendo del film un prodotto molto interessante che riesce a dire la sua nell’inflazionato panorama degli horror vampirici.

Presentato in anteprima al Torino Film Festival 2008 (Fuori concorso), il film sarà distribuito nelle sale italiane da gennaio 2009 dall’etichetta indipendente Bolero Film.

Lasciami entrare
(Låt den rätte komma in/Let the Right One In)
Regia: Tomas Alfredson

Sceneggiatura: John Ajvide Lindqvist, dal suo romanzo
Origine: Svezia, 2008
Durata: 114’

Sito ufficiale svedese
Sito ufficiale inglese
Articolo sul romanzo con intervista a John Lindqvist
Trailer italiano HD

lunedì 1 dicembre 2008

Torino Film Festival: The Day After

Torino Film Festival: The Day After

Nel 1996, in occasione della scomparsa di Lucio Fulci, lo sceneggiatore Dardano Sacchetti ricordava una domanda che, a suo dire, il regista de L’aldilà gli sottoponeva alla presentazione di ogni progetto: “dov’è il Lepre?”. Il Lepre era quello che manzonianamente si potrebbe definire “il sugo della storia”, quell’essenza più intima che tiene insieme un progetto, lo plasma e gli dà un senso e una forma. Mi è capitato più volte in questi giorni trascorsi tra le 11 sale cittadine che hanno ospitato l’edizione 26 del Torino Film Festival di ripensare a questa domanda: dov’è il Lepre? Qual è il senso che questo festival profondamente rinnovato vuole esprimere?

I numeri, si sa, sono sempre quelli che dettano legge e quindi di fronte agli ottimi incassi e al coro unanime di consensi che ha accompagnato in questi due anni l’opera del direttore Nanni Moretti risulta facile mettere da parte le singole perplessità e accettare l’idea rilanciata dalla grancassa mediatica che il festival si sia rinnovato nella continuità con il passato, modernizzandosi senza cambiare pelle. Ma in realtà quello che dovrebbe risultate evidente è che il festival, così come è ora, non riflette più una particolare identità, non è cinefilo come la Mostra di Venezia (era Muller) o glamour come la Festa di Roma (era Veltroni) e il suo perseguire un’idea di rigore sa di immobilismo. Un’opera di moralizzazione cinefila che sa di pura e semplice “morettizzazione”, all’inseguimento del cinema serio che inevitabilmente vuol dire serioso, di un programma che non produce scossoni e si preoccupa principalmente di contingentare gli spazi in percorsi ben definiti e impermeabili a se stessi, ironicamente in contrasto con l’atteggiamento informale e il look “spettinato” del Direttore.

Ecco dunque che le retrospettive non favoriscono una dialettica con il presente (anche perché viene a mancare il controcampo fornito un tempo da sezioni come “Americana”), ma sono corpi immobili in una visione da cineteca, museificatrice, oltre a risultare chiaramente in numero eccessivo - perché usare l’interessante tema della “British Renaissance” come “cuscinetto” fra le due personali quando sarebbe stato molto più interessante rinviarla a una futura edizione in una forma più elaborata?

Lo stesso in larga misura accade anche con le sezioni principali, fautrici di un cinema ben fatto e “corretto”, ma senza particolari scossoni, che non a caso vede diminuire drasticamente la presenza del pubblico giovane per lasciare spazio a un’utenza mediamente più matura, non classicamente festivaliera e per questo poco entusiasta, che dona nuovo senso alla classica espressione “strappare l’applauso”, tanto restìa è la sua risposta alla fine delle pellicole (di ieri e di oggi). Come è possibile continuare a selezionare opere come Non-Dit di Fien Troch quando il tema dell’affetto filiale negato dalla privazione di un figlio viene negli stessi giorni completamente riplasmato dall’immenso Clint Eastwood di Changeling che ne fa un’opera intensissima sulla persistenza del dolore e la necessità di un confronto sullo stesso, senza inutili e forzate patine autorialistiche?

Manca insomma quel piccolo scarto che permetta lo speedball nell’imprevisto, mancano gli eventi, ché tale non si può certo definire l’anteprima di un progetto già fallimentare in partenza come il W. di Oliver Stone. Il che non significa banalmente che manchi lo strumento da gossip (del quale se ne fa anzi volentieri a meno), ma che manca una varietà, un elemento di leggerezza che arrivi a confondere le carte e a dare il giusto legame di continuità fra gli spazi tra loro più diversi.

Non è un caso che le uniche sezioni davvero degne di nota risultino essere, per concezione e per risultati, “La Zona” e la piccola rivelazione “L’amore degli inizi”: la prima infatti è l’unico spazio coerente con il suo tema e capace di mostrare un panorama variegato che nella serietà dei propositi e nella necessità di ricerca si preoccupa anche di disequilibrare i margini per offrire spazio a operazioni tra loro differenti e destinate a pubblici, sicuramente ristretti, ma comunque trasversali. Si vedano in questo senso il sorprendente corto animato Chainsaw di Dennis Tupicoff, lo splendido affresco metropolitano Plot Point di Nicolas Provost, il fluviale Historias Extraordinarias di Mariano Llinás e la bellissima personale dedicata a Kohei Oguri.

