"C'è chi crede in dio o nel denaro. Io credo nel cinema, nel suo potere. L'ho scoperto da ragazzino, mi ha aiutato a fuggire da una realtà in cui ero infelice. È una delle forme d'arte più alte che l'uomo ha concepito. Credo nel suo futuro."
(John Carpenter)

martedì 29 aprile 2008

Destra/Sinistra

Per i casi di cui è costellata la vita, la recente tornata elettorale si è intrecciata con la personale riscoperta di due opere che hanno sintetizzato e analizzato molto bene il tutto: la visione di un film, Un eroe borghese, di Michele Placido, e il ricordo di questa bella canzone di Giorgio Gaber, realizzata nel 2001 e inclusa nell’album “La mia generazione ha perso”, a sua volta tratto dall’omonimo spettacolo teatrale scritto dallo stesso Gaber in collaborazione con il pittore Sandro Luporini.

Un brano ironico e dissacrante, che tenta una divertita analisi sul valore delle definizioni in un mondo afflitto da cronica partigianeria e che per questo non è capace di focalizzare l’attenzione sulla realtà, preferendo astrarsi in categorizzazioni abbastanza fini a se stesse. Il che spiana inevitabilmente la strada al qualunquismo e alla decontestualizzazione delle cose, creando il vuoto culturale che affligge la società odierna. Perché ciò che interessa a Gaber non è l’appianamento degli opposti, è l’esaltazione delle parole in quanto concetti capaci di veicolare senso.

Di persone come lui, in questi anni, si sente sempre più il bisogno.


Pagina di Wikipedia su Giorgio Gaber
Intervista a Giorgio Gaber
Sito su Giorgio Gaber
Sito dell’associazione culturale Giorgio Gaber

mercoledì 23 aprile 2008

Napoli Comicon 2008

Si sono da poco chiuse le giornate del festival di Lecce e già una nuova importante manifestazione è all’orizzonte: partirà infatti domani, 24 aprile, il Napoli Comicon, che quest’anno tocca l’importante traguardo della decima edizione e per l’occasione “espande” la sua durata fino a quattro giorni, invece dei consueti tre.

Dieci anni di attenzione al fumetto e all’animazione internazionali nella suggestiva cornice del Castel Sant’Elmo per una manifestazione che è cresciuta nel tempo ed è reduce dal notevole bagno di folla dello scorso anno, quando ospite d’onore era Go Nagai (e fra i tanti ricordi dell’evento merita di essere impresso a fuoco nella mente almeno l’incontro fra il creatore di Mazinga e il maestro francese Jean Giraud, in arte Moebius).

Per questo nuovo appuntamento il Comicon sceglie come colore dominante il rosso (in apertura potete vedere l’illustrazione ufficiale creata da Lorenzo Mattotti) e propone una serie di interessanti iniziative che vanno dalla presentazione di opere animate e cartacee attraverso proiezioni ed esposizioni, il consueto florilegio di stand per la gioia dei collezionisti spendaccioni e la chiassosa gara dei Cosplay nella giornata conclusiva di domenica 27 aprile. Fra gli ospiti previsti, senza far torto a nessuno, segnaliamo almeno il grandissimo Dave McKean, celebre autore di fumetti capolavoro come “Batman Arkham Asylum”, nonché regista cinematografico dell’ottimo fantasy Mirror Mask (che verrà mostrato al Comicon dopo l’anteprima alla Festa di Roma 2006), sul quale torneremo certamente in futuro. Per la lista completa di tutti gli eventi e degli ospiti consultate comunque il sito ufficiale linkato in basso.

Il nido dunque rimarrà ancora per qualche giorno vuoto, dalla prossima settimana invece gli aggiornamenti riprenderanno con una nuova regolarità.

Sito ufficiale Napoli Comicon

martedì 22 aprile 2008

The Banishment

Alex torna nella casa dove aveva trascorso l’infanzia insieme ai genitori, e con lui ci sono la moglie Vera e i due figli. La breve vacanza nella casa situata nella sperduta campagna, diventa per l’uomo l’inizio di un vero e proprio calvario quando la donna gli confessa di aspettare un figlio non suo. Dopo una iniziale ira, cui segue un periodo di silenzio e di indecisione, Alex decide di far abortire la moglie con l’aiuto del fratello Mark. La scelta avrà però conseguenze incalcolabili, che verranno aggravate dalla scoperta della verità sul bimbo non voluto.

Tra le migliori visioni dell’ultimo Festival del Cinema europeo di Lecce spicca questo The Banishment (già passato in anteprima alla 60ma edizione del Festival di Cannes), film che segna il ritorno dietro la macchina da presa di Andrei Zvyagintsev, che nel 2003 aveva vinto il Leone d’Oro alla Mostra del Cinema di Venezia con il suo primo lungometraggio, Il ritorno. Il rapporto con la Storia e con il tempo è al centro di questa cupa storia, e si estrinseca sia in una ricerca formale che non nasconde i propri modelli (in primis il cinema di Andrei Tarkovskij) sia in una riflessione più ampia sul ruolo dell’uomo all’interno di uno spazio che riconosce il proprio passato, ma nel mettere in crisi il presente denuncia una mancanza di futuro. 

Il ritorno di Alex nella casa di famiglia diventa infatti per l’uomo un’occasione di confronto sia con ciò che i suoi genitori avevano realizzato in passato che con quanto egli stesso è stato invece capace di costruire sino a quel momento: il luogo è in sé simbolo di memoria, riconduce all’infanzia del protagonista e, attraverso i volti degli avi impressi sulle fotografie, trasuda il suo provenire da un tempo passato, solido ma ormai distante: una sorta di alterità temporale che si ritrova anche a livello fisico nell’isolamento del maniero e nella sua discrasia (gli interni sono oppressivi, cupi e domina una sorta di costante penombra) rispetto allo spazio aperto e solare della campagna circostante. In questo il luogo prosegue la grande tradizione delle case-organismo al cui interno si combatte la lotta dell’umanità e dell’equilibrio interiore (ma anche morale) del protagonista: come l’hotel di Psycho e quello di Shining.

Zvyagintsev lascia che sia quindi il contesto a parlare e ammanta il suo film di un sentimento panico che rende la messinscena e la scelta delle location (il film è stato girato tra Belgio, Moldavia e Francia) significativa e particolarmente potente a livello emotivo: una qualità visiva che predomina e anche per questo i presupposti che hanno portato alla situazione di decadenza nel rapporto fra Alex e Vera sono affidati, più che ai passaggi narrativi costruiti in sceneggiatura, a piccoli gesti, a frasi disseminate quasi casualmente lungo i 150 minuti di durata, come un puzzle che lo spettatore deve lentamente ricostruire. La durata estremamente ampia del film non nuoce all’incedere del racconto, che si rivela teso e dolente regalando un senso di profondo rispetto per i sentimenti umani messi in campo.

La logica che domina il rapporto fra Alex e Vera è dunque quasi utilitaristica, convenzionale, certamente priva di qualsivoglia calore umano, domina una perenne freddezza che Zvyagintsev restituisce a livello visivo attraverso giochi fotografici che addensano i colori, allargano le zone d’ombra e conferiscono all’immagine una densità degna di un noir di Michael Mann (molto simile in effetti è il lavoro sulla composizione orizzontale dell’inquadratura in Cinemascope e sui toni plumbei della fotografia).

La costruzione delle dicotomie è poi complessa, perché Alex è al centro di un sistema di relazioni apparentemente ben definite, ma nel loro insieme molto variegate: i vicini dal nucleo familiare tutto sommato solido, il fratello che si fida di lui ma che a sua volta è un individuo poco raccomandabile (il folgorante incipit ce lo mostra ferito da un colpo di pistola) che lega la gente a sé attraverso relazioni di comodo (come accade con il suo medico, cui rinfaccia i debiti contratti con lui per ottenere il suo aiuto), sono tutti elementi che contribuiscono a isolare il protagonista nel suo microcosmo interiore fatto di incapacità relazionali e giudizi errati. 

Il rapporto con Vera (una Maria Bonnevie di straordinaria intensità) è dunque fatto di vicinanze e lontananze e contribuisce a minare alle fondamenta la relazione, intesa sia come legame (affettivo e spirituale) che come costruzione di un nucleo capace di garantire un futuro, una prospettiva che, a livelli universali, possa garantire il perpetrarsi della specie e della società: la solidità del passato dunque si rispecchia in un presente caotico e fragile, dove dominano incomprensioni ed equivoci che contribuiscono a perpetrare il disfacimento. La strategia di Vera, che annuncia ad Alex di aspettare un figlio non suo, altro non è che il tentativo di smuovere l’immobilismo della relazione sperando che ciò possa portare Alex a un gesto di riconciliazione, di pietà, di comprensione per la tragedia che si sta lentamente consumando. Ma l’uomo invece risponde ancora una volta ripiegando la realtà alla propria visione particolaristica, rifiutando le motivazioni che hanno spinto la donna ad agire, e la forzano verso una interruzione di gravidanza clandestina che è una dichiarazione d’intenti circa il rifiuto di un possibile futuro alternativo. Un gesto che nei fatti si concretizzerà nella definitiva discesa agli inferi per l’intero nucleo familiare.

