"C'è chi crede in dio o nel denaro. Io credo nel cinema, nel suo potere. L'ho scoperto da ragazzino, mi ha aiutato a fuggire da una realtà in cui ero infelice. È una delle forme d'arte più alte che l'uomo ha concepito. Credo nel suo futuro."
(John Carpenter)

lunedì 30 giugno 2008

Il brutto anatroccolo (3/3)

La ricerca di soggetti in grado di porre lo staff tecnico e artistico di fronte a continue sfide, ha fatto sì che la vasta produzione delle Silly Symphonies vanti un unico caso di “remake”, anche se sarebbe più corretto parlare di “doppia trasposizione” della medesima storia. Due sono infatti le versioni della fiaba Il brutto anatroccolo, scritta da Hans Christian Andersen nel 1843, che la Disney ha realizzato, rispettivamente nel 1931 e nel 1939: otto anni di distanza che marcano in maniera quasi esatta l’intero percorso della serie (la seconda versione, in effetti, chiude definitivamente l’avventura delle Silly Symphonies).

Proprio questa distanza tra i due lavori permette di tracciare un bilancio nella produzione della serie, approfondendo non solo l’approccio tecnico alla medesima storia, ma anche quello artistico e narrativo. Le due versioni infatti sono molto diverse tra loro, e a parte qualche cripto-citazione come quella del verme che l’anatroccolo tenta di catturare c’è una sola sequenza che potremmo definire “ripetuta”, ovvero quella che vede il simpatico animale specchiarsi nell’acqua di un laghetto. Per il resto è differente anche il modo di porsi nei confronti del modello originale di Andersen.

La versione del 1931, diretta da Wilfred Jackson, sebbene molto godibile grazie a un ritmo veloce che permette di contenere molti eventi nei pochi minuti di durata, non approfondisce i caratteri, ma adotta uno stile icasticamente narrativo, incentrato cioè sulla mera enumerazione degli eventi che si susseguono in tutta fretta. Allo stesso tempo la regia ha un impianto maggiormente rivolto alle performance di figure e suoni, sempre in perfetto sincrono, come codificato dal fondativo La danza degli scheletri. Quelle che dunque vediamo in azione sono figure che alla bisogna sono deformate in senso antirealistico per garantire l’effetto comico e i cui movimenti appaiono alquanto schematici, unitamente alla prospettiva frontale che racconta la vicenda. L’anatroccolo in questo caso è davvero un’anatra ed è raffigurato come realmente poco gradevole alla vista, diversamente da quanto accadrà nella seconda versione, dove è invece differente dai “fratelli”, ma disegnato in modo molto accattivante.

L’aspetto più controverso della trasposizione riguarda ovviamente il modo con cui ci si è relazionati alla crudeltà da sempre presente nei lavori di Andersen: la fiaba infatti non nasconde la propria natura metaforica di racconto incentrato sul senso di solitudine e disperazione provato da chi non è ritenuto conforme ai canoni estetici della società e subisce per questo la discriminazione da parte di chi dovrebbe invece amarlo (la famiglia) e più in generale da chiunque incroci il suo cammino. Questo aspetto nella Silly Symphony del 1931 è parecchio mitigato (sebbene sia presente) e soprattutto conduce a una risoluzione molto diversa da quella raccontata da Andersen: un inaspettato tornado (che sembra citare palesemente Il mago di Oz, racconto fondativo nella mitologia americana) infatti costringe l’anatroccolo a improvvisarsi eroe per salvare i cuccioli della gallina che pure lo aveva rifiutato come figlio. La natura educativa comunque insita nelle Symphonies spinge quindi lo staff Disney a esaltare i valori tipici del sogno americano, e per questo motivo l’anatroccolo supera l’ostacolo della diversità conquistando con le sue doti innate l’affetto della “madre”: un messaggio che vuole anche servire da incentivo, nell’epoca della Grande Depressione, a non arrendersi di fronte alle difficoltà.

Con la versione “definitiva” del 1939, diretta da Jack Cutting, invece tutto cambia: intanto si passa dalla bicromia del bianconero a un’immersione nei colori più sgargianti offerti dalla fotografia in Technicolor, che rende immediatamente più accattivante la nuova versione. I caratteri sono inoltre delineati e, sebbene umanizzati, la loro fisionomia appare nel complesso realistica e scevra dalle comiche “deformazioni” della prima versione. I sentimenti di tutti i personaggi sono poi esaltati da una regia più articolata e attenta all’espressione delle singole emozioni: si fa quindi uso di primi piani molto stretti, dettagli (si veda la zampa dell’oca che batte spazientita) e della splendida soggettiva dell’anatroccolo (stavolta, conformemente alla fiaba, in realtà cucciolo di cigno) che guarda la propria immagine riflessa nell’acqua finendo per spaventarsi di se stesso. In questo caso grande spazio è dato alla componente lirica, che cerca la partecipazione emotiva dello spettatore per il dolore del giovanissimo protagonista (e il fatto che lo stesso sia disegnato in modo da suscitare tenerezza è una scelta precisa e indovinata): una lezione che porrà le basi per la creazione, dopo soli due anni, di un autentico capolavoro come Dumbo, che di questo short può considerarsi una evoluzione.