Gli esordi del cinema italiano, correlati da dibattiti (molto ben fatti e interessanti) che hanno visto insieme lo stesso Direttore e registi quali Marco Tullio Giordana, Claudio Caligari, Salvatore Piscicelli descrivono invece uno spazio coerente con il ruolo critico che Moretti si è voluto (e potuto) ritagliare da sempre all’interno del panorama italiano e anche una intelligente risposta alle “lezioni di cinema” romane, rilette ovviamente alla luce del taglio rigoroso e storicistico prediletto dalla “piazza” torinese. Un momento per parlare del passato prolungando lo sguardo fino al presente, attraverso i confronti del caso e le parole di chi il cinema di ieri lo ha fatto e continua ancora oggi a confrontarsi con la contemporaneità. E anche un’occasione per vedere all’opera piccoli squarci di vita, di pensieri per immagini che si fanno sostanza di emozioni.

Che è poi ciò che manca ormai all’ombra della Mole, dove quello che è diventato nel tempo uno dei principali poli produttivi e culturali del nuovo cinema italiano ha avuto bisogno dell’autore esterno per fare coagulare le varie anime interne al panorama locale: la Storia in fondo insegna, alla fine il Signore giunge da lontano per sedare i contrasti all’interno del Comune, nella convinzione che tutto continuerà a scorrere come prima, anche se poi, sotto la calma apparenza garantita dalla superficie, c’è una sostanza che viene plasmata nel profondo.

Cosa auspicare dunque per questo festival in deficit di anima? Di aprirsi maggiormente al mondo mettendo però in discussione il successo fin qui così clamorosamente conquistato? Ognuno evidentemente faccia le scelte che ritiene più opportune, e alla fine parlino i risultati: l’affluenza generica dei molti e lo scontento motivato dei pochi, ricordando però che il parallelo è da intendersi anche come la differenza che passa tra un festival di successo e uno realmente indispensabile. Che non sempre sono la stessa cosa.

Galleria fotografica del Torino Film Festival 2008

mercoledì 19 novembre 2008

Torino 2008

Torino 2008

Non è facile mettere in ordine i pensieri riguardo al Torino Film Festival. Da un lato c’è il ricordo di quello che, fino a pochi anni fa, era il più bel festival d’Italia, fautore di una visione artistica e critica all’insegna della mescolanza totale dei generi e dei formati, senza classificazioni tra “alto” e “basso” e fra “autori” e “industria”, che non a caso era definito – e rivendicava di esserlo – un festival “scanzonato”. E questo tanti anni prima di Venezia e delle sue (diversamente significative) retrospettive “nocturne”.

Poi arrivò la tempesta, sotto forma di una pesante riorganizzazione che ha visto il festival diventare parte di quel più grande progetto che mira a fare di Torino un polo culturale e produttivo alternativo a Roma, con la sua attivissima Film Commission e il Museo del Cinema. E il festival ha smesso gli abiti “alternativi” e ha indossato giacca e cravatta per dare forma a un appuntamento più istituzionale. Al vertice della piramide, come personaggio carismatico in grado di fare da garante della nuova identità è stato posto Nanni Moretti, figura simbolo di una cinefilia rigorosa, ma allo stesso tempo controversa e conservatrice, contrassegnata anche dal disprezzo per alcuni generi che del festival di Torino hanno paradossalmente fatto la storia (primo fra tutti l’horror).

L’edizione 2008 sulla carta si preannuncia in ogni caso degna di nota. Lasciamo pure da parte le cifre che, giustamente, i selezionatori sbandierano con tanto orgoglio, le prime visioni dei registi più blasonati e tentiamo di navigare a vista in un programma davvero corposo: la prima cosa che salta all’occhio è l’ottima qualità delle retrospettive, che permettono di esplorare le carriere di due autentici maestri come Jean-Pierre Melville e Roman Polanski. A questi si affianca l’omaggio alla British Reneissance degli anni Ottanta e Novanta (quella di autori come Ken Loach e Stephen Frears).

Quindi la sezione sperimentale “La Zona”, curata con competenza e passione dall’amico e collega Massimo Causo con gli omaggi dedicati a Stephen Dwoskin, Ken Jacobs e al maestro giapponese Kohei Oguri, punta di diamante di un’offerta ricercata e potenzialmente molto interessante.

Da segnalare anche, nella sezione “Italiana.Doc” i nuovi lavori di Mauro Santini, Paolo De Falco e Daniele Gaglianone, fra gli sguardi più curiosi e vitali del cinema italiano alternativo, sempre in cerca di stimoli sui quali sperimentare interessanti soluzioni visive e narrative in grado di far trasparire la traccia delle emozioni (quelle che in fondo sempre chiediamo nel buio della sala).