Attraverso una messinscena che ha il sapore della solennità, ma non perde mai di vista la concretezza dei rapporti umani, Zvyagintsev riflette quindi sulle possibilità di una ricostruzione interiore, in una umanità che ha completamente smarrito la propria capacità di trascendere i singoli eventi in nome di una prospettiva alta in grado di redimere la società dai suoi peccati: una specie di sacralità che va intesa in senso non semplicemente religioso quanto filosofico e che tenta di trarre in salvo l’umanità rispetto alla barbarie in cui è decaduta. Significativa in questo caso la scena che vede i figli di Alex, insieme ai loro amici, cercare di completare un puzzle a soggetto religioso, chiara e sin troppo lampante (forse anche didascalica) sintesi del tentativo di ricostruire una possibile componente spirituale in un universo che sembra avere smarrito la propria lucidità.
 
Il puzzle guida quindi noi spettatori verso il finale, con le sue rivelazioni e con l’estema sintesi garantita dall’ultima inquadratura, dove alcune lavoranti nei campi intonano un canto popolare, incontro simbolico di passato e presente. Un attimo e una delle donne attraversa il campo con un bambino fra le braccia: una nuova ipotesi di possibile futuro dal quale forse sarà possibile ricominciare?


The Banishment
(Izgnanie)
Regia: Andrei Zvyagintsev

Sceneggiatura: Artyom Melkumian, Oleg Negin dal libro “The Laughing Matter” di William Saroyan
Origine: Russia, 2007
Durata: 150’

lunedì 14 aprile 2008

Lecce 2008

Da domani, martedì 15 aprile, la capitale del barocco pugliese diventerà anche la città del cinema per tutto l’arco della settimana: il Festival del Cinema Europeo di Lecce arriva infatti al nono anno di attività e l’edizione si preannuncia come un’ulteriore ricca tappa in un percorso artistico che ha visto questo spazio crescere progressivamente puntando sulla qualità e sul divertimento intelligente per il pubblico. Per la prima volta le proiezioni impiegano totalmente le sale del cinema Santalucia e il programma conseguentemente si espande, interessando gli ambiti più disparati.

Pertanto, insieme al consueto concorso internazionale lungometraggi con 10 opere provenienti da tutta Europa e selezionate da Massimo Causo e Cristina Soldano, meritano attenzione le varie sezioni collaterali dedicate a Michele Placido e Nikita Mikhalkov, oltre alle “Giornate degli attori”, con omaggi a Michele Ventrucci (Tutto l’amore che c’è, L’anima gemella), Jasmine Trinca (Il caimano) e Elena Bourika (L’abbuffata). Inoltre ci sarà anche la possibilità di vedere su grande schermo un classico del cinema italiano come Il grido di Michelangelo Antonioni in edizione restaurata. E infine gli spazi collaterali dedicati ai giovani filmaker pugliesi (“Puglia Show”), i documentari (“Cinema e realtà”), convegni, seminari e mostre fotografiche. Il tutto condito dalla bella cornice della città salentina e dal calore di un pubblico giovane e numeroso che ha finora sempre sostenuto con entusiasmo questo spazio permettendo allo stesso di vantare un bella atmosfera, umanamente composita e fertile.

Poiché il sottoscritto seguirà l’evento, il nido rimarrà vuoto per alcuni giorni. Nel frattempo se siete in zona il consiglio è ovviamente quello di fare un salto al festival!

Sito ufficiale del festival

venerdì 11 aprile 2008

Kung Fusion

Shanghai, anni Trenta. Sing è un ladruncolo che sogna di entrare nella potente Gang delle Asce, che domina la malavita locale: le sue assurde manovre portano l’intera banda a scontrarsi con gli abitanti del Vicolo dei Porci, apparentemente inoffensivi, ma tra le cui fila si nascondono in verità dei potentissimi maestri di arti marziali. Pur di non vedere compromesso il suo onore, il capo della Gang assolda esperti guerrieri ed assassini, ma senza esito. Alla fine le sorti vengono riposte nella Bestia, il più grande killer vivente, padrone di letali tecniche di combattimento. Intanto Sing incontra la ragazzina che da bambino aveva salvato da alcuni teppisti e questo causa in lui una maturazione che lo conduce dalla parte del Bene. E’ solo il preludio a uno scontro finale con la Bestia che libererà la sua energia interiore, facendogli comprendere la sua vera natura.

In patria Stephen Chow è un comico che ha costruito la propria carriera su un umorismo molto popolare, basato su una grande capacità di improvvisazione: in Occidente però la sua stella ha iniziato a brillare quando, alla carriera di commediante, Chow ha affiancato quella di regista di un cinema visivo e capace di rimescolare con intelligenza influenze diverse. Shaolin Soccer è stato il primo tassello del mosaico, ma è Kung Fusion a rappresentare il capolavoro dell’artista: una geniale commedia d’azione che riesce nel delicato compito di parodiare il cinema di arti marziali diventandone però allo stesso tempo un perfetto rappresentante. Chow insomma, dimostra di aver compreso come la componente spettacolare e antirealistica insita nel genere si prestasse naturalmente a un processo di “cartoonizzazione” in grado di divertire il pubblico, ma di non disperdere la cifra epica propria di queste storie.

In questo senso l’inizio è programmatico: l’ascesa al potere della Gang delle Asce cita infatti, nei movimenti ampi e solenni della macchina da presa, i grandi manieristi della storia del cinema, come Sergio Leone, John Woo o Brian De Palma. Dai primi due proviene la cifra epica e lirica in grado di esaltare gli stereotipi in senso virtuoso, scatenando nello spettatore il senso della meraviglia. Dal regista di Carrie, invece, è mutuata la consapevolezza citazionista e la mescolanza dei generi che sfocia nell’accostamento di opposti: ecco dunque che la strage dei nemici diventa una sorta di musical che stempera la crudeltà nell’ironia rimarcando la natura spettacolare dell’insieme.

Nonostante questo, Kung Fusion (poco efficace storpiatura del titolo internazionale Kung Fu Hustle) è anche un film non privo di una sua pungente rudezza: il mondo in cui si ambienta la storia, infatti, non nasconde brutalità, soprusi del più forte sul più debole, aspettative negate, tali da condurre il personaggio di Sing sulla strada della malavita. Il percorso è quello classico iniziatico tipico di molte pellicole di arti marziali, in cui è quasi sempre il rinnegato o il delinquente di turno a scoprire attraverso le tecniche di combattimento quell’equilibrio interiore che lo farà volgere al Bene: l’adesione di Chow al genere, dunque, prima ancora che estetica è filosofica e si intreccia con il tema a lui caro della riscoperta dei valori insiti nell’animo umano. In base a questo tema chiunque è in grado di rivelare un’essenza valorosa, anche le persone apparentemente più insignificanti, esattamente come il bruco diventa farfalla: pertanto i maestri di arti marziali del Vicolo dei Porci appaiono dimessi, viziosi, spesso ci sono mostrati come dei veri incompetenti, che si nascondono dietro professioni umili, ma al momento buono sanno sfoderare una capacità combattiva e un valore senza eguali.

Il che ci porta alla constatazione che il cinema di Stephen Chow è volto al disvelamento della realtà dietro l’effetto speciale, o meglio alla possibile coniugazione fra i due opposti, a una qualità grafica che non nasconde mai l’essenza dei singoli elementi, ma è anzi in grado di esaltarla (caratteristica questa che accomuna i suoi film a quelli di Quentin Tarantino). Pertanto l’assurdità ironica dei combattimenti non disperde mai la centralità dei valori morali positivi, che porteranno lo stesso protagonista a un processo di riscoperta di se stesso, destinato a culminare nel finale.

Qui si consuma peraltro l’altro omaggio a una delle figure cardine del cinema di arti marziali, particolarmente cara a Chow, ovvero quella di Bruce Lee: complice una buona somiglianza fisica, Chow riprende infatti la figura del Piccolo Drago castigatore dei malvagi. L’adesione anche in questo caso è sostanziale prima ancora che formale, dal momento che Lee era artefice di un cinema d’arti marziali realistico e asciutto, distante dalle imprese iperboliche che vediamo compiere a Chow nella sua caratterizzazione. Il simpatico regista/attore asiatico ha infatti ben compreso come Bruce Lee, prima ancora che un maestro e un artista, sia egli stesso un’icona di potenza, la cui aura mitica è il vero lascito donato alle generazioni future e dunque è questo aspetto che si è voluto rimarcare, piuttosto che una mera adesione al suo modello.

