"C'è chi crede in dio o nel denaro. Io credo nel cinema, nel suo potere. L'ho scoperto da ragazzino, mi ha aiutato a fuggire da una realtà in cui ero infelice. È una delle forme d'arte più alte che l'uomo ha concepito. Credo nel suo futuro."
(John Carpenter)

lunedì 17 marzo 2008

Sweeney Todd

15 anni dopo essere stato costretto all’esilio dal giudice Turpin, che gli ha sottratto moglie e figlia, Benjamin Barker torna a Londra intenzionato a vendicarsi: dopo aver assunto il nome di Sweeney Todd, l’uomo inizia a eliminare i clienti con i suoi rasoi, pregustando il momento in cui potrà recidere la gola del nemico. In questo è aiutato dalla vedova Lovett, che usa i cadaveri delle vittime per farcire i suoi pasticci di carne. Intanto il giovane Anthony, che ha aiutato Todd a tornare a Londra, si innamora di sua figlia Johanna e cerca di liberarla dalla prigionia in cui l’ha costretta Turpin, che ne vuole fare la sua sposa.


Qualcosa sta cambiando nel cinema di Tim Burton: è in atto una evoluzione che passa per un ripensamento della propria opera e che ci dice di un autore per nulla adagiato sugli allori di un successo che lo ha portato, non ancora cinquantenne, a ricevere già un Leone d’Oro alla carriera dalla Mostra del Cinema di Venezia 2007. La sua filmografia è infatti un organismo compatto e coerente, incentrato su personaggi non integrati che solitamente riescono a trovare la chiave di volta per rapportarsi in maniera più serena al proprio universo, se non addirittura a plasmarlo a loro immagine: dal Pee Wee del primo film (Pee Wee Big Adventure), all’Ed Wood che gusta il trionfo dei suoi pessimi capolavori, fino al Jack Skeletron di Nightmare Before Christmas (solo prodotto da Burton, ma interamente ascrivibile alla sua poetica). Ma ora alcune crepe si stanno aprendo in questo disegno e già il precedente La fabbrica di cioccolato ci mostrava come il tentativo di Willy Wonka di ricreare il mondo a propria immagine e somiglianza nascondesse un disagio non indifferente rispetto alla gente “di fuori” e alla propria storia, tanto da far pensare alle coreografie della sua realtà caramellosa come a una forma di resistenza da se stesso e dagli altri. Forse la fantasia per Burton è ormai destinata a rimanere relegata nel passato, nel ricordo del protagonista di Big Fish, che solo nella morte riusciva a dare legittimazione al proprio universo.

Per questo motivo un film come Sweeney Todd segna una tappa molto importante nell’universo dell’autore e se possiamo affermare che La fabbrica di cioccolato rovesciava di segno la solarità di Pee Wee’s Big Adventure, ora questo film rappresenta l’antitesi di un altro film burtoniano fondamentale come Edward manidiforbice. Come il suo celebre predecessore, anche il barbiere demoniaco Sweeney Todd (sempre interpretato con grande partecipazione dal fido Johnny Depp) è un emarginato, ma le sue lame stavolta sono finalizzate ad affondare nel sangue di una società corrotta, secondo un immaginario che asciuga il gotico de Il mistero di Sleepy Hollow (altro possibile film di riferimento) da ogni orpello fantastico e meraviglioso. Meno Mario Bava e più Hammer Film, insomma, per una storia che prende di petto anche il genere stesso nel quale si dovrebbe iscrivere. Nonostante l’ispirazione da un celebre musical di Stephen Sondheim, infatti, la pellicola è abbastanza distante dal film musicale classicamente inteso, non usa i numeri cantati come intermezzi dell’azione, ma come un prolungamento dei dialoghi, non come un commento, ma come una parte integrante della narrazione. Il risultato è un musical apparentemente “trattenuto”, poco “lirico”, distante dall’enfasi emozionante di un Moulin Rouge allo stesso modo con cui la vendetta di Todd è distante da quella della Sposa di Kill Bill: non c’è un afflato gioioso perché non siamo più soltanto nel regno della fiaba, ma anche in quello della tragedia, dove il desiderio di morte diventa una discesa nella follia che infine spinge Todd ad accanirsi contro chiunque, falciando tanto i nemici quanto le persone care, fino all’autodistruzione. Il suo istinto vendicativo lo definisce e caratterizza: fatta tabula rasa del passato, dimentico del proprio nome, Todd è talmente chiuso nel suo compito da caratterizzare in senso quasi espressionista la città che lo circonda (l’inizio non a caso è preso di peso da Nosferatu).

Sweeney Todd rappresenta dunque un racconto di un autore che non sembra volersi accontentare di ritagliarsi spazi fantastici fra gli interstizi del reale, ma è come incupito da un mondo che vomita continuamente i suoi orrori e non sembra offrire prospettive. Per questo motivo nessuna possibilità è offerta ai sentimenti di Mrs. Lovett (invaghita di Todd e che sogna una impossibile vita con lui) e anche la storia d’amore fra il giovane Anthony e Johanna, la figlia di Todd, non trova sbocco nel naturale lieto fine, semplicemente perché non ci viene detto quale sarà il destino dei due giovani: la storia inizia e finisce su Todd. Calato il sipario su di lui niente altro conta.

A fronte di tutto questo resta soltanto la messinscena di un nuovo universo, sicuramente più incupito nei toni e desautorato nei colori, che trova soltanto nel rosso del sangue la sua esplosione più vitalistica o nei ricordi (siano quelli di Benjamin Barker o i siparietti immaginari della devota Mrs. Lovett) i riflessi del burton più poetico e colorato. Per il resto è uno spazio gotico purissimo, che trova nel trucco cinereo di Johnny Depp la sua più riuscita espressione.

Chissà cosa ci riserverà la prossima volta il buon Tim: di certo il suo percorso merita di continuare a essere seguito con passione.

Sweeney Todd – Il diabolico barbiere di Fleet Street
(Sweeney Todd - The Demon Barber of Fleet Street)

Regia: Tim Burton
Sceneggiatura: John Logan, da un adattamento di Christopher Bond del musical di Stephen Sondheim e Hugh Wheeler
Origine: Usa, 2007
Durata: 117’

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