E poi ancora gli “Eventi Speciali” e l’interessante spazio “L’amore degli inizi”, dedicato agli esordi di autori come Peter Del Monte, Claudio Caligari, Giuseppe Bertolucci.

Tutto questo senza dimenticare, ovviamente, la sempre presente speranza di nuove folgorazioni: i presupposti sono quindi buoni per lasciare da parte le perplessità e intraprendere l’avventura con curiosità e soddisfazione, sperando che il Torino Film Festival si confermi come un appuntamento degno di nota, al di là dei paragoni con il suo ingombrante passato.

L'appuntamento sotto la Mole è dal 21 al 29 novembre.

Il sito del Torino Film Festival

mercoledì 12 novembre 2008

Las Horas Muertas

Las Horas Muertas

Due coppie in un camper sono ferme ai confini di una statale immersa nel deserto: un cecchino li prende di mira trasformando la vacanza in un incubo.

Quattro protagonisti. Il deserto. Unica possibile via di fuga, come una ferita a squarciare la monotonia del paesaggio una strada, attraversata quasi esclusivamente da camion. In mezzo al tutto e al nulla. E poi un cecchino, che prende di mira i ragazzi.

Basta davvero poco a Haritz Zubillaga per dare forma a un’idea tanto semplice quanto precisa, che pesca da modelli consolidati con la sicurezza di chi sa quel che vuole e lo persegue con convinzione, regalando ai tredici minuto di girato un impatto stilisticamente maturo e narrativamente teso.

Las Horas Muertas (anche noto come Killing Time) diventa così la cronaca di un disfacimento sociale già in atto: non sappiamo nulla dei protagonisti, i nomi dei loro interpreti compaiono come pallottole caricate in canna su fondo nero nella breve sequenza dei titoli di testa e tanto ci deve bastare. Ma è subito evidente come i quattro siano immersi in una convivenza di cui farebbero volentieri a meno, dove dominano gli egoismi delle parti, elementi di uno schema ridotto alle componenti essenziali e virato tragicamente al nero. La presenza del cecchino appare quindi come la materializzazione di quell’oscuro sentire che già attanaglia gli animi e non ha per questo bisogno di motivazione: può essere il suo un gioco perverso o una sorta di punizione per un mondo che deve costantemente imparare a convivere con l’orrore perché non ha possibilità di concepire altro.

Non a caso in questo microcosmo fatto di terra (quella brulla e pietrosa del deserto), aria (quella del cielo che sovrasta tutto e sembra non conoscere orizzonte), fuoco (quello che brucia le carni) e tempo (il poco concesso dalle implacabili pallottole del cecchino) quello che manca è proprio l’elemento vivificatore per eccellenza, l’acqua, mentre il suo unico surrogato, la birra, è il primo bersaglio delle mortali pallottole.

E si procede così, inesorabilmente, in un puro meccanismo di tensione che Zubillaga conduce stringendo sui volti e curando particolarmente i dettagli, dando significato a ogni gesto e a ogni pulsione, come il desiderio che Samuel prova per Ana, la più spregiudicata (e sensuale) del gruppo: nell’attimo del maggiore pericolo, quindi, è ancora l’istinto di parte a reclamare la sua centralità, secondo l’ottica dell’assurdo cara all’intera pellicola. Il tutto è poi immerso in una fotografia dai colori saturi, che rimanda tanto agli archetipi dell’horror anni Settanta (lo scenario è praticamente lo stesso de Le colline hanno gli occhi) quanto a quello del western, in particolare di quello italiano per l’insistente fischiettare del killer, che contrappunta le azioni e costituisce la ficcante colonna sonora del film.

Il sonoro è d’altronde l’altro importante elemento che Zubillaga cura con particolare dedizione, dando forma a una cacofonia di rumori che vanno dal costante sibilo delle pallottole al rombo dei camion in marcia sulla statale; e poi il montaggio, che permette al film di vantare una tempistica molto precisa, con sprazzi di orrore che fanno improvviso capolino nei momenti di apparente calma, mentre le traiettorie descritte dai proiettili forniscono nuove possibili vie di fuga a protagonisti/cavie osservati beffardamente nei loro vani tentativi di salvare la propria vita.

Il tutto inesorabilmente conduce alla normalizzazione dell’orrore, alla presa coscienza di un’esistenza in trincea che sembra rinfacciare all’uomo moderno e alla sua sicurezza, tracotante eppure fragile, la propria misera condizione di forzata prigionia all’interno di un alveo sempre più oscuro e decadente, che permette infine al film di sfociare senza remora nell’horror. Ma stavolta non ci sarà il Boris Karloff del bellissimo Bersagli a fermare romanticamente il mostro.