Inoltre il film intreccia volutamente epoche e filoni tra loro molto differenti della storia del cinema marziale, dal wuxiapian classico degli Shaw Brothers, al fantasy anni Ottanta alla Ching Siu Tung e le varie influenze sono evidenti anche nelle scelte di casting: fra i protagonisti (cui Chow concede generosamente grande spazio) ritroviamo veterani del genere come Yuen Wah (il “Padrone” del Vicolo dei Porci, in passato controfigura dello stesso Bruce Lee), Yuen Qiu (la “Padrona) e Bruce Leung Siu Lung (la Bestia).

Alle loro evoluzioni si accompagna il superbo apporto degli effetti speciali, dove la computer grafica è utilizzata proprio in senso cartoonesco, per accentuare la comica improbabilità delle coreografie, risultando in questo modo perfettamente congrua al racconto e allo stile visivo impresso al film. A tutto ciò si unisce ovviamente il lavoro svolto dai coreografi stessi, ovvero i grandi Sammo Hung e Yuen Woo Ping, quest’ultimo già attivo nella trilogia di Matrix: la sua scelta appare eccellente, dal momento che Kung Fusion a tratti sembra porsi in una prospettiva critica rispetto alla concezione delle arti marziali mostrata proprio nella saga cyber-fantasy dei fratelli Wachowski.

Il risultato di questo intreccio di stili e influenze è una pellicola che ribolle di una energia contagiosa, in grado di scatenare il riso ma anche il pathos tipico delle grandi epopee d’azione, dove trova spazio anche una deliziosa parentesi sentimentale e il citazionismo risulta sempre divertito e mai banalmente ammiccante. Davvero difficile non amarlo, davvero impossibile chiedere di più. L’unica nota negativa va al pessimo doppiaggio italiano dialettale, dal sapore stupido e razzista: si raccomanda per questo la visione in lingua originale con sottotitoli.

Kung Fusion
(Gong Fu/Kung Fu Hustle)

Regia: Stephen Chow
Sceneggiatura: Stephen Chow, Tsang Kan Cheong, Xin Huo, Chan Man Keung
Origine: Cina, 2004
Durata: 95’

Sito ufficiale
Sito ufficiale italiano
Biografia di Stephen Chow

giovedì 10 aprile 2008

Vampira requiem

A un livello superficiale Maila Nurmi è quella che oggi si definirebbe una “meteora”, ovvero uno di quei personaggi la cui fortuna è stata legata a una stagione breve e particolare nel convulso mondo dello spettacolo. Diversamente dai molti esempi di questa categoria, però, nessuno potrebbe mai affermare che la sua figura sia destinata a restare sepolta nella memoria, per quanto vivo è ancora il culto per il personaggio da lei creato: Vampira.

La sua scomparsa, avvenuta esattamente tre mesi fa, il 10 gennaio 2008, ha rinnovato l’interesse per questa eroina-simbolo, che in poco meno di un anno (quanto è durato il programma televisivo The Vampira Show che l’aveva lanciata) è riuscita a radicarsi profondamente nell’immaginario collettivo, modificando il linguaggio del piccolo schermo e la storia del costume americano (e non solo), catturando l’interesse dei giornali e di personalità del mondo dello spettacolo, che seguivano le sue apparizioni.

L’aspetto più interessante dell’aura mitica che circonda Vampira è dato dal fatto che non sono sopravvissute registrazioni del suo programma televisivo (a parte pochi frammenti visibili nel suo bellissimo sito ufficiale, linkato in fondo a questo articolo) e che quindi ciò che è giunto fino a noi è davvero soltanto il corpo iconico del personaggio, che però non è il solo elemento che contribuì al suo successo. Infatti parecchio scalpore destò il mix calibrato di sensualità e ironia, che emergeva dalle situazioni paradossali in cui Vampira si presentava e dal ritmo dei dialoghi che scandivano ogni apparizione catodica di questa macabra dea: un sapiente assemblaggio di sensazioni opposte, che nel già citato aspetto fisico erano ben rimarcate. Vampira infatti era sensuale ma anche inquietante e, come scrive David J. Skal nel suo saggio “The Horror Show” il suo corpo era “insieme prosperoso e gracile, ben nutrito ma scheletrico”, complice una soluzione di polvere di papaya e crema fredda che, spalmata sulle carni, le faceva letteralmente “dissolvere” l’addome donandole delle forme a dir poco contronatura (96-43-96).

Vampira era dunque questo: un concentrato di contraddizioni, ma anche un’icona mutante in bilico fra desiderio e mostruosità, tra il passato della grande tradizione iconica dei mostri Universal e le tensioni più moderne alla transmedialità che già iniziavano a farsi strada nell’America del tempo. I riferimenti dai quali la Nurmi infatti attingeva erano molteplici: la matrice era Morticia Addams, la “madre” della celebre Famiglia Addams creata negli anni Trenta per una strip a fumetti (da cui sarebbe in seguito derivata anche una famosa serie televisiva), rovesciata però di segno. Se l’icona cartacea era eterea e gracile, Vampira ne capovolgeva i significati nel senso della carnalità esasperata, avvicinandosi in questo modo più alla Moglie di Frankenstein dell’omonimo film cinematografico, mix per l’epoca scioccante e blasfemo di morte e sensualità (e quindi necrofilia).

Allo stesso tempo, però, Vampira è diventato a sua volta un modello, avendo di fatto inventato il personaggio dell’host, ovvero del presentatore di contenitori televisivi notturni dediti alla programmazione di film dell’orrore di quarta categoria. Fu infatti Hunt Stromberg Jr., direttore dei programmi della KABC Tv a pensare a un format che permettesse lo sfruttamento degli exploitation movies acquistati dal canale, per rendere gli stessi digeribili ai più.

Ma l’invenzione di Vampira era tutta di Maila Nurmi, moglie di uno sceneggiatore e nipote di un campione olimpionico, ex spogliarellista di origini finlandesi, che si era cucita da sola il suo costume con pochi dollari per partecipare al “Bal Caribe”, un concorso in costume di Los Angeles nella speranza di farsi notare. Il desiderio si avverò e nel corso della sua breve carriera sotto i riflettori, Maila Nurmi divenne grande amica di James Dean e non volle mai cedere i diritti sul suo personaggio, di cui faceva sfoggio anche in pubblico, mostrandosi sempre con il suo costume: una forma di autopromozione sfrenata ed egoistica agli occhi dei produttori, che per questo cancellarono lo show, costringendo Vampira a un lento declino, culminato poi nell’apparizione in Plan 9 from Outer Space di Edward D. Wood Jr, nel 1959 (come testimoniato anche da Tim Burton nel bel biopic da lui dedicato al regista nel 1994).

Dopo Vampira vennero nuovi “host”, fra i più celebri va ricordata senz’altro Elvira, impersonato da Cassandra Peterson e che ricalca certe caratteristiche dell’originale, tanto da vedersi intentare una causa per plagio dalla Nurmi, risolta però in un nulla di fatto. In Italia invece l’unico esempio ascrivibile al genere è quello di Zio Tibia, comparso alla fine degli anni Ottanta in un ciclo di trasmissioni per Italia 1. Ma più che a questi personaggi ci piace pensare a Vampira come a un possibile ponte fra Betty Page (celebre fetish girl dalla fisicità aggressiva e dal carattere dolce) e Rod Serling, creatore e presentatore della celebre serie tv Ai confini della realtà, l’uomo che rese l’improbabile in una forma colloquiale e vicina allo spettatore dell’epoca.

Il ricordo di Vampira in fondo ci testimonia anche di un periodo lontano in cui la nascente televisione sperimentava nuove forme espressive e inventava un immaginario affine ma diverso da quello cinematografico, aprendo un primo spiraglio nel fantasy sul piccolo schermo. A lei va dunque la riconoscenza degli appassionati di ieri e oggi.

Di seguito ecco la videosigla del Vampira Show, debitamente recuperata dai responsabili del sito ufficiale di Vampira.


Vampira's Attic: sito ufficiale di Vampira

mercoledì 9 aprile 2008

I figli degli uomini

Londra, 2027: da 18 anni non nascono più bambini e l’infertilità ha ormai condannato il mondo all’estinzione. La situazione è globalmente in preda al Caos, mentre il governo mantiene un precario ordine attraverso un regime totalitario che si accanisce in particolar modo contro i clandestini. In questo scenario Theo vive un’esistenza da disilluso dopo la morte del figlio Dylan. Sua moglie Julian, che invece si è aggregata al gruppo terroristico dei Fish, lo contatta perché ha bisogno di aiuto per fare uscire dal paese una ragazza, Kee. Theo inizialmente accetta perché allettato dalla ricompensa, ma scopre ben presto che Kee è incinta e rappresenta perciò una possibile speranza di rinascita per il mondo. La sua presenza però scatena una faida interna ai Fish, che porta all’uccisione di Julian e al tentativo di strumentalizzare politicamente il bimbo non ancora nato. Per questo Theo fugge e porta la ragazza via con sé, nel tentativo di raggiungere la costa dove si trova una nave del fantomatico Progetto Umano, che lavora in segreto alla ricostruzione del mondo.