Stavolta, inoltre, l’aderenza al racconto originale è più netta, nonostante l’ovvia compressione narrativa: l’anatroccolo non viene accettato dalla madre (che stavolta è un’oca e non una gallina) per il suo coraggio, ma dopo una serie di disavventure trova invece l’affetto di una mamma-cigno e dei suoi cuccioli, che riconoscono il protagonista come loro affine, permettendogli infine di trovare il suo posto nel mondo. La scoperta peraltro azzera finalmente i complessi di inferiorità del cucciolo, che nel finale vediamo seguire orgoglioso la nuova famiglia, gettando uno sguardo di rifiuto verso l’oca che l’aveva fino a quel momento disprezzato e che resta peraltro molto stupita nello scoprire la vera natura del suo ripudiato “figlio”.

Il risultato è un corto poetico e irresistibilmente dolce, meritatamente vincitore del Premio Oscar 1939, che fa breccia nei cuori degli spettatori di ieri e di oggi dimostrando il valore espressivo raggiunto dall’animazione disneyana e conclude nel migliore dei modi la feconda stagione delle Silly Symphonies. Un lavoro imprescindibile.

Scheda della versione 1931 su Disneyshorts.org (in inglese)
Scheda della versione 1939 su Disneyshorts.org (in inglese)
La versione del 1931 su YouTube
La versione del 1939 su YouTube
La fiaba di Andersen
Pagina di Wikipedia sulla fiaba di Andersen

sabato 28 giugno 2008

Iron Man – L’incredibile Hulk

L’uscita a breve distanza di due film come Iron Man (di Jon Favreau) e L’incredibile Hulk (per la regia di Louis Leterrier) è stata accolta da molti appassionati e osservatori come il segnale di un cambiamento di rotta all’interno del genere cinecomics: il fatto che la stessa Marvel Comics abbia deciso di intraprendere direttamente la strada della produzione è stato interpretato come un segnale di diffidenza che la Casa delle Idee avrebbe ormai maturato verso le trasposizioni cinematografiche affidate a realizzatori esterni al suo controllo. L’introduzione di elementi di continuità fra i due titoli ha dato poi il via a una serie di congetture su possibili cross-over cinematografici tra le saghe di Spider-Man, Daredevil, X-Men e via citando (ipotesi però smentita dal fatto che proprio in questi giorni la Marvel ha rinnovato i diritti sull’Uomo Ragno alla Sony, che ha così messo in cantiere un quarto capitolo della “sua” saga).

In realtà, restando ai fatti, quello che è evidente è che l’operazione intrapresa dalla Marvel volge al momento verso una principale direzione, ovvero la realizzazione di un progetto composito che partendo dai singoli titoli conduca, entro il 2011, a un film dedicato ai Vendicatori: il controllo esercitato quindi dalla casa madre sembra finalizzato soprattutto a mantenere l’omogeneità stilistica, ritmica e ovviamente il sistema di riferimenti interni che porti alla fine tutte le pellicole a potersi considerare come parte di un'unica saga.

In questo senso è interessante notare come Iron Man e L’incredibile Hulk possiedano nei fatti tale omogeneità e dimostrino anzi una specularità che costituisce il loro maggiore motivo d’interesse: a livello eminentemente spettacolare, infatti, sebbene siano comunque molto godibili, è palese una certa “rigidità d’azione” che rende i due film privi di particolari guizzi e li colloca anzi nel pur nobile territorio dei B-Movies (concettualmente se non proprio finanziariamente).

Siamo infatti di fronte a due pellicole che mettono in scena un conflitto tra l’uomo occidentale e l’uso distorto della tecnologia da egli stesso perpetrato: estroflesso nel caso di Tony Stark (costruttore di armi che si rende conto di aver alimentato il mercato del terrorismo ufficialmente da lui combattuto) introflesso per Bruce Banner, che patisce sul suo stesso corpo le conseguenze dell’uso scriteriato della scienza bellica. Proprio la specularità dei due personaggi permette agli stessi di poter settare su livelli differenti anche il tono delle rispettive pellicole: Iron Man è infatti un film ironico, con un protagonista carismatico e un po’ sopra le righe (complice la calzante caratterizzazione fornita da Robert Downey Jr.), che suscita l’empatia nello spettatore attraverso le sue battute ma anche mediante la potenza che immediatamente suscita la sua avveniristica armatura. Tale e tanta è questa forza che infine Stark può anzi permettersi di vivere tranquillamente la sua doppia vita rivelando al mondo la propria identità segreta.

Viceversa Banner è all’opposto un antieroe tragico, vessato da un potere che è anche una maledizione ed è costretto a nascondere la propria doppia natura al mondo, riverberando quella condizione già enunciata nel celebre telefilm di fine anni Settanta: da questo punto di vista va anche aggiunto che tra i due lavori L’incredibile Hulk è anche quello progettualmente più delicato e complesso, poiché alla necessità di costruire un ulteriore tassello verso la realizzazione della saga dei Vendicatori si accompagna anche il dovere di creare un ponte con la memoria degli spettatori attraverso gli intrecci con l’appena citata serie tv; inoltre il film è attento a capovolgere i presupposti enunciati dalla precedente e controversa trasposizione di Ang Lee, anche a parere di chi scrive velleitaria e afflitta da un formalismo alquanto autocompiaciuto, oltre a una pessima gestione delle scene d'azione.