Las Horas Muertas è pertanto un’opera che lavora sulle percezioni e sul capovolgimento della realtà, sulla confusione dei sensi che non riescono a definire più lo spazio nel quale ci si muove e che giustifica le domande lasciate senza risposta, le motivazioni inespresse e la situazione di perenne incertezza sul quale l’assunto parte, si muove e infine giunge.

Premiato (meritatamente) con l’Anello d’Argento per il miglior cortometraggio al Ravenna Nightmare Film Fest 2008.

Las Horas Muertas
Regia e sceneggiatura: Haritz Zubillaga
Origine: Spagna, 2007
Durata: 13’

Las Horas Muertas su Vimeo
Sito della produzione Basque Film

lunedì 10 novembre 2008

Hush

Hush
 
Due ragazzi, Zakes e Beth, viaggiano in auto lungo una statale sferzata da una pioggia torrenziale: lui deve fermarsi a ogni stazione di servizio per affiggere alcuni manifesti pubblicitari e il rapporto fra i due è segnato da continui litigi. D’un tratto Zakes sembra intravedere, nel rimorchio di un camion che lo precede lungo la strada, una ragazza urlante. Dopo aver chiamato la polizia ed essersi fermato alla successiva stazione di servizio, il ragazzo ha un ennesimo litigio con la compagna e i due si separano. Ma quando Zakes torna indietro per recuperarla, Beth è sparita e gli indizi lasciano pensare che sia stata rapita dall’autista del misterioso camion. E’ l’inizio di una notte di tensione!

Opera d’esordio di Mark Tonderai, già attore e dj per la BBC Radio1, che qui si cimenta nel doppio ruolo di sceneggiatore e regista, affidando poi interamente la narrazione all’interprete William Ash, che riesce a districarsi bene fra le varie situazioni offerte dal copione, regalandoci un bell’esempio di performance fisica, totalmente immersa nella vicenda. In effetti che Hush, a dispetto del titolo sia un film ossessivo è indubbio, nonostante l’assunto da road-movie porti l’azione a spaziare parecchio. Anzi, parte dell’interesse del film sta proprio nella dialettica che mette in scena fra spazi claustrofobici (il rimorchio del camion, i bagni pubblici, gli abitacoli, le abitazioni) e la vastità degli spazi nei quali protagonisti e macchine si muovono (la statale, i campi, le case immerse nel nulla). D’altronde il film racconta dichiaratamente di un difficile incontro di mondi nel momento in cui eleva la particolare situazione thriller ad archetipo del conflitto tra due innamorati: il rapimento con conseguente avventura per ritrovare l’amata diventa infatti per Zakes un momento di espiazione delle proprie mancanze in quanto compagno spesso assente e superficiale; e, va da sé, la perdita assume anche valore in quanto momento qualificante per comprendere l’importanza di chi non è più vicino. 

Temi senz’altro semplici, ma che il film manovra con convinzione, non preoccupandosi di essere a ogni costo originale: d’altronde la struttura è puramente di genere, con tutto ciò che ne consegue in termini di esemplificazioni e ingenuità. Il protagonista quindi corre, ansima, si ferisce, si nasconde, spesso sbaglia, è avventato e stimola in questo modo l’attenzione dello spettatore che secondo un meccanismo tipico del thriller, passa dall’identificazione per il dramma alla posizione critica di chi teme per il destino che un singolo errore può determinare.

Quel che poi resta è ancora una volta lavoro di regia: praticamente tutto il film è girato con la macchina a mano, secondo lo stile più recente, tipico non del Real-movie (il film non è certo in soggettiva, ma adotta un punto di vista tradizionale), ma di quella espressività propria di chi si vuole immergere nell’azione per comunicare l’urgenza del momento. In questo senso la “sporcizia” dell’inquadratura “mossa” scontorna i luoghi dell’azione regalando una qualità espressionista che impedisce allo spettatore il conforto della chiarezza dei fatti. La stessa visione della donna prigioniera nel retro del camion è quasi una fulminea visione, un flash, del quale è pure lecito dubitare, potrebbe in fondo essere soltanto un sintomo del nervosismo e della stanchezza che affligge un protagonista collerico e frustrato per la crisi in atto nel suo rapporto di coppia. E il successivo tour-de-force impedisce di pensarci troppo delegando tutto al finale risolutore.

In questo modo Tonderai riesce a conferire al film una qualità espressionista, complice anche un bel lavoro con il direttore della fotografia Philipp Blaubach, che satura i colori al punto giusto, creando un impasto di tinte, fra il nero della strada, il blu delle carrozzerie, i gialli e i rossi delle varie luci che compaiono sulla statale. Anche questo in fondo contribuisce a confondere le percezioni regalando a una vicenda ben codificata un look non banale e vagamente visionario.