In una recente intervista, l’autore di fumetti giapponesi Go Nagai ha dichiarato come l’avvento dell’anno 2000 abbia causato una certa empasse nel genere fantascientifico poiché, di fatto, è come se si fosse palesato a tutti che quel terzo millennio, da sempre visto con utopia come “il futuro” delle grandi rivoluzioni tecnologiche, culturali e sociali, è arrivato a noi senza troppi scossoni. Il pensiero si collega molto bene a questo nuovo progetto dell’eclettico regista messicano Alfonso Cuarón che adatta un romanzo di P.D. James aderente al classico filone post-apocalittico in voga negli anni Ottanta, ma lo fa con un sguardo nuovo: ogni possibile orpello futuristico è bandito e quella che vediamo è una realtà priva di ingegnose invenzioni tecnologiche, dove gli oggetti sono di uso comune e la situazione sociale non fa altro che trasportare a un livello globale le tensioni che oggi sono purtroppo appannaggio delle cosiddette “zone calde” del pianeta. Ne risulta uno scenario molto credibile, in grado di portare a perfetto compimento il postulato secondo il quale la fantascienza trasferisce nel futuro le tensioni del presente. In questo senso I figli degli uomini è un film dal forte impatto documentaristico e le sue metafore agiscono a un livello palese: ciò che vediamo è infatti l’emblema di un mondo moderno diviso e in via di definitivo scivolamento verso quella catastrofe provocata dall’odio etnico, dalla paura e dall’incapacità di prevedere una politica sociale che sia differente dal mantenimento ossessivo del proprio precario equilibrio (come tenta di fare lo stato di Polizia che stritola Londra).

Come teorizza il bizzarro personaggio di Jasper, interpretato con la consueta eleganza e ironia da Michael Caine, il mondo in cui si ambienta la vicenda è conteso fra la fede e il caso: questi due elementi estremi sono ben rappresentati dai personaggi di Julian e Theo, un tempo uniti dall’amore e dal figlio Dylan e oggi arroccati su fronti opposti, lei terrorista, lui indolente e consunto cittadino. Al trauma della morte del figlio, quindi, Julian ha risposto con un eccesso di fede che l’ha portata a una scelta radicale volta a cambiare quella società che le ha strappato gli affetti, mentre lui si è completamente affidato allo scivolare dell’umanità nel gorgo del destino, insofferente a tutto. La sua caratterizzazione è completata dal fatto che, ci viene detto, un tempo Theo era invece un fervente idealista, che ha oggi completamente perduto la volontà di credere in un ideale.

In questo scenario il bambino di Kee si pone come possibile ago della bilancia, poiché in bilico proprio fra i due opposti. Rappresenta innanzitutto il simbolo di un ordine superiore che ha deciso di risparmiare l’umanità dall’estinzione e le offre la possibilità di ricominciare. Un simbolo quindi di fede, non necessariamente legato a un’idea religiosa (nonostante Miriam, l’infermiera di Kee sia molto credente), quanto a una speranza nell’uomo e nella sua capacità di superare le difficoltà e le divisioni. Una fede simboleggiata nel bellissimo momento in cui la visione del bimbo di Kee porta a un cessate il fuoco tra le parti avverse durante la guerra nel campo profughi. E’ però soltanto un momento, quasi illusorio, che lascia spazio a nuovi scellerati conflitti. Perché in fondo anche il caso, simbolo di disordine, gioca le sue carte in questa partita affidando il destino dell’umanità proprio al figlio di una profuga, dipinta dai network televisivi come una semplice ricercata, un nemico da allontanare e abbattere, che diventa per questo un elemento che le opposte fazioni possono e vogliono strumentalizzare a loro piacimento.

Il viaggio di Theo insieme a Kee diventa pertanto un’esplorazione delle contraddizioni insite nel mondo, ma anche una discesa agli inferi della propria coscienza, un’occasione per comprendere cosa ci sia in ballo in quel momento e quanto egli debba investire personalmente nello scontro che vede fede e caso agire sul destino degli uomini: perciò Theo chiede a Miriam quale sia il disegno che porta ogni ostacolo a frapporsi inesorabilmente sul cammino della speranza, lo porta a perdere l’ex moglie, ma anche irrazionalmente a lottare per aiutare Kee, la cui vita è legata alla fiducia che la ragazza aveva in Julian e che la stessa Julian a sua volta aveva in Theo. Un percorso che è come un’unione di punti in una ipotetica pista cifrata, e quasi a suggerire un’idea del genere il film mescola elementi eterogenei, apparentemente distanti tra loro, che tutti insieme contribuiscono a definire il quadro generale: gallerie d’arte, bar che esplodono, propaganda pubblicitaria, terroristi, immaginari bellici che sembrano fuoriuscire dalla Seconda Guerra Mondiale (il campo profughi che assomiglia a un lager), un anziano hippie che ascolta la musica di Franco Battiato e commercia marijuana con l’aiuto di un poliziotto e, ovviamente, un disilluso protagonista coinvolto all’improvviso in un disegno più grande di lui e costretto a ricoprire il ruolo dell’eroe. Tutto è interconnesso e la regia di Cuarón lo segue, lo indaga, cerca di non perdere mai la focalizzazione sugli eventi attraverso un uso a dir poco magistrale del piano sequenza, che ci regala alcune fra le scene più complesse mai viste. Ma è un virtuosismo che non esibisce se stesso, che vuole invece apparire verosimile, quasi “nascosto”, come naturale conseguenza di un’immergersi nei fatti, senza poter “staccare”.

In fondo anche questo è un incontro di elementi opposti: la messinscena è profondamente elaborata ma deve trasmettere il senso della casualità con cui gli eventi si affastellano, in un turbinio di emozioni e sentimenti violenti. Il tutto a simboleggiare la fede di Cuarón in un cinema di genere capace di parlare della realtà e utilizzato per ritrarre il caso e l’irrazionalità in cui fermenta la follia planetaria.

I figli degli uomini
(Children of Men)
Regia: Alfonso Cuarón
Sceneggiatura: Alfonso Cuarón, David Arata, Timothy J. Sexton, Hawk Ostby, Mark Fergus (dal romanzo di P.D. James)
Origine: Canada/Gran Bretagna/Usa, 2006
Durata: 105’

Conferenza stampa con interviste al regista e al cast 1
Conferenza stampa con interviste al regista e al cast 2
Sito ufficiale italiano
Sito ufficiale inglese

martedì 8 aprile 2008

Lady in the Water

Cleveland Heep è il custode del centro residenziale “The Cove”, abitato da gente di ogni tipo: una notte, dalla piscina comune emerge Story, bellissima e indifesa: è una narf, ovvero una ninfa del Mondo Azzurro, giunta per trovare l’uomo che produrrà un grande cambiamento nella società. La sua missione però è ostacolata dallo Scrunt, un mostro che vive mimetizzato nell’erba del giardino è che è disposto a tutto pur di impedire che la ragazza venga recuperata dalla Grande Eatlon, l’aquila destinata a riportarla a casa una volta che tutto sarà compiuto. Cleveland deve quindi imparare a credere, indagare nei segreti nascosti in una antica fiaba della buonanotte e recuperare tutte le persone in grado di aiutare Story. Una missione che è anche un viaggio nella sua coscienza, avendo egli perduto ogni fiducia in se stesso dopo la morte dei familiari.

Il cinema come una questione di fede: è quanto M. Night Shyamalan continua a portare avanti da alcuni anni, rinnovando la possibilità di un procedimento artistico che sia anche un ottimistico invito a credere nelle possibilità di cambiare il mondo. Un cinema per questo potente e lirico, in grado di toccare le corde più profonde dell’essere umano elevando il senso della meraviglia a un livello di consapevolezza dimenticato da molti colleghi hollywoodiani dell’ultima ora. E per questo anche un cinema che pare provenire da una piega del tempo, più vicino all’elogio dell’innocenza tipico di uno Steven Spielberg di quanto non lo sia alle moderne – e ciniche – strategie commerciali dell’industria audiovisiva. Anche quando il film non si possa definire apertamente un capolavoro.