Quello che dunque si presenta a noi è un sequel/non sequel, comunque abbastanza autonomo rispetto al film precedente, che palesa anzi in maniera più diretta la propria natura di pellicola commerciale: l’intento si fa evidente soprattutto nell’utilizzo degli effetti speciali, con un Hulk digitale e smaccatamente irrealistico che nello scontro finale con il crudele Abominio è consapevole dei propri limiti e delle possibili derive nel ridicolo (che la seriosità del film di Ang Lee rendeva invece involontario e perciò più grave, si pensi alla risibile scena dei cani). Pertanto il duello riecheggia l’aura fracassona e ludica dei combattimenti fra King Kong e Godzilla cari al cinema fantastico giapponese, risultando onesto e a suo modo divertente. Il rimando a Kong è anche esplicitato nei duetti fra Hulk e Betty Ross, che sanciscono la natura archetipica del mostruoso personaggio.

Meno problematica da questo punto di vista è invece la gestione dell’azione da parte di Iron Man, dove pure il finale mostra un duello fra l’eroe e una nemesi a lui perfettamente speculare (Iron Monger) che anche in questo caso ribadisce catarticamente gli intenti e l’uso consapevole e responsabile del potere da parte dell’eroe (secondo la regola cara all’universo Marvel).

Ora non resta che rimanere ad aspettare gli ulteriori capitoli della saga, Thor, forse Ant-Man, fino al titolo certamente più ambizioso del lotto: Capitan America.

Iron Man: intervista al regista Jon Favreau
Iron Man: intervista a regista e cast
Iron Man: intervista a Robert Downey Jr.
Iron Man: sito ufficiale italiano
Iron Man: sito ufficiale americano
Pagina di Wikipedia su Iron Man (fumetto)
Incredibile Hulk: intervista a Louis Leterrier
Incredibile Hulk: sito ufficiale italiano
Incredibile Hulk: sito ufficiale americano
Pagina di Wikipedia su Hulk (fumetto)
Pagina di Wikipedia su I Vendicatori

venerdì 27 giugno 2008

La danza degli scheletri (2/3)

Uscita nelle sale americane il 22 agosto del 1929, La danza degli scheletri inaugura la grande stagione delle Silly Symphonies, settando immediatamente gli standard tipici della serie, ma realizzando allo stesso tempo un composito manifesto programmatico di cosa significa “animazione” per i Walt Disney Studios: un banco di prova dove sperimentare soluzioni visive in grado di colpire lo spettatore, far evolvere l’industria dell’entertainment, ma allo stesso tempo riflettere su temi, figure e concetti dell’immaginario americano.

E’ infatti evidente come il corto attinga direttamente dal rapporto da sempre fecondo che la società a stelle e strisce intrattiene con l’iconografia di stampo horror, coniugata in senso spettacolare (basti pensare a festività come Halloween, dove l’elemento scenografico è centrale). A questo proposito le primissime inquadrature, attraverso una regia stilizzata, passano in rassegna proprio alcuni luoghi ed elementi topici dell’orrore comunemente inteso: un cimitero, la forma minacciosa di un gufo che si staglia contro la luna, un cane che ulula, dei gatti che in modo inquietante si fronteggiano su due lapidi prima di essere spaventati dal risorgere del primo scheletro. Il tutto con una perfetta sincronia tra suoni, azioni e musica e senza nessun personaggio parlante.

Ma nello stabilire i punti fermi, allo stesso tempo Disney (produttore e regista) e Ub Iwerks (disegnatore e animatore) li sovvertono, impastando i contorni di quelle figure, donando loro una consistenza a metà strada fra il liquido e il gommoso, mostrandocene proprio la natura iconica e scenografica. Il che direttamente conduce all’arrivo degli scheletri e al loro impareggiabile numero musicale: quello che colpisce è infatti proprio la totale de-sacralizzazione del concetto di “corpo”. Nell’universo disneyano il corpo non è elemento di definizione della realtà, ma è anzi un balocco con il quale divertirsi utilizzandolo alla bisogna per la creazione di gag irrealistiche dove le membra ossute dei protagonisti possono allungarsi, accorciarsi, ricombinarsi in modo quasi surreale o assumere la forma di strumenti musicali (impagabile la colonna vertebrale/xilofono!).

A pensarci bene è esattamente ciò che Disney amerà fare in quasi tutta la sua produzione, ivi inclusa quella Live Action che spesso usufruirà del cartoon per aprire squarci di irrazionalità autentica e poetica nei racconti. In questo caso però siamo distanti dal più classico concetto di poesia: La danza degli scheletri corteggia infatti la componente macabra e di divertimento virato al nero che pure riposa negli angoli più recessi dell’animo. Per questo motivo il cartoon diverte ma allo stesso tempo inquieta, sottotraccia corre come una energia oscura che la regia consapevolmente sottolinea attraverso una direzione statica e che utilizza le ripetizioni dei gesti in modo da creare un effetto quasi ipnotico. L’ottima fotografia in bianco e nero (ne esiste anche una versione colorizzata del 1982) fa il resto.