Ne viene fuori un puro meccanismo della tensione, fatto di sentimenti forti e traiettorie in continuo rinnovamento, che si articola attraverso una narrazione tesa e stringata, capace di esaurire completamente il suo scopo nei canonici 90 minuti di durata, omaggiando anche classici come Duel o il mai troppo lodato The Hitcher, ed evitando per fortuna la facile lusinga di creare il classico villain da B-movie (nonostante il killer si comporti proprio come un boogeyman senza volto, con il suo agire calmo e apparentemente distaccato). Piccoli grandi meriti che permettono ad Hush di ritagliarsi un giusto spazio nel panorama già abbastanza ricco delle proposte d’oltremanica.

Il film è stato presentato al Ravenna Nightmare Film Fest 2008 e al momento non si hanno notizie di una possibile distribuzione italiana.

UPDATE: distribuito in Italia attraverso il solo circuito dell'home video il 24 Gennaio 2013, con il titolo Panico - Hush.


Hush
Regia e sceneggiatura: Mark Tonderai
Origine: Uk, 2008
Durata: 90’

giovedì 30 ottobre 2008

This is Halloween

This is Halloween

Anche l’Italia da qualche anno festeggia la ricorrenza di Halloween: lo fa con il piglio di chi a tratti si sente un po’ colonizzato dalla “festa americana” (sebbene l’origine sia nord-europea e poggi su una rete di usanze e culti pagani rintracciabili anche nel folklore di molte comunità nostrane), ma anche con l’entusiasmo fanciullesco di chi può vivere tutta l’atmosfera liberatoria e folle di un giorno capace di esorcizzare antiche paure e offrire un’occasione di divertimento collettivo.
In fin dei conti è ancora una volta un modo per celebrare un immaginario, che porta con sé il suo corollario di usanze e riti, che vanno da quello più diffuso del “dolcetto o scherzetto” a quello maggiormente faceto delle rassegne di film horror tra amici per una nottata nel segno del “gioco della paura”.
Se quindi, come il sottoscritto che da piccolo guardava con grande trasporto emotivo (e un pizzico d’invidia) i servizi televisivi sulla parata in maschera di New York, sapete vivere la notte del 31 ottobre con il giusto spirito, a voi vanno gli auguri per questa festa così poco istituzionale ma unica nel suo genere.
Buon Halloween!

lunedì 27 ottobre 2008

Lucca 2008

Lucca 2008

L’altro grande appuntamento di fine ottobre è da tempo quello che vede gli appassionati di fumetti, animazione e videogames chiamati “a raccolta” per la Fiera di Lucca, città ormai deputata a vera e propria capitale italiana per questi settori dell’industria dell’entertainment.

E dopo anni di rodata esperienza (nonostante i pessimi collegamenti della città e le strutture alberghiere insufficienti a contenere la mole di appassionati che si riversano in loco) Lucca Comics & Games ha assunto una grandiosità tale da immergere, per i pochi giorni della sua durata, l’intera comunità nell’evento: in effetti, l’aspetto più bello della Fiera è quel suo svolgersi non in un anonimo padiglione periferico (come spesso avviene con questi eventi), ma – da un paio d’anni almeno – nel cuore stesso del centro storico, con gli stand incastonati fra gli angoli delle piazze, a costituire un percorso i cui punti d’unione sono i sempre più variopinti cosplayer (gli appassionati “mascherati” da personaggi dei fumetti o dei cartoni animati) che attraversano ogni via in una sorta di carnevale d’autunno (e quindi il fatto di incrociare anche la festività di Halloween non è una scelta peregrina, tutt’altro!).

Quest’anno la macchina si rimette in moto con un manifesto firmato dal grande Leo "Rat-Man" Ortolani che focalizza già l’attenzione su uno dei temi portanti della Fiera, ovvero i 30 anni di Goldrake in Italia, con una serie di eventi che vedranno coinvolte varie realtà.

La Marvel (e con lei la Panini, licenziataria del marchio per il nostro paese) dal canto suo risponde con un super-super-ospite quale John Romita Jr., storico disegnatore di albi memorabili dell’Uomo Ragno e di Devil, che festeggia anche lui il trentennale della sua grande carriera e che quindi firmerà autografi e presenzierà all’uscita di un volume a lui dedicato (e per fortuna non troppo costoso, siamo sui soliti 12 euro delle pubblicazioni da libreria “made in Panini”).

E poi tanti altri appuntamenti offerti dai più svariati editori del settore (che in ordine alfabetico vanno dalla “B” di Bonelli, alla “Z” di Zannablù), ospiti prestigiosi che travalicano le categorizzazioni (Giorgio Faletti, Carlo Lucarelli, Dario Argento) e il consueto spazio dedicato ai concerti, che vedrà quest’anno, fra gli altri, ospiti Vito Tommaso, Cristina D’Avena e gli ormai veterani Superobots.

Insomma, dal 30 ottobre al 2 novembre ci sarà da divertirsi!