Alla luce di tutto questo una pellicola come Lady in the Water risalta come la più particolare nell’ancor breve filmografia del regista indo-americano: la sceneggiatura, rifiutata dalla Disney a causa della sua “stranezza”, è stata avallata con coraggio dalla Warner Bros, che ha creduto in una fiaba moderna che attinge tanto dal repertorio del racconto orale quanto dal fantasy come genere e matrice dei giochi di ruolo (aspetto reso evidente dalle varie figure archetipiche come il Guaritore o il Tramite che porteranno la vicenda alla sua conclusione). Shyamalan ha confessato che l’idea proviene da una fiaba che lui stesso aveva inventato per le figlie e che aveva assunto nella sua casa un’aura mitica, tanto da pretendere infine una trasposizione cinematografica: è l’emblema perfetto di un cinema che sente l’urgenza primaria di esprimersi, una metafora lampante di un bisogno di storie e racconti in grado di parlarci dell’epoca attuale attraverso la trasfigurazione nel Mito e nei linguaggi di genere.

In effetti è abbastanza palese come la vicenda costituisca anche una riflessione metacritica sul potere della parola, sull’effetto dirompente della narrazione e sull’affabulazione come elemento necessario in un mondo inaridito e che ha bisogno di tornare a credere. Ma diversamente dal già citato Spielberg, Shyamalan non conduce per mano il suo spettatore: il film infatti non possiede il respiro universale di E.T. (pur raggiungendone la potenza emotiva), a tratti è grottesco, sopra le righe, ostico. Alcuni passaggi risultano fuori luogo e presuntuosi, è un’opera che chiede a chi la guarda di dimenticare le proprie sovrastrutture mentali e accettare le sue regole. E’ un’opera, insomma, cui bisogna credere.

La storia è quindi in bilico fra un aspetto visivo che tenta di ispirare il senso del meraviglioso tipico della fiaba (valorizzato in questo anche dalle poetiche musiche di James Newton Howard) e una struttura narrativa che procede nel senso quasi della detection, attraverso una ricomposizione dell’intricato mosaico che conduce naturalmente alla scoperta di come tutto sia già davanti ai nostri occhi: ciò che manca a ogni persona è infatti la capacità di collegarlo, di modificare la prospettiva adeguando il proprio sguardo a una realtà che sembra dominata dal Caos, ma è invece comprensiva di tutti gli elementi in grado di salvarci. Ma questa decodificazione non deve avvenire con la presunzione di chi pretende in anticipo di capire l’esito della sfida (esemplare in questo caso la figura del critico, nonostante il modo un po’ macchiettistico con cui l’uomo è raffigurato sia da ascrivere agli elementi deboli del film); deve anzi essere condotta nel segno dell’universalità, della fiducia e dell’amore verso il prossimo, perché l’errore è in agguato e la posta in gioco è troppo alta per fallire.

Per questo Cleveland deve imparare a capire i suoi sentimenti, a credere in qualcosa che vada al di là della fiaba e che diventa invece una consapevolezza del proprio e dell’altrui valore: deve perciò abbandonare le sue incertezze e i demoni interiori, dando infine forma compiuta a una trama che vede ogni elemento e ogni persona profondamente collegata. E’ la massima spielberghiana del “chiunque salva una vita salva il mondo intero” che si dipana sotto i nostri occhi e questa salvezza comprende tanto chi conduce il gioco (la stessa Story scoprirà il suo valore nel portare a termine la missione, dopo essere stata considerata sempre una creatura goffa e di poca importanza dalla sua gente) quanto chi è portato avanti dallo stesso. E’ un messaggio di speranza, che valorizza il ruolo degli ultimi, non calpesta le umane debolezze (“Non c’è nulla di male ad aver paura” spiega lo stesso Cleveland a Story), ma le valorizza, facendo delle stesse un elemento del ricco mosaico caro alla vicenda.

Lo scenario in cui tutto si svolge è quindi solo apparentemente sconnesso, frammentario e cupo. E' invece materia magmatica di un cinema elementale, fatto di aria, acqua, terra e sentimenti primari come la paura e l'amore, dove anche i dettagli hanno una grande importanza. Ad esempio a volte sullo sfondo dell’inquadratura appaiono delle televisioni accese, oggetti apparentemente quasi trascurabili, ma in realtà significativi poiché dimostrano come ogni filmato racconti una realtà di conflitti e odio, vomitati costantemente in faccia a ogni telespettatore. E’ il contesto che circonda il condominio, il mondo "di fuori" che alimenta il disprezzo per l’altro da sé, induce a creare barricate in una società sempre più multietnica e si riflette nella realtà "di dentro", dove i vari condomini del Cove, eterogenei e divisi tra loro, vivono rannicchiati nel proprio particolare e sono diffidenti verso chiunque. Ancora una metafora, dunque, ancora un ostacolo da superare. Chi riuscirà a farlo rimarrà colpito ed emozionato da questa fiaba dolce e magica, che ha voluto giungere fino a noi come inno all’esserci tutti insieme su questo mondo. E rimarrà incantato dallo sguardo innocente e puro di uno straordinario parterre di attori, dove svettano ovviamente i due protagonisti, un tenero Paul Giamatti a una eterea e bellissima Bryce Dallas Howard.

Lady in the Water
(id.)

Regia e sceneggiatura: M. Night Shyamalan
Origine: Usa, 2006
Durata: 102’

Sito ufficiale italiano
Sito ufficiale americano

lunedì 7 aprile 2008

Un bacio romantico

New York. Lizzie è sola in una pasticceria aperta tutta la notte, la storia con il suo ragazzo è finita perché lui la tradiva: Jeremy, il proprietario, è un tipo brillante che la spinge ad assaggiare una torta di mirtilli. E’ la particolare complicità di un momento, ma Lizzie sembra ritrovare in questo modo la voglia di affrontare il mondo, trova nuovi lavori per comprarsi un’auto, conosce il disperato poliziotto Arnie, schiavo dell’alcool dopo che la moglie lo ha lasciato, e finisce a viaggiare per l’America con Leslie, accanita giocatrice che ha un pessimo rapporto con il padre. Tutte queste storie finiranno per arricchirla finché il viaggio non la riporterà al punto di partenza, nella pasticceria di Jeremy e della torta di mirtilli.

Non sorprende affatto constatare come Wong Kar-Wai riesca a compiere quell’operazione di innesto delle proprie coordinate artistiche nel cinema occidentale che a molti colleghi invece non è riuscita: perché in fondo il suo cinema ha sempre tradito una tensione universale e cosmopolita in grado di attecchire tanto nelle metropoli dell’Est quanto in quelle dell’Ovest. Un bacio appassionato, suo nuovo film (non brutta, sebbene esemplificatrice, la traduzione del titolo italiano), accantonato eccessivamente come un’operazione incolore, arriva invece al momento giusto, quando l’immaginario dell’autore cinese rischiava di ricadere in una certa autoreferenzialità, e gli permette anzi di rinnovarsi, in un confronto proficuo con le strategie narrative e con le forze attoriali del cinema occidentale (americano in particolare, sebbene la produzione sia sino-francese). Si avverte infatti, durante la narrazione, una spinta propulsiva che è quella tipica del cinema indipendente statunitense, basato su una forte centralità dell’attore, dove la recitazione ha uno stampo quasi teatrale, fatta di gesti molto calibrati, a tratti enfatici, dove il corpo riesce a sembrare libero eppure nello stesso tempo perfettamente sotto controllo, e i suoi movimenti sono il frutto di una tecnica radicata, che riesce a coniugare lo studio con l’improvvisazione. E già qui si svelano le prime sorprese, se accanto a professionisti consolidati (spesso usati in ruoli originali) come Natalie Portman, Rachel Weisz, Jude Law e David Strathairn, il ruolo di protagonista vede esordire la cantante Norah Jones. In fondo Un bacio appassionato è un film di forze divergenti, così aderente all’iconografia americana da sembrare poco personale, ma invece capace di veicolare sottotraccia le ossessioni tipiche del Wong Kar-Wai migliore, quello che più di dieci anni fa ci stupiva con lo splendido e malinconico dittico formato da Hong Kong Express e Angeli perduti.

La solitudine in primo luogo, che non è però un sentimento estroflesso, ma una sorta di sentire comune che immalinconisce naturalmente ogni personaggio, rende ognuno di loro una icona danzante e quasi fantasmatica in una città-proscenio che diventa allo stresso tempo testimone e prolungamento del malessere: uno spazio alieno, ripreso non casualmente con una fotografia psichedelica (frutto del grande Darius Khondji, che sostituisce egregiamente Christopher Doyle), in realtà abilmente rielaborato dallo stesso Wong: parte del girato metropolitano è infatti quello hongkonghese, mescolato con sagacia agli scenari di New York senza soluzione di continuità, a formare un tutto amalgamato come i sapori evocati dalle inquadrature ravvicinate iniziali del rosso sciroppo di mirtilli che invade il bianco del gelato. Ed è una solitudine che, appunto, preclude a un lavoro sull’aspetto visivo del film: ogni personaggio è quasi sempre “rinchiuso” in una singola inquadratura, e tutti i duetti sono come “divisi” e mantenuti “a distanza” da questo espediente registico.