Allo stesso tempo la vena dissacratoria si fa strada con forza e rinnova la tendenza al rovesciamento dei cliché già evidenziata in partenza: il primo scheletro che esce dalla sua tomba, infatti, si spaventa per il verso minaccioso del gufo, capovolgendo così la sua condizione di essere inquietante e spettrale in un quasi umano e pavido personaggio che è capace di provare emozioni. Proprio l’umanizzazione, sebbene sempre coniugata nel senso antirealistico della coreografia, permette ai quattro scheletri ballerini di apparire allo spettatore dei simpatici characters, e la loro danza allo stesso tempo diventa un momento di semplice e liberatorio divertimento.

Ecco, forse qui si nasconde la vera forza del cartoon, la sua capacità di ironizzare sulle miserie del mondo attraverso lo sberleffo dei non morti che si divertono a mettere in scena il loro numero musicale: siamo in fondo nel problematico 1929 del crack economico, alfiere di un periodo tutt’altro che lieto e che Disney commenta a modo suo, attraverso il rovesciamento di morte e dolore in senso ludico.

Viene in mente Sergio Citti che tantissimi anni dopo, nel 1989, donerà ai suoi Mortacci il piacere di uscire dalle tombe per trascorrere divertenti nottate nel cimitero a ridere delle miserie dei mortali. Così come più evidente è il debito di John Landis e degli zombi ballerini di Thriller, guidati da Michael Jackson, o quella dei trapassati di Tim Burton nel night de La sposa cadavere. In ogni caso è sempre forte la carica satirica di un mondo dei “morti” ben più energico e vitale di quello dei “vivi”.

Nonostante i debiti da alcuni rivendicati nei confronti della “Danse Macabre” di Camille Saint-Saens del 1874 (smentiti dall’autore della musica, Carl Stalling), La danza degli scheletri rimane senza dubbio un capolavoro di stile e originalità, un vero e proprio squarcio di energica follia nell’ambito del cinema popolare.

La danza degli scheletri
(The Skeleton Dance)
Regia: Walt Disney
Origine: Usa, 1929
Durata: 6’

Articolo con informazioni e curiosità
La musica di Carl Stalling
La danza degli scheletri su YouTube

mercoledì 25 giugno 2008

Shine a Light

Nel 2006 al Beacon Theatre di New York si sono tenute due importanti tappe del “A Bigger Bang tour” dei Rolling Stones: il regista Martin Scorsese, d’accordo con i membri dello storico quartetto rock (Mick Jagger, Keith Richard, Charlie Watts, Ronnie Wood) ha filmato le performance canore realizzando questo documentario che mostra i preparativi, le esibizioni accompagnate dal calore del pubblico e interpola al girato materiali di repertorio che documentano la leggenda del gruppo.

E’ un film che vive di ossimori questo Shine a Light e inevitabilmente suscita reazioni composite nonostante la linearità della sua struttura narrativa: già di per sé l’idea del film-concerto (non originale ma sempre più rara tra i film in distribuzione ufficiale) unisce alla fissità della fruizione in sala la partecipazione emotiva a un evento musicale che naturalmente scatena un’energia liberatoria, una voglia di dimenarsi sulla poltrona per accompagnare fisicamente le performance delle “pietre rotolanti”. D’altra parte la caratura leggendaria della band inglese è amplificata proprio dalle caratteristiche tipiche della loro carriera, che ci dicono molto sia sui cambiamenti avvenuti in seno alla società occidentale negli ultimi cinquant’anni, sia all’interno della stessa industria dello spettacolo.

In questo senso Shine a Light più che un semplice tributo diventa un film sulla memoria e si comprende bene come Martin Scorsese sia rimasto affascinato dalla possibilità di mettere in scena l’evento e il mito degli Stones, creando un’opera nella sostanza non dissimile dalle sue celebri epopee gangsteristiche capaci di riflettere metaforicamente sulla Storia dell’America. L’accostamento delle performance odierne con i materiali di repertorio produce inevitabilmente degli scarti all’interno dei quali si innesta il pensiero d’autore, mai esplicitato ma alquanto evidente: da simbolo di trasgressione, perseguiti dai tribunali di giustizia, elementi destabilizzanti che inneggiano al Diavolo come personaggio per il quale avere Simpathy (comprensione), gli Stones si ritrovano oggi ad abbracciare un pubblico transgenerazionale, al cui interno si trova anche l’ex Presidente americano Bill Clinton (che ottiene anche l’onore di aprire l’evento dal palco ricordando le sue battaglie civili per i cambiamenti del clima), come a sancire una loro istituzionalizzazione, una loro integrazione all’industria che è al contempo il simbolo di una società scesa a patti con la loro energia.

La performance stessa evoca poi altri ossimori, che sono quelli di una musica le cui sonorità volgono naturalmente al passato, affondano le loro radici in generi dalla storia radicata come il blues, il rock’n roll e il country, ma non risultano per questo datate e anzi sono capaci di aprirsi a figure della scena pop contemporanea (come Christina Aguilera, fra gli ospiti sul palco). L’energia stessa dell’esibizione (addirittura incandescente nella figura di Jagger) non assume il sapore di un artificio, di una forzatura, sebbene si scontri inevitabilmente con le rughe che segnano i corpi invecchiati degli artisti, fatto amplificato dal confronto diretto con le immagini di repertorio che mostrano gli Stones più giovani.