Il sito ufficiale di Lucca Comics and Games

domenica 26 ottobre 2008

Ravenna 2008

Ravenna 2008

Ha cambiato date già da un anno e nel 2007 aveva fatto tremare i suoi fedelissimi non per la ferocia delle immagini che abitualmente scorrono sullo schermo del multiplex CinemaCity, ma per una contrazione eccessiva del programma, che sembrava presagire un brusco ridimensionamento; e invece quest’anno il Ravenna Nightmare Film Fest si ripresenta in buona forma, con un’offerta di titoli assolutamente degna di rispetto e in grado di ricordarci che si tratta pur sempre dell’appuntamento più importante che abbiamo in Italia riguardo al cinema horror (quello mainstream perlomeno). Uno spazio utile per monitorare le tendenze in atto nel mercato del genere, intrecciandole magari con le lezioni fornite dal fecondo passato.

Stavolta i due eventi sono rappresentati rispettivamente dall’anteprima di Frontières di Xavier Gens (dal 9 novembre nelle sale italiane), nuovo esponente della generazione dello splatter francese, e, soprattutto, il ritorno del cult-director Frank Henenlotter che dopo i deliri anni Ottanta di Basket Case e Brain Damage stavolta ci riprova con il nuovissimo Bad Biology.

Non per fare i nostalgici a tutti i costi, ma da queste parti forse l’appuntamento più atteso è poi la rassegna “Animal Attack”, dedicata ai classici del cinema “bestiale” riproposto in copie vintage 16 mm! Come resistere a uno spazio che promette di far rivivere su grande schermo le imprese dell’originale King Kong, delle formiche di Assalto alla Terra, che promette di sedurre il pubblico con Il bacio della pantera e vuole celebrare la gloria del grande Maestro della Science Fiction Jack Arnold con capolavori quali Tarantula e Radiazioni BX: distruzione uomo? Semplicemente non si può e quindi meglio immergersi nelle proiezioni in notturna in grado di collegare passato e presente nell’arco che dall’ottobre passa al novembre, incrociando la data simbolica del 31 con la festa di Halloween!

Si parte quindi domani, lunedì 28 e si chiude l’1 novembre: per chi ci sarà come sempre l’appuntamento è in sala.

Il sito del Ravenna Nightmare Film Fest

giovedì 23 ottobre 2008

Remington Steele

Remington Steele

Solitamente, quando si pensa agli anni Ottanta, l’immaginario che subito balza in mente è quello barocco e fracassone, che tende spesso a sconfinare nel kitsch, tipico soprattutto della seconda metà del decennio. Si tende pertanto a dimenticare invece quell’interessante momento di passaggio che ha visto nuove generazioni di autori confrontarsi in maniera feconda e interessante con i codici espressivi e narrativi del cinema classico per adeguare gli stessi al gusto delle nuove generazioni, dando vita a prodotti vitali e intelligenti.

La serie tv Remington Steele è uno degli esempi più puri di questi prodotti “di mezzo”, capace quindi di riverberare la forza dei modelli dai quali attinge a piene mani, risultando però non parassitario, ma anzi intrigante e ancora oggi abbastanza godibile. Trasmessa inizialmente dalla tv italiana con lo strano titolo Mai dire sì, la serie in questione è stata prodotta da MTM Enterprise per il network NBC ed è andata in onda (in America) dal 1982 al 1987 articolandosi in cinque stagioni per un totale di 94 episodi. Protagonisti indiscussi erano un ancor giovane e semisconosciuto Pierce Brosnan e la brava (sebbene poco fortunata) Stephanie Zimbalist.

La storia si incentra sulla giovane e capace detective privata Laura Holt che, dopo aver constatato la diffidenza dei clienti a fidarsi di un’investigatrice donna, si inventa un immaginario principale, Remington Steele appunto, al quale intesta la sua agenzia. Un giorno, però, un raffinato ladruncolo irrompe nella sua vita assumendo l’identità di Remington Steele e affiancando Laura nelle sue quotidiane avventure.

A un livello primario Remington Steele è una serie giallo-rosa che sfrutta l’elemento thriller come supporto per la componente comedy fornita dai continui battibecchi tra i due protagonisti: Laura infatti sopporta a fatica l’inganno del quale si è resa involontaria complice con l’arrivo del suo falso “principale” (del quale non si saprà mai il vero nome), è chiaramente la più capace del duo e deve da un lato portare avanti l’attività, dall’altro vigilare perché l’impostore non comprometta la rispettabilità della ditta a causa della sua inesperienza di investigatore. Il che inevitabilmente dà vita a una serie di divertenti equivoci che si sposano più in generale con una riflessione sui ruoli dei due personaggi e sul rapporto tra i sessi in una società che non ha ancora permesso alle donne la piena emancipazione e, anzi, continua a perseguire un’ideale divisione dei compiti. Materiale perfetto per una screwball comedy di impianto classico, genere dal quale la serie attinge in maniera precisa con dialoghi veloci e frizzanti, in grado di conferire brio a una serie basata più sul confronto verbale che sugli eventi. Steele e Laura, insomma, possono essere visti come una sorta di versione moderna di Nick e Nora Charles, i protagonisti della splendida saga de L’uomo ombra o delle classiche coppie alla Katherine Hepburn/Cary Grant, anche se aggiungono una dose di chimica sessuale in più, grazie al carisma e al fascino dei due interpreti, in grado di conferire un sapore più moderno al prodotto. Quello tra Steele e Laura, in fondo, è nient’altro che un lungo corteggiamento fra due personaggi dal carattere opposto, destinato a trascinarsi per tutta la durata della serie.