La misura di questa vicinanza/lontananza è data ancora una volta dagli oggetti: la torta di Jeremy, le chiavi di Lizzie, il gettone di Arnie, l’auto di Leslie sono anch’essi personaggi della storia, sono il territorio che misura il progressivo sfiorarsi di queste anime sole in cerca del proprio posto nel mondo. Oggetti accarezzati dalla macchina da presa, indagati, iconicizzati e elevati dal semplice status di “cose” a quello di “elementi”, cascami di una realtà sovrastrutturata dove si gioca in ogni caso l’eterna partita dei sentimenti. E se nei suoi precedenti lavori Wong Kar-Wai lasciava il racconto slabbrato, preferiva imbastire delle situazioni senza cercare una struttura narrativa in grado di garantire la quadratura del cerchio, stavolta i meccanismi del cinema occidentale lo spingono a osare una narrazione più compatta, ma senza snaturamenti, in un divertente gioco di mimesi che lo porta di volta in volta a contraddire o ossequiare le aspettative dello spettatore occidentale.

E poi la musica: altra protagonista assoluta, in un magnifico score che assembla brani del passato e del presente in grado di assecondare il ritmo del film. Un ritmo dolente, ma anche ironico, gustoso, ancora una volta come le componenti del dolce mangiate da Lizzie, quello rifiutato dagli altri clienti ma che si rivela inaspettatamente particolare e piacevole al palato. Probabilmente Wong Kar-Wai è, insieme, a Quentin Tarantino, il regista più capace di utilizzare una colonna sonora non originale in senso espressivo e pertinente alle immagini narrate. Anche le canzoni, come lo scenario, diventano quindi un prolungamento dei personaggi, ne definiscono le azioni e l’umore, colorando il film in un amalgama perfettamente compatto.

Alla luce di tutto questo potremmo azzardare che Wong Kar-Wai costituisca il vero trait-d’union fra Godard e Tarantino, fra la sperimentazione narrativa cara al regista francese e la passione dal vago sapore metacritico sulle opere (musicali) del passato tipica del collega americano, che recupera e ricontestualizza le melodie e gli elementi del cinema amato, secondo il puro gusto della passione. La ricerca e la passione, insomma, per unire il cervello e il cuore.

E perciò ogni film è sempre destinato a lasciarci nel cuore almeno una canzone: era “Wang Ji Ta/Forget Him” di Shirley Kwan in Angeli perduti, era “Happy Together” di Danny Chung nel film omonimo, stavolta è “The Greatest” di Cat Power, che chiude la storia sul bacio che finalmente vede uniti Jeremy e Lizzie. Il momento più dolce di un film tutto da gustare.

Un bacio romantico
(My Blueberry Nights)

Regia: Wong Kar-Wai
Sceneggiatura:
Origine: Francia/Hong Kong, 2007
Durata: 111’

Intervista a Wong Kar-Wai
Sito ufficiale italiano
Sito ufficiale francese

venerdì 4 aprile 2008

Goldrake 30!


4 Aprile 1978 - 4 aprile 2008: trent’anni di distanza e una serie animata giunta da lontano con un messaggio di conciliazione volto ad avvicinare gli opposti. La prima trasmissione italiana di Ufo Robot Goldrake (all’epoca “Atlas Ufo Robot”) sul Secondo Canale Rai è un fatto significativo perché di fatto dà il via all’invasione dei cartoni animati giapponesi, ma anche perché rappresenta un momento di avvicinamento culturale fra due realtà (quella italiana e quella del Sol Levante) mai state così vicino e al contempo così lontane. Il messaggio della serie è pacifista, invita alla convivenza tra i popoli e rovescia l’ideale guerriero delle lotte tra samurai nel segno della negazione: il pilota non vuole combattere, ma vi è costretto in quanto unico baluardo contro gli invasori.
 
Un cartoon che per questo unisce il pubblico dei ragazzi e delle ragazze, gli uni attratti dalla forza guerriera del robot, le altre dall’indole romantica di Actarus, pilota gentile e malinconico, distante e quasi inafferrabile. La serie genera culti e divisioni, dando vita a un fenomeno che produce per germinazione spontanea l’acquisizione in massa di nuove serie: una porta è stata finalmente aperta e i ragazzi italiani, da Torino a Palermo, imparano che anche quelli di Tokyo e Osaka, come quelli di New York e Los Angeles (al cinema sono gli anni di Guerre stellari e Incontri ravvicinati) amano alzare lo sguardo al cielo e sognare avventure fantastiche.
 
Ripensare oggi alle polemiche del tempo, relative al presunto messaggio “diseducativo” e “violento” portato da una cultura lontana, dovrebbe far sorridere, se non pensare alla beffarda ironia di un cartoon che inneggiava ai buoni sentimenti ed era invece recepito dagli adulti come il suo esatto opposto. Oggi Goldrake è un mito per tutti, articoli celebrativi compaiono su quotidiani e settimanali (persino su “Famiglia Cristiana”) e le polemiche sono un ricordo del passato.
 
La serie dal canto suo manca dagli schermi televisivi da quasi un decennio ed è sorprendente notare come l’onda lunga del suo clamore continui in ogni caso a serpeggiare: molti i siti internet a tema, le pubblicazioni specifiche, le ospitate di chi ne cantava la sigla in tv e gli omaggi che spuntano ogni dove, nei modi e nei luoghi più inaspettati.
 
A prescindere dal suo valore artistico, dal fatto che magari all’epoca si potevano preferire altri prodotti o che oggi si seguano serie del tutto diverse e più mature come Evangelion o Death Note o quant’altro, è giusto ricordare che tutto è partito da lì, dal robot venuto dalle stelle per proteggere la Terra dagli invasori.
A testimonianza finale di questo breve ricordo due contributi: il primo è una strip ironica, realizzata da Fabio “Fa.Gian.” Gianello su mio soggetto, che ironizza sulle polemiche riguardanti la recente edizione DVD che ha sostituito un nuovo doppiaggio alla traccia storica del 1978:
 
La seconda invece è uno dei tanti interessanti contributi che testimoniano come Ufo Robot Goldrake si sia radicato in profondità nell’immaginario popolare, conosciuto ormai anche da chi magari la serie non l’ha mai vista. Due mascheroni di cartapesta, retaggio di un carro arrivato terzo alla sfilata di Carnevale di qualche anno fa, che campeggiano all’ingresso di Massafra, amena cittadina in provincia di Taranto, salutando i viandanti come simbolo ancora una volta di amicizia e conciliazione.
 

giovedì 3 aprile 2008

I padroni della notte

New York, 1988. Bobby Green gestisce un bar per conto di alcuni malavitosi russi e ha tagliato i ponti con il padre Bert e il fratello Joseph, entrambi poliziotti. I due gli chiedono però di aiutarli a incastrare Vadim, corriere della droga che bazzica nel locale e quando Bobby si rifiuta, Joseph deve fare da solo, subendo per questo un attentato dal quale si salva per miracolo. Sconvolto da quanto accaduto al fratello, Bobby decide di incastrare Vadim e resta coinvolto in una spirale di vendette incrociate che vede cadere Bert sul campo. Alla fine Bobby si arruolerà in polizia per portare a termine il suo compito.

Fattosi notare nel 1994 con Little Odessa, cui ha fatto seguito nel 2000 The Yards, James Gray si è costruito nel tempo una buona reputazione, destinata a essere rafforzata da quest’opera terza, un poliziesco che riecheggia i dolenti noir di Martin Scorsese o gli inquieti scenari metropolitani cari a William Friedkin. Un film ambientato negli anni Ottanta e incentrato su un canovaccio classico e archetipi ben definiti, ma capace di non risultare ugualmente derivativo o banale. Ciò che a Gray sembra interessare non è infatti l’innovazione, né (come si potrebbe facilmente pensare) la semplice glorificazione di stampo conservatrice della classica diade Dio-famiglia. Accanto alla tradizionale storia di due fratelli divisi dal destino, che apre la porta a un racconto di vendetta e riconciliazione, si evidenzia infatti un discorso più complesso sul senso di appartenenza a un gruppo che preclude a scelte difficili. Bobby è un personaggio che ha abbandonato la famiglia e ha trovato un nuovo nucleo ad accoglierlo, guidato dal patriarca russo Marat, che gli ha affidato un locale e progetta di fare di lui uno dei suoi uomini di fiducia una volta che gli affari si saranno ampliati. Forte dell’intraprendenza tipica dei suoi giovani anni, Bobby ci appare non già come il classico figlioccio rampante che non esita a calpestare i propri ideali per il successo, ma come un convinto assertore della possibilità di sfuggire ai legami di sangue e di razza per rifarsi una vita: alla famiglia patriarcale di Bert, tradizionale, bianca e devota a Dio, si oppone un modello apparentemente più “libero”, che permette a un bianco come Bobby di essere accolto come un figlio insieme alla sua fidanzata portoricana Amada.