La sensazione è che in fondo sia la realtà esterna a porre attenzione allo scorrere del tempo, che invece gli Stones decidono semplicemente di ignorare, di considerare un argomento non inerente i loro interessi, il loro lavoro e la loro visione delle cose: non a caso Jagger rivela che la domanda che gli viene posta più spesso è proprio quella riguardante l’età in cui smetterà di cantare, ma che lui fin dai primi anni di carriera non si è mai posto un obiettivo, è andato avanti per quello che Keith Richards definisce il piacere di fare quello che gli Stones fanno. In questo senso è chiaro come il gruppo sia qualcosa in più di un insieme di sopravvissuti al tempo, sia semplicemente un classico, fuori da ogni tempo, mosso da una concezione della vita basata sul qui e ora, che non guarda al passato né al futuro (e non stupisce per questo che lo stesso Jagger rivedendo Shine a Light l’abbia poi definito un film “noioso”, che inevitabilmente lo ha costretto per un paio d’ore a fare i conti con una performance già archiviata nella sua mente).

In questo scenario Scorsese è la guida, ma anche lo spettatore, e il prologo lo mostra pertanto cercare una direttrice da seguire per il lavoro di regia sul concerto: decisione difficile di fronte alla naturale imprendibilità degli Stones, e quindi, per una volta, il regista italoamericano, grande pianificatore del set, attento a una composizione sempre artistica dell’inquadratura, deve a tratti lasciare semplicemente che l’evento prenda il sopravvento sulla forma. Lo vediamo quindi ordinare un totale senza preoccuparsi “che si vedano le gru”, e la sua regia allo stesso tempo istiga gli artisti (impagabile lo sbuffare affaticato di Charlie Watts al termine di uno dei brani) ma non invade il loro campo, conscio com’è che il mondo nel quale è entrato non è il suo ma è quello degli Stones, come il piano sequenza virtuale che chiude il film ribadisce.

Shine a Light
(id.)
Regia: Martin Scorsese
Origine: Usa, 2007
Durata: 122’

Intervista a Martin Scorsese
Intervista ai Rolling Stones
Blog italiano
Sito ufficiale americano
Rolling Stones Official Fan Club

lunedì 23 giugno 2008

Redacted

Iraq. Il soldato semplice americano Angel Salazar usa la sua videocamera per realizzare un diario grazie al quale spera un giorno di essere ammesso a una scuola di cinema. La sua testimonianza della vita tra le truppe si intreccia con i contributi forniti da un documentario francese, dalle telecamere a circuito chiuso della base e da alcuni siti internet che riportano filmati di contestazione o le minacce dei terroristi. La tensione fra i soldati è grande e viene amplificata dalla morte di un sergente per un ordigno nascosto tra i rifiuti. Così, una notte, due soldati decidono di rivalersi sugli iracheni assaltando una casa, stuprando una ragazzina di 15 anni e uccidendo a sangue freddo i suoi familiari. Il barbarico atto è documentato da Salazar e innesca una serie di avvenimenti a catena che amplificano le tensioni nel gruppo e nell’opinione pubblica.

I titoli di testa ci avvertono che quanto si vede nel film, sebbene basato su fatti documentati, è frutto di una ricostruzione: Brian De Palma ancora una volta, come in tutto il suo cinema, palesa quindi la finzione scenica dichiarando la natura di fiction degli eventi. Un tale gesto può apparire incongruo rispetto alla sostanza di un racconto che costituisce un durissimo atto d’accusa contro gli orrori della guerra, fatto amplificato dalle dichiarazioni del regista stesso, che, seppur indicato sempre come un manierista, nelle interviste non si sofferma mai sugli aspetti tecnici del suo lavoro, ma predilige invece l’esaltazione della componente morale e di sguardo critico sul mondo. Per raccontare la realtà, insomma, De Palma ha bisogno di esaltare la finzione, ha bisogno come di un filtro che gli permetta di assumere un atteggiamento non distante quanto separato dagli eventi, stratificando in questo modo il suo lavoro, che agisce su più livelli: la rielaborazione dei propri tratti d’autore, la ricerca di un immaginario al passo con i tempi e la denuncia contro gli orrori della realtà.

Nel primo caso Redacted si offre allo spettatore come aggiornamento di una vicenda già raccontata da De Palma alla fine degli anni Ottanta nel suo Vittime di guerra, come a stabilire un percorso interno alla propria opera, ma anche un collegamento fra lo scellerato conflitto in Iraq e quello, ormai storicizzato, in Vietnam. Senza considerare, ovviamente, come già in questo modo De Palma adotti una prospettiva che attraverso il mostrare le conseguenze della guerra sulle vittime più indifese, ne dimostra la totale e disumana gratuità.