Tutto questo permette a Remington Steele di fare il paio con un altro importante telefilm degli anni Ottanta come Moonlighting, interpretato da Cybill Sheperd e Bruce Willis (e creato dallo stesso produttore, Glenn Gordon Caron).

L’elemento nuovo è fornito dall’inserimento, in questo schema per l’appunto classico, dell’elemento finzionale: in un nuovo mondo che bada molto all’apparenza più che alla sostanza, quindi, la rappresentazione diviene uno strumento capitale per potersi muovere tra le pieghe del reale e perseguire i propri scopi. L’idea è sfruttata sia a livello squisitamente narrativo, per generare continui equivoci, sia teorico, attraverso un gioco di rispecchiamenti con una serie di modelli che Steele rievoca esplicitamente. Il personaggio è infatti un fervente cinefilo che si rapporta ai casi attraverso quanto ha imparato dai film che ha visto durante la sua vita (dei quali sistematicamente cita gli elementi con la classica formula cinefila americana della quale si è scritto nell’articolo sulla Warner). E l’aspetto più interessante sta nel fatto che quasi sempre questi “insegnamenti” si rivelano utili e corretti, perfettamente adattabili alle situazioni generate dal meccanismo giallo: è chiaro dunque come si sia all’interno di uno schema che non cerca i suoi referenti nel mondo reale, ma è perfettamente conchiuso in un percorso referenziale e citazionista, che ci dice della natura postomoderna del serial, dove l’apparenza è sostanza e la consapevolezza del proprio agire in rapporto a un modello preesistente è evidente.

Remington Steele diventa quindi un puro gioco cinefilo che viene ingaggiato con lo spettatore consenziente (meglio se conoscitore dei film di volta in volta chiamati in causa) fornendo nuove prospettive su scene e meccanismi già noti, con un esito brillante e ricercato.

Ciò permette al telefilm di superare anche alcuni difetti tipici del prodotto seriale anni Ottanta, quali l’estrema povertà di una regia basata in prevalenza su primi piani, e una fotografia piatta (in antitesi a quanto invece avviene oggi, in maniera anche smodata), cui i produttori cercano comunque di ovviare attraverso una varietà di situazioni e di luoghi che portano le stagioni finali ad essere parzialmente ambientate anche in Europa e in location lontane da quelle tradizionali del giallo o della commedia sofisticata. Entrano dunque in ballo rivali in amore per Steele, come il personaggio dell’avventuriero interpretato da Jack Scalia (secondo un modello tipico dell’eroe anni Ottanta alla Indiana Jones o Jack Colton – il personaggio di Michael Douglas in All’inseguimento della pietra verde), fatto che dimostra anche la capacità del format di assorbire gli stimoli offerti dall’immaginario contemporaneo.

Pagina di Mai dire sì su Wikipedia
Remington Steele Fan Page (in inglese)
Lista dei film citati nel serial
Sito ufficiale di Pierce Brosnan
Sito ufficiale di Stephanie Zimbalist

lunedì 20 ottobre 2008

Wall-e

Wall-e

Siamo nel futuro e la Terra è ormai disabitata e coperta dai rifiuti: unico superstite è Wall-e, un robot spazzino che compatta l’immondizia per realizzare dei cubi destinati a diventare i mattoni dei nuovi palazzi. Un giorno però sul pianeta arriva un’astronave aliena che libera Eve, un robot spia il cui compito è trovare tracce di vita organica: elegante nei movimenti ma anche capace di sfoderare arme letali, Eve fa breccia tra gli ingranaggi che compongono il cuore meccanico di Wall-e, che riesce a superare il suo carattere spigoloso e a proteggerla dalle intemperie che periodicamente affliggono il pianeta. Tutto questo fino a quando Eve non trova una pianta e fa pertanto ritorno all’astronave madre, ultimo baluardo di una umanità impigrita e schiava del benessere. Una umanità che ora dovrà fare ritorno al pianeta che sta risorgendo, ma che dovrà per questo superare la ritrosia delle macchine, asservite a una vecchia direttiva che ordina di restare nello spazio. Wall-e e Eve diventeranno l’ago della bilancia per superare l’empasse.

