"C'è chi crede in dio o nel denaro. Io credo nel cinema, nel suo potere. L'ho scoperto da ragazzino, mi ha aiutato a fuggire da una realtà in cui ero infelice. È una delle forme d'arte più alte che l'uomo ha concepito. Credo nel suo futuro."
(John Carpenter)

giovedì 27 marzo 2008

Cloverfield

New York. Rob Hawkins sta per lasciare l’America per il Giappone, dove lavorerà per un’importante multinazionale. Durante la festa d’addio organizzata dagli amici, qualcosa sconvolge però la città: una gigantesca e mostruosa creatura è emersa dal mare e l’intera Grande Mela è diventata un campo di battaglia. Rob e i suoi amici cercano di fuggire. L’intero film è raccontato attraverso la videocamera di Hud, il migliore amico di Rob, ritrovata dopo i fatti di quella giornata.


La linea di demarcazione che separa il genere americano dei “Giant Monsters” dal “Kaiju eiga” [film di mostri] giapponese è sempre stata molto sottile. Il primo Godzilla, diretto da Ishiro Honda nel 1954 nasceva in fondo sull’onda del successo riscosso da Il risveglio del dinosauro nel 1953 e dalla riedizione del primo King Kong avvenuta nel 1952. Due strade parallele, dunque, destinate a influenzarsi reciprocamente ma a mantenere ciascuna dei tratti distintivi e una propria evoluzione. Con Cloverfield le carte si scompaginano: un film americano nella produzione, ma giapponese nell’animo, nato quando il brillante produttore/sceneggiatore/regista JJ Abrams era proprio nell’Arcipelago per promuovere Mission Impossibile III e si era ritrovato insieme al figlio nel reparto di un negozio di giocattoli interamente dedicato a Godzilla. Ecco dunque un vero e proprio “kaiju eiga” dove troviamo momenti topici del genere quali l'attacco ai monumenti, l'intervento inutile dei militari e il mostro goffo e un po’ “finto”, complice una CG non perfetta; ma al contempo viene negato allo stesso una personalità, accentrando l’attenzione sulle vittime umane dell’evento catastrofico, in un’ottica che è maggiormente ascrivibile ai monster movies occidentali.

Cloverfield è in fondo esattamente questo: un progetto mimetico, che mira a superare barriere e distinzioni per creare una nuova tipologia di prodotto. Un ibrido di grande efficacia in grado di giocare la sua partita su più livelli: narrativi, tematici e tecnici. Non il primo esempio nel giovane sottofilone dei “Real Movies” - girati cioè con una tecnica che simula il punto di vista di una camera più o meno professionale - ma sicuramente quello che sfrutta questa tipologia di racconto in maniera più radicale, contraddicendo tanto gli epigoni quanto la sintassi stessa del racconto cinematografico tradizionalmente inteso. Diversamente da altri “Real Movies” visti negli ultimi anni (pensiamo a The Blair Witch Project o al contemporaneo [REC]), infatti, il film non segue uno schema in grado di fornire tutte le risposte allo spettatore. Ciò che vediamo è davvero una visione parziale, uno scampolo all’interno di una tragedia più grande, dove molti sono i dubbi che restano alla fine e per dissipare i quali si deve preferibilmente far ricorso alla vasta rete di siti internet appositamente creati dalla produzione nella fase promozionale (alcuni dei quali peraltro contengono false piste). Ecco dunque che il cosiddetto “viral marketing” diventa qualcosa in più della semplice pubblicità da fare al film, diventa anzi una parte del racconto cinematografico stesso, in ossequio a quella che oggi si chiama “transmedialità” (e non stupisce apprendere che a tutto questo si è aggiunta in Giappone una miniserie a fumetti).

Ma Abrams, di concerto con il regista Matt Reeves, è bravo anche a sfruttare tecnicamente il nuovo linguaggio “finto-realistico”, la sporcizia delle inquadrature mosse, fuori fuoco, che “tagliano” i volti dei personaggi restituendo a perfezione l’idea della ripresa casuale, realizzata in fretta e per questo caricata di maggiore tensione: la storia si interrompe infatti in alcuni punti, quando i protagonisti rivedono il filmato e poi riprendono a registrare lasciando alcuni secondi di nastro “scoperti”. In quei secondi compare il girato precedentemente impresso sullo stesso nastro, che fornisce allo spettatore nuove informazioni sui protagonisti, sulla loro vita prima della catastrofe. L’espediente è doppiamente efficace perché crea un contrappunto ritmico con l’angoscia dei momenti catastrofici, ma permette anche di ricostruire meglio i legami fra i protagonisti lasciando emergere nuove spiegazioni di quanto sta accadendo durante la tragedia. Reeves e Abrams giocano con il desiderio dello spettatore di “saperne di più”, di “guardare oltre” il fatto contingente, solleticano il loro voyeurismo e la curiosità mettendo tutti noi di fronte alla patologia di una società ossessionata dall’ansia di vedere, dove la documentazione del fatto supera la necessità di una “grammatica filmica” codificata: una cattiva inquadratura vale più di una “linguisticamente corretta” se contiene in sé un evento importante. E’ la logica desunta dai filmati amatoriali che hanno documentato eventi epocali come lo schianto del primo aereo sulle Torri Gemelle durante l’11 settembre 2001 o lo tsunami che ha colpito i paesi asiatici il 26 dicembre 2004: le uniche testimonianze sono venute attraverso i videoamatori. Si è avuta quindi una legittimazione di questo modo di girare “imperfetto”, che oggi il cinema si fa carico di elevare a un livello autoriale e stratificato: per questo la tragedia del mostro è una metafora proprio dell’11 settembre 2001, dell’ansia di fronte a un evento totalizzante e distruttivo che sconvolge la normalità del quotidiano, che agisce sulle vite delle singole persone.

JJ Abrams, da grande innovatore qual è, ha compreso quindi come le strategie narrative e promozionali che nel nuovo millennio permettono di colpire i nervi scoperti della società, dribblando il cinismo dello spettatore, debbano poggiare su un nuovo immaginario, più sporco, ma maggiormente immediato. E da questo ha saputo trarre un prodotto ben inserito in una tradizione filmica, ma fresco, d’impatto, e originale nella consapevolezza che lo anima. Grazie a lui il cinema compie un piccolo passo in avanti e per noi spettatori è un piacere poterne essere testimoni.

Cloverfield
(id.)
Regia: Matt Reeves

Sceneggiatura: Drew Goddard
Origine: Usa, 2008
Durata: 85’

Panoramica sul “viral marketing” del film
Pagina di Wikipedia Italia
Intervista a Matt Reeves
Blog italiano dedicato al film
Sito ufficiale americano

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