Il secondo livello di costruzione narrativa si preoccupa invece di riflettere sull’immaginario portato avanti da una guerra che negli Stati Uniti si predilige raccontare epurandola degli aspetti più controversi (operazione cui ammicca il titolo stesso “Redacted”, ovvero “ripulitura”). Diversamente dal già citato conflitto vietnamita, dove le immagini della popolazione in fuga dalle nubi di napalm contribuirono non poco a far crescere nell’opinione pubblica occidentale il disprezzo per il conflitto, quella in Iraq è una guerra per larga parte “nascosta” e “pilotata” dalla propaganda, non solo quella che ha messo in piedi la campagna per giustificare l’azione militare, ma anche quella che omette la cronaca sulle perdite tra i civili e i militari stessi. Non esiste dunque un immaginario condiviso e la caratura morale del discorso di De Palma sta proprio nel tentativo di cercare una forma narrativa che attraverso la frammentazione dei punti di vista possa restituire uno scampolo di verosimiglianza su cosa accade in Medio Oriente. Per fare questo il regista americano amplia le strategie narrative del Real Cinema attualmente in voga (pensiamo a [REC] e Cloverfield) dimostrando la sua natura di autore attento alla componente più squisitamente teorica del cinema e la sua osservazione dell’evoluzione dei linguaggi: pertanto non si accontenta del semplice resoconto fornito dal soldato Salazar che, anzi, proprio nella scena iniziale vediamo discutere con un commilitone circa la presunta o meno verità trasmessa dall’obiettivo, assoluta per lo stesso Salazar e invece smentita dal compagno. L’unica forma di moralità possibile sta dunque nella ricerca di tutti i punti di vista cui dare ascolto e di tutte le forme di divulgazione alternativa (home movies, registrazioni dalle telecamere della base, siti simil-YouTube cari alla Internet Generation, documentari) che oggi si pongono in netto contrasto con l’immorale falsità delle fonti “ufficiali”.

Ecco dunque che Redacted fa evolvere il linguaggio dribblando qualsiasi accusa di costituire un film “a tesi”, e apre la sua struttura a una porosità che le permette di assommare prospettive diverse, quella dei soldati che disprezzano gli iracheni, dei commilitoni che invece non accettano la barbarie sui civili, quella dei civili stessi vittime delle violenze, dei terroristi che invocano la vendetta, dei contestatori occidentali e dei parenti delle vittime che non comprendono il dramma che i loro consanguinei stanno consumando fra le sabbie della Mesopotamia. Paradossalmente, in questo tessuto intrecciato di immagini, il momento più lirico risulta quello del documentario francese, grazie a un uso potente della musica e a un gusto per una messinscena più tradizionale, che indugia sui particolari (di grande forza espressiva la guancia del soldato rigata da una goccia di sudore che pare una lacrima).

De Palma in questo senso compie un’operazione che unisce avanguardia, ricerca e analisi, onorando il concetto stesso di creazione cinematografica, poiché seleziona il materiale facendo attenzione a creare un ordine sequenziale fra le scene estrapolate da varie fonti, le ordina secondo una prospettiva d’autore che cerca di dare spazio a tutte le voci, ma al contempo non rinnega un proprio punto di vista che è profondamente umano e capace di gridare un profondo disgusto per un meccanismo di guerra destinato inevitabilmente a fare sprofondare tutte le parti in causa nell’orrore della violenza per la violenza. In questo modo il film assume una forza progressivamente sempre più lancinante, quasi un senso di dolore fisico, che trasmette allo spettatore il senso di un vuoto morale e di una privazione di ideali che lascia letteralmente svuotati.Un esempio a dir poco magnifico di cosa significhi oggi raccontare per immagini e saper mettere in scena il dolore senza compiacimenti.

Presentato in anteprima alla Mostra del Cinema di Venezia 2007 dove ha conseguito il premio per la regia (avrebbe meritato il Leone d’Oro però), il film è stato poi rifiutato dalla distribuzione in sala e ha goduto soltanto di un passaggio televisivo su una rete satellitare. Al momento non è ancora prevista una uscita in DVD, che ovviamente sarebbe assolutamente auspicabile per un film di tale grandezza e importanza.

Redacted
(id.)
Regia e sceneggiatura: Brian De Palma
Origine: Usa, 2007
Durata: 87’

Intervista a Brian De Palma
Sito ufficiale americano
Pagina di YouTube dedicata al film

giovedì 19 giugno 2008

King Kong (2005)

1933. Nel pieno della Grande Depressione il regista Carl Denham organizza una spedizione verso la misteriosa e inesplorata Skull Island nella speranza di girare il film della sua vita. Cast e maestranze vengono reclutate con l’inganno e nel gruppo spiccano lo sceneggiatore e drammaturgo Jack Driscoll e la sfortunata attrice Ann Darrow, che accetta l’incarico per salvarsi dalla miseria. L’isola si rivela abitata da un gruppo di indigeni che rapiscono Ann per sacrificarla al dio Kong, un gigantesco gorilla che vive in un habitat dove sono sopravvissuti dinosauri e mostri di ogni tipo. Una spedizione guidata da Denham e Driscoll (nel frattempo invaghitosi dell’attrice) si organizza per recuperare la sventurata ragazza sopportando ogni tipo di avventure. Quando vedrà svanire il suo sogno di realizzare un film da quell’incredibile esperienza, Denham cercherà di catturare Kong per portarlo a New York ed esibirlo in pubblico come trofeo.