Che piacere notare come la Pixar non sia schiava del suo successo e si permetta di sperimentare e cercare nuove vie: chi altri dopo i grandi successi de Gli incredibili e Ratatouille si permetterebbe di realizzare un film così poco “per famiglie” come Wall-e, quasi privo di dialoghi e deliziosamente retrò nell’affidarsi a gag visive da slapstick (evidenti sin dal cortometraggio Presto che precede la proiezione) e che in mezzo infila anche una critica all’opulenza del presente? Sembra di rivedere lo Spielberg degli esordi, che dopo i successi de Lo squalo e Incontri ravvicinati del terzo tipo, si prendeva la libertà di ridersi addosso con il sottovalutato 1941: Allarme a Hollywood!

Il paragone con il grande regista americano è rafforzato anche dall’evidente debito che il design di Wall-E paga nei confronti di E.T. (ma non va dimenticato anche il simpatico “Numero 5” di Corto circuito), con occhi dotati di una espressività molto marcata, al punto da definire lo spazio all’interno del quale si articola il discorso caro a Andrew Stanton e al suo staff. In fondo il problema sta tutto nel vedere, nell’essere distratti da annunci pubblicitari che inducono a non pensare a quanto si sta facendo, in una perenne coazione a ripetere che produce un conformismo sfrenato annullando ogni volontà e rendendo ogni persona un prodotto riconoscibile di un meccanismo rodato (e qui si potrebbe fare riferimento anche a Minority Report, sempre di Spielberg). Ma più del detto, di quanto viene (anche didascalicamente) esplicitato, è apprezzabile quanto viene restituito attraverso la mera forza degli elementi iconici.

L’immagine più forte del film diventa così quella che vede Wall-e edificare enormi grattacieli di immondizia: parafrasando Richard Matheson e la moderna trasposizione di Francis Lawrence (e Will Smith) anche Wall-e potrebbe affermare “Io sono leggenda” e la sua odissea di operaio futuribile, addetto a una impossibile ricostruzione di un mondo ormai privo di identità e senso, si staglia come la più efficace metafora possibile dell’inutilità dell’uomo moderno. Il simulacro di una società come la nostra diventa il prodotto di scarto, destinato a rifondare un mondo dove la superficie diventa sostanza perché al di sotto del materiale di risulta non c’è più un’anima.

Ecco dunque che l’impossibile storia d’amore “tecnologica” diventa a sua volta il punto di fuga attraverso il quale fondare una nuova prospettiva vivificatrice, che sa conservare quello che di utile si annida tra i rifiuti (gettando via gli inutili gioielli per mantenere invece la loro scatola) in un elogio della memoria come unica possibile sostanza per trovare il proprio posto del mondo. Dove il cinema definisce culturalmente e in senso meraviglioso le possibilità di interazione all’interno di una società e crea un immaginario coerente che arricchisce la vita e fa comprendere il valore delle emozioni. E’ questo ciò che più distingue la coazione a ripetere di Wall-e da quella degli umani: il primo non ne è dominato, ma riesce a piegarla alle sue esigenze, non dimenticando mai quell’interazione e quella ricerca dell’altro che invece gli obesi passeggeri dell’astronave madre vivono ogni volta con sorpresa, meravigliandosi di ogni più piccolo contatto nei vari momenti in cui non sono bombardati da uno spot pubblicitario.

Il discorso è chiaramente allargabile a un livello metacritico, osservando come in fondo il film usi (benissimo) il digitale per illustrare il presente, ma si affidi all’analogico e al formato Live Action per gli inserti di repertorio (cinematografici e giornalistici) in una compresenza di vecchio e nuovo che costituisce il motivo d’essere della stessa Pixar. Non a caso anche i titoli di coda passano in rassegna diversi stili espressivi, dal disegno tradizionale, a figure più pittoriche, fino agli albori delle figure in pixel, dal caratteristico design con i bordi frastagliati.

Ecco dunque che il racconto di due singoli robot diventa metafora di una situazione più universale (come sempre accade con i film Pixar) e se la struttura narrativa soffre in effetti di alcuni sbalzi che nella seconda parte producono un andamento più singultante, il film vive letteralmente di alcuni slanci lirici evidenti nei teneri gesti di un Wall-e incerto che si stringe timidamente le mani, che volteggia nello spazio sospinto dalla forza di un piccolo estintore e, aggrappato all’astronave, si immerge nello splendore degli anelli di Saturno.

Wall-e
(id.)
Regia: Andrew Stanton
Sceneggiatura: Andrew Stanton e Jim Reardon, da un soggetto di Andrew Stanton e Pete Docter
Origine: Usa, 2008
Durata: 98’

Video intervista ad Andrew Stanton (sottotitolata)
Ritratto di Andrew Stanton
Sito ufficiale italiano
Sito ufficiale americano
Sito ufficiale americano della Pixar