La scoperta del fragile equilibrio che nasconde soltanto l’interesse del denaro spinge Bobby a tornare sui suoi passi per riconciliarsi con il fratello Joseph e il padre Bert, in un percorso che ha allo stesso tempo il sapore di un ritrovare il proprio posto in una realtà fino a poco prima considerata aliena (a un certo punto Joseph considera strano vedere il fratello nel suo ufficio con incarichi da poliziotto) e il modificare gli equilibri interni alla comunità stessa. In questo senso è interessante notare come il cambio di fronte di Bobby coincida innanzitutto con una nuova prospettiva nella quale viene fatto apparire Marat: da patriarca placido e amorevole con i nipoti a subdolo calcolatore che imbastisce i suoi loschi traffici attraverso una insospettabile rete di collaboratori che investe i familiari più prossimi. Contestualmente anche i rapporti di forza fra Bobby e Joseph mutano: inizialmente il primo è il debole della situazione, mentre il secondo è il decisionista, che non si lascia intimorire dai nemici, ma nel prosieguo della storia questa apparenza è destinata a essere rovesciata da un finale che vede Bobby nel ruolo di chi agisce e non si lascia paralizzare dalle incertezze, al contrario dello stesso Joseph.

Il punto di equilibrio fra le varie forze in campo è quindi dato dal rapporto con Amada, che sembra inizialmente resistere agli scossoni del caso: la ragazza, infatti, non è la classica “pupa” del giovane boss, ma una compagna sincera che ragiona in termini di coppia e resta accanto al suo uomo nelle difficoltà, attraversa con lui anche i momenti più drammatici che mettono a rischio la sua vita, salvo poi ritrarsi non quando il carico di responsabilità diventa troppo grande, ma quando appare evidente che è lo stesso Joseph a non considerare il legame con lei come una realtà, nascondendole le sue decisioni. Il momento, che coincide con l’arruolamento in polizia, è sottolineato magnificamente dalla intensa scena in cui Bobby non legge il messaggio lasciatogli da Amada, ma lo abbandona sul tavolo uscendo poi silenziosamente dall’inquadratura per spostarsi in un’altra stanza. La scelta in quel momento è compiuta.

Ecco, una delle capacità dimostrate dalla regia di Gray, che non ha la maestosa eleganza di uno Scorsese o la perizia tecnica di Friedkin, è comunque la sua capacità di elaborare i sentimenti dei personaggi attraverso un lavoro sulla messinscena raffinato e di grande impatto: i movimenti degli attori sono seguiti ed enfatizzati con cura attraverso piccoli dettagli e scelte di campo molto precise. Memorabile a questo proposito l’inseguimento sotto la pioggia ripreso quasi totalmente dall’interno dell’abitacolo.

In questo senso anche il finale è tanto semplice quanto lineare nell’aprire una crepa nello status quo apparentemente ripristinato: per un fratello che gli dichiara il suo affetto, Bobby sconta la mancanza di Amada, volto forse intravisto (desiderato?) fuggevolmente tra la folla. La scelta di campo non è rimasta senza conseguenze, e la perdita di una compagna è certamente la più marcata.

I padroni della notte
(We Own the Night)

Regia e sceneggiatura: James Gray
Origine: Usa, 2007
Durata: 105’

Sito ufficiale italiano

mercoledì 2 aprile 2008

The Replacement Child

Dopo un anno passato in un centro giovanile per aver picchiato il patrigno, Todd Turnbull torna a casa e tenta di reinserirsi nella comunità, superando i pregiudizi e cercando di non arrendersi alle provocazioni di chi lo ritiene ancora un teppista. La prima persona da cui si reca è il suo amico fraterno Micheal Murphy, costretto a letto da una malattia che i genitori, in ossequio al loro credo religioso, non intendono curare, certi come sono che soltanto la preghiera potrà salvare il figlio. Todd si trova così costretto a scegliere fra il rispetto dei suoi propositi di non violenza e la salvezza dell’amico.

La provincia americana è da sempre un ricettacolo formidabile per storie in grado di scavare nelle contraddizioni dell’animo umano e per affrontare argomenti che, partendo da situazioni particolari, siano in grado di elevarsi a un livello universale. The Replacement Child, girato in Massachussets dal ventisettenne Justin Lerner come saggio di fine corso dopo un master in regia alla UCLA, è proprio questo: un cortometraggio che, nella semplicità dell’assunto, dimostra una gamma notevole di sfumature in grado di parlare al cuore dello spettatore e di far riflettere sulla sottile linea che divide il pregiudizio dalla colpa. A un livello primario, infatti, siamo di fronte a un duro atto d’accusa contro il fanatismo religioso che porta a uno scollamento dalla realtà, tale da calpestare la dignità stessa delle persone: uno spunto già di per sé interessante nella nostra contraddittoria epoca dove spesso i fondamentalismi poggiano su interpretazioni sbagliate della fede.

Ma, inquadrando la storia da una differente prospettiva, è agevole rendersi conto di come Lerner imbastisca un più generale discorso sui limiti del pregiudizio e sulle ipocrisie dell’animo umano: il ritorno a casa di Todd, con la sua conseguente voglia di reinserirsi nella società, sottopone infatti il ragazzo a una serie di ingiustizie figlie del pregiudizio nei suoi confronti (dopo gli errori commessi), che lo costringono a comportarsi come ci si aspetterebbe da lui. L’adesione di Todd ai dettami religiosi cari alla comunità, insomma, seppur cercata convintamente dal ragazzo (come dimostra l'inquadratura iniziale che lo vede osservare una croce che svetta nel cielo, per lui irraggiungibile e lontana), diventa soprattutto una necessaria aderenza all’ipocrisia e alla menzogna che regnano nel luogo, piuttosto che a una forma educativa in grado di elevarlo spiritualmente. La regia di Lerner in questo senso è brava a giostrare il delicato equilibrio di sentimenti che la vicenda pone in essere, e adotta uno sguardo capace di ritrarre in senso espressivo gli spazi dell’azione, con interni claustrofobici dove i personaggi sembrano immobili, letteralmente “ritagliati” nelle porte o negli angoli delle stanze. A questi si accompagnano esterni spogli, con relitti di auto abbandonate e un senso di desolazione che pare suggerire più l’idea di singoli insediamenti umani che di una vera e propria cittadina: non vediamo che singole case, nessuna chiesa (nonostante il sottotesto religioso) o ufficio, ma ci sono i rappresentanti del potere (un consulente spirituale per i Murphy e il patrigno di Todd, poliziotto e violento), come a suggerire la presenza unicamente di uomini simbolo, che riflettono un’interpretazione superficiale e iconica della fede (non a caso ad abbondare sono invece le immagini sacre, i libri e le croci).

In questo contesto Todd è l’alieno, ha trasgredito e questa natura di outsider lo pone in discontinuità con il resto degli abitanti conferendogli però la possibilità di vedere davvero ciò che sta accadendo. Di più: gli permette di comprendere appieno i dettami di una fede superiore che si estrinseca nella sua nobiltà d’animo e nel suo essere radicato ai valori tradizionali dell’America, intesi in un’accezione del tutto positiva: la sua passione per il blues e per il canto (che svettano in uno dei momenti più intensi), il senso dell’amicizia e degli affetti. Non pare casuale, a questo proposito, la scelta di una fotografia dai colori caldi, che riverberano il valore fisico della terra, della materialità e della concretezza, di un certo sapore pragmatico che si oppone a uno spiritualismo astratto e avulso dalla verità dell’uomo di carne. E anche una certa solennità narrativa che si estrinseca in inquadrature molto ragionate, con movimenti della macchina da presa mai eccessivi, utilizzati anzi per conferire alle figure una statura epica, chiaro retaggio del genere western (evidente anche nei close-up sugli occhi dei personaggi e nell’attenzione generale ai dettagli). Oltre a una accurata scelta di casting, che trova la sua più felice scelta nel protagonista Travis Quentin Young, volto espressivo e in grado di esprimere al contempo durezza e malinconia: una perfetta “faccia da cinema” che sembra un tardo erede dei Ragazzi della 56a strada di Francis Ford Coppola.