La tendenza odierna al continuo ritorno a storie e figure di un immaginario preesistente ha da tempo assunto una forma parassitaria che pochi esempi possono dire di aver totalmente evitato: il King Kong di Peter Jackson è uno di questi, un’operazione intelligente e consapevole di porsi in coda a una grande tradizione, nata soprattutto con l’intento di omaggiare ed esplorare la pellicola che aveva innescato nel regista il desiderio di fare cinema tanti anni prima. Le cronache non hanno infatti mai nascosto come Jackson avesse già tentato anni addietro di realizzare una versione del mito più iconoclasta e ironica, poi interrotta per gli imponderabili casi di cui è piena la storia del cinema: ci è riuscito nel 2005, forte della pioggia di Oscar e del consenso planetario rastrellato con la trilogia del Signore degli Anelli che gli hanno garantito non solo la libertà creativa necessaria, ma anche i mezzi e la maturità per dare forma al suo obiettivo.

Il King Kong “definitivo” di Jackson si pone quindi stavolta in un legame di perfetta continuità e, soprattutto, di rispetto dell’originale, nei cui confronti è mosso da un piglio ossessivo e filologico: i personaggi e le sequenze sono infatti ampliate ed elaborate in modo tale che ogni aggiunta e cambiamento rispetto all’originale non arrivi mai al suo tradimento, ma semplicemente alla sua espansione. Il piglio è quello di chi esplora i confini tracciati dal modello, ne testi le possibili variazioni ma infine ne recuperi l’essenza. Un solo esempio per tutti: il duello tra Kong e il T-Rex per la salvezza della bella Ann: nell’originale è un uno-contro-uno potente e estremamente fisico; nel remake invece sono ben tre i sauri affrontati dal gorilla, in uno scontro che dal piano si trascina in un crepaccio, fra una giungla di liane e infine di nuovo in piano. Identico l’inizio e il finale (che vede nuovamente Kong contro un unico Rex), ciò che cambia è quello che sta in mezzo, aggiunto ed espanso per offrire una inedita prospettiva sulla scena originaria. Allo stesso tempo sono state recuperate sequenze all’epoca tagliate come quella degli insetti e il risultato è un vero e proprio film-monstre, che moltiplica la breve durata del film originario fino a raggiungere 192 minuti di avventura nella versione estesa (purtroppo inedita in Italia).

Una tale cavalcata nel fantastico è peraltro condotta con il piacere e il divertimento di chi sta sfruttando sì nuove tecnologie e nuove strategie narrative (pensiamo alle soggettive di Ann mentre si trova nelle mani del gorilla in corsa, impensabili all’epoca) ma con la mente rivolta al passato: quella che si palesa allo spettatore è dunque un’avventura vecchio stampo, fatta di mostri giganti, scene colossali ma mai frenetiche e sempre comprensibili, dove il gusto per l’invenzione e la messinscena di creature e situazioni sempre più pericolose deve poter meravigliare lo spettatore odierno esattamente come all’epoca fece il film di Cooper e Schoedsack. L’impresa è in parte complicata dal fatto che il nuovo King Kong paga certamente la consapevolezza del proprio essere remake e omaggio e, nell’espansione di ogni possibile spunto, risulta dilatato al punto da risultare ostico a chi non voglia accettare quella che è una vera e propria discesa di Jackson nel proprio sogno; complice anche un inizio troppo lungo e la tendenza all’iperbole che è totalmente ascrivibile al regista, il film risulta meno commerciale di quanto non potrebbe apparire all’inizio e chiede allo spettatore bendisposto di lasciarsi prendere per mano.

E’ interessante inoltre notare il modo in cui Jackson ha aggiornato la struttura stessa del film, che è costruito attraverso un fitto reticolo di corrispondenze tra i personaggi: Denham infatti rappresenta l’alter ego di Kong (non a caso è il primo a vederlo e, soprattutto, a scambiare uno sguardo diretto con il mostro) perché come lui è un predatore che tenta di sopravvivere in una giungla (quella degli affaristi di Hollywood). Ciò che gli manca è l’altruismo e la capacità di provare un’emozione sincera, caratteristica invece ascrivibile a Jack Driscoll, che rappresenta infatti una sorta di versione positiva del mondo dello spettacolo, raffinato autore di commedie off, capace di innamorarsi della sua bella e di sacrificarsi fino a diventare il vero eroe della situazione (ben più del vanesio attore Bruce Baxter, altro esempio del dualismo apparenza/sostanza che caratterizza l’industria dello spettacolo). Anche Kong possiede queste caratteristiche positive, perché è capace di emozionarsi per un tramonto, come accade anche ad Ann. I due personaggi sono in fondo affini tra loro, in quanto impegnati in una perenne lotta per la sopravvivenza nelle rispettive giungle e tra loro stabiliscono un linguaggio che è quello del gioco. La loro affinità è dunque spogliata dei sottotesti freudiani e sessuali presenti nel film originale per esaltare invece il valore ludico del rapporto fatto di complicità e piacere del divertimento. In tutto questo ritratto Peter Jackson è il demiurgo che si riflette in ogni figura, nell’ossessività di Denham, nella passionalità di Driscoll, nella stoica risolutezza di Kong e nel candore di Ann, cercando di stabilire con lo spettatore lo stesso legame empatico della bella con la bestia attraverso la costruzione di un film che è un grande meccanismo ludico, nato per fare divertire le nuove generazioni.