Ma in tutto questo Lerner inserisce anche dei tocchi ironici, perché il paradosso e il senso dell’assurdo possono essere molto più incisivi rispetto a una critica a muso duro del fanatismo: ecco dunque che Todd si ritrova a lavorare in una gelateria, costretto nel ruolo di subalterno rispetto a un ragazzo affetto da sindrome di down, che peraltro lo tratta con la stessa superbia tipica dei datori di lavoro, intimandogli di sorridere forzatamente ai clienti: una situazione dall’effetto divertente ma spiazzante, che riassume efficacemente il senso di impotenza di fronte a una società che agisce secondo comportamenti predefiniti e ha già deciso le sue gerarchie, chi è ammesso fra i “buoni” e chi fra i “cattivi”.

La scelta di Todd assume dunque il valore di una tappa formativa, di un percorso morale tipico dell’adolescente che deve imparare da sé a comprendere le regole della convivenza sociale e del rispetto umano: infatti, al di là di qualsiasi credo religioso, il finale dimostra chiaramente come il padre di Michael sia ben cosciente che il non aiutare il figlio malato sia qualcosa che potrebbe procurargli dei guai con la polizia. E perciò la soluzione è tenere tutto nascosto, in case-fortino dove la presenza di estranei non è ammessa quando gli stessi genitori non sono presenti e dove Todd deve agire di nascosto per cercare di far trionfare la verità. Quella verità, che una volta ristabilita, vede Todd sdraiarsi sul terreno, immerso nella sua musica, quasi a suggerire il suo ritorno a quella dimensione concreta e materica negata dai fatti precedenti. Fra la croce che svettava nel cielo all'inizio e la terra, insomma, il ragazzo fa la sua precisa scelta.

Il risultato sono 25 minuti che ossequiano la tradizione del miglior cinema americano classico, potente eppure immediato, in un risultato globale che si è attirato, fra gli altri, i complimenti di un esperto scrutatore delle “zone oscure” dell’animo umano come Bret Easton Ellis. Purtroppo inedito in Italia, il corto è stato comunque proiettato al Torino Film Festival 2007 nella sezione “La Zona” e sta riscuotendo molto interesse nei festival internazionali.

The Replacement Child
Regia e sceneggiatura: Justin Lerner
Origine: Usa, 2007
Durata: 25’

Sito ufficiale

martedì 1 aprile 2008

[REC]

Angela, giornalista televisiva del programma “Mentre voi dormite” sta registrando un servizio presso il corpo dei Vigili del Fuoco di Madrid: una chiamata improvvisa precipita una squadra (con la giornalista e il cameraman al seguito) in un palazzo che diventa ben presto ricettacolo di un contagio. Chiunque venga morso si trasforma in un infetto rabbioso e le autorità, per arginare il fenomeno, sigillano tutte le uscite. Per Angela e gli inquilini inizia una notte di terrore, che noi spettatori seguiamo in tempo reale attraverso l’obiettivo della telecamera.

E’ ancora possibile assaporare nel buio della sala l’emozione della paura, quella che attanaglia allo stomaco e quasi impedisce di respirare? [REC] è la risposta (affermativa): un concentrato purissimo di angosce, un film viscerale e capace di non perdere un colpo, che riesce, come pochi titoli, a visualizzare il panico su schermo. L’uscita italiana che avviene in quasi contemporanea a quella di Cloverfield, con cui il film condivide il medesimo stile in soggettiva, non deve scoraggiare, né tantomeno devono fare i nomi dei due registi, Jaume Balaguerò e Paco Plaza che non avevano particolarmente convinto con i loro lavori precedenti. [REC] infatti si dimostra perfettamente efficace e capace di agire su più livelli contemporaneamente: è un puro film di genere, che si adagia su cliché codificati, ma anche un meccanismo complesso, un tour de force stilistico che immerge lo spettatore nell’esperienza. L’approccio è meno radicale e teorico di Cloverfield, ma il risultato è anche più energico nel trasmettere le sue emozioni.

Gli ultimi dieci anni di cinema horror verranno forse storicizzati come quelli che hanno tentato in maniera più precisa di rinnovare l’iconografia del morto vivente, definito da George A. Romero nel 1968 con La notte dei morti viventi: il passaggio più scontato è stato quello di sovrapporre questa classica icona, dall’incedere quasi ipnotico nella sua lentezza, a quella dei contaminati (peraltro “inventati” sempre da Romero in La città verrà distrutta all’alba del 1973), scattanti e aggressivi. [REC] si situa senz’altro in questo nuovo filone “a metà”, ma ha la saggezza di comprendere che il rinnovamento maggiore non sta tanto nella foga più o meno esasperata del mostro, ma nel senso di impotenza che si prova di fronte all’orrore cosmico provocato dal propagarsi della piaga (interessante notare come lo stesso Romero si sia recentemente accostato a questa metodologia di racconto, con l’atteso Diary of the Dead). Il raccontare in soggettiva la condizione di vittima rispetto al contagio rappresenta quindi l’idea perfetta per fare avanzare il genere di un livello e immergerlo nelle paranoie sociali e nell’ossessione per l’immagine care al terzo millennio. Che sono, cioè, le paure di un pericolo improvviso che si palesa nel cuore della metropoli, ma anche quelle del voler a tutti i costi riprendere un evento.

L’intraprendenza di Angela, che ordina al suo cameraman di riprendere i fatti, è dunque leggibile come un possibile speculare alla diffidenza che i vari inquilini dello stabile dimostrano gli uni verso gli altri, e questo nodo di relazioni interpersonali finisce per costituire a sua volta una metafora della furia disgregatrice portata avanti dai contaminati. Quello cui assistiamo, in fondo, è una nuova rappresentazione della fine di un mondo già in atto, auspicata e temuta allo stesso tempo da un’umanità in bilico.

Per questo motivo [REC] unisce passato e presente riutilizzando gli espedienti più o meno classici del genere senza farli risultare logori o derivativi: innanzitutto gioca con gli improvvisi sbalzi del sonoro in modo da creare un’atmosfera avvolgente, dove i rumori intervengono in ogni momento di possibile calo della tensione rinforzando il timor panico. Contemporaneamente la fotografia “sporca” del digitale agevola una resa desautorata nei colori che diventa quasi bicromatica (complice l’uso intelligente della “visione notturna” della telecamera), dove risalta soprattutto il rosso intenso del sangue. I protagonisti, inoltre, si rivelano degli inetti incapaci di coordinarsi e mostrano il fianco ai mostri che non hanno altro da fare che attendere l’occasione giusta per potersi scatenare. L’uso degli spazi, chiusi e oppressivi, rende la vicenda claustrofobica, mentre la recitazione isterica dei protagonisti (sui quali svetta una strepitosa Manuela Velasco) risulta credibile perché correlata a un evento che nel suo limitato raggio d’azione (il condominio) ha portata globale, è inarrestabile e riproduce in vitro una follia collettiva. La struttura narrativa, dal canto suo, segue in maniera molto precisa quelli che sono i canoni finora dettati dal “Real Movie”: un inizio apparentemente avulso da tutto il resto, la virata che precipita nell’orrore, la situazione di panico, fino alla rivelazione finale sulle cause che hanno determinato l’orribile vicenda.

All’interno di questa struttura, il lavoro degli autori è quindi apparentemente quello di regolare il flusso di energia che la situazione, agevolata da un impianto di chiaro stampo teatrale, pone naturalmente in essere, e per questo motivo il film appare per molta parte del suo svolgimento totalmente distaccato rispetto ai temi cari ai due registi: l’eleganza stilistica spesso fredda e formalista che ha sempre contraddistinto soprattutto i precedenti lavori di Balaguerò è sostituita dall’incedere caotico di una camera a spalla che necessariamente cattura le immagini nel loro farsi, cerca di mantenere sempre una certa stabilità del quadro ma è compromessa dall’imprevedibilità degli eventi. E per questo il film, nonostante gli accorgimenti tecnici enunciati in precedenza, risulta visivamente "poco elegante”, nervoso, ma anche febbricitante.

Dove però Balaguerò e Plaza rivendicano con forza il loro diritto a porre un suggello autoriale è nel finale, quando la spiegazione del mistero (che ovviamente non va rivelata) si ricollega in maniera particolarmente netta ai temi delle rispettive filmografie (in particolare il settarismo religioso di Plza e la dissoluzione familiare di Balaguerò). Apparentemente forzato, questo elemento non fa altro che ribadire come il film sia in grado di mantenere il doppio registro fra esigenze commerciali e finalità espressive. L’equilibrio di [REC] in questo senso è davvero esemplare e la discesa agli inferi dei protagonisti è condotta con intelligenza e rigore. E in grado di risultare assolutamente coinvolgente: un film semplicemente imperdibile.

[REC]
(id.)
Regia: Jaume Balaguerò e Paco Plaza
Sceneggiatura: Jaume Balaguerò, Luis Berdejo, Paco Plaza
Origine: Spagna, 2007
Durata: 85’

Intervista a Jaume Balaguerò e Paco Plaza
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Intervista al direttore di doppiaggio
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