La parafrasi del film originale, infine, passa anche per l’intelligente utilizzo degli effetti speciali, che, sfruttando il digitale in senso anti-realistico, riproducono il senso della finzione scenica: basta notare nella scena dei brontosauri in fuga come lo sfondo fittizio ricordi pienamente la vecchia tecnica della retroproiezione. Per lo stesso legame di continuità, quindi, la modernissima motion-capture con cui è animato Kong diventa una naturale evoluzione della gloriosa stop-motion di Willis O’Brien al quale, fra i tanti, il film è naturalmente dedicato.

King Kong
(id.)
Regia: Peter Jackson
Sceneggiatura: Fran Walsh, Philippa Boyens, Peter Jackson, dal soggetto originale di Merian C. Cooper e Edgar Wallace
Origine: Usa, 2005
Durata: 192’ (versione estesa); 180’ (versione cinematografica)

Intervista a Peter Jackson
Sito ufficiale americano
Sito italiano dedicato a Peter Jackson
Sito americano dedicato al mito di King Kong
Official FanSite di Peter Jackson

mercoledì 18 giugno 2008

Ricordo di Stan Winston

Ognuno di noi ha impressa nella propria memoria un’immagine o una sequenza che più di ogni altra rappresenta la forza stupefacente del cinema, quella che, oltre a avvincere e immergere totalmente lo sguardo e il cuore nell’evento narrato, spinge anche a chiedersi come sia stato possibile realizzare qualcosa di così incredibile. Per il sottoscritto quel momento vede una risoluta Sigourney Weaver nei panni del tenente Ellen Ripley combattere contro la gigantesca Regina Aliena nella spettacolare conclusione di Aliens – scontro finale, diretto da James Cameron nel 1986. Una sequenza resa straordinaria non soltanto dalla perfetta regia del regista canadese e dalla sapienza dei tempi che la relega al termine di una pellicola molto avvincente, come momento culminante della storia, ma dal fatto che la Regina in sé non è un prodotto della grafica digitale (all’epoca ancora in fase embrionale), o dei maghi della stop-motion, ma è una creatura vera, un “animatronic” a grandezza naturale che interagisce direttamente sul set con la Weaver. Un autentico personaggio, definito dagli stessi membri del cast e della produzione come una perfetta opera d’arte, creata dal genio di Stan Winston.

Esile, elegante e sempre accompagnato da uno smagliante sorriso, Stanley Winston è stato per trent’anni l’artefice delle più straordinarie creature del cinema mainstream hollywoodiano, il perfetto collaboratore di registi come il già citato James Cameron, Tim Burton, John McTiernan e Steven Spielberg, per i quali ha dato letteralmente vita a figure come Terminator, Predator, Edward manidiforbice e il temibile T-Rex di Jurassic Park, solo per citare le più famose. Tutto realizzato unendo le sue conoscenze di pittore e scultore (che aveva studiato all’Università della Virginia) e la passione di un ex “bambino che amava i film, i mostri e far spaventare la gente”.

Nato nel 1946, Stan Winston è oggi riconosciuto come il più legittimo erede di autentici talenti degli effetti speciali come Ray Harryhausen e Dick Smith (il quale ha di recente dichiarato “Stan non si tirava mai indietro di fronte a un problema “impossibile”, ma aveva sempre il coraggio di trovare una risposta”) e probabilmente dopo il nostro Carlo Rambaldi è stato l’unico ad aver affrontato il suo lavoro con il gusto dell’artista più che del mero artigiano impegnato nella pratica costruzione di modelli, capace per questo di elevare gli effetti speciali meccanici dall’alveo della mera invenzione tecnica per render loro merito come opere d’arte e strumento di poesia ed invenzione cinematografica. Terminator e la “Queen Alien” come E.T. insomma!

D’altronde mai Winston si è definito un “tecnico”, ma sempre un artista, ha continuamente sottolineato il piacere creativo del vedere l’idea prendere forma, seguendo le indicazioni altrui o a volte sfruttando semplicemente il proprio estro, pur riconoscendosi con umiltà al servizio di creazioni non proprie: “Cammino ogni giorno nel mio Studio, circondato da Terminator, la Regina Aliena, il Predator, i dinosauri di Jurassic Park e Edward manidiforbice e dico wow, è la cosa più bella che abbia mai visto, ma lo dico con umiltà perché non mi sento padrone di questi personaggi. Sono stato fortunato a trovarmi nel mezzo; ho lavorato con registi dotati di grande immaginazione, tecnici geniali e artisti fenomenali che mi hanno aiutato a rendere tutto questo reale. So che questi artisti costituiscono il Rinascimento del 21mo secolo. Ai tempi di Michelangelo gli artisti lavoravano per le Chiese, oggi lo fanno nell’industria dello spettacolo. Io ho avuto semplicemente la fortuna di ritrovarmi fra loro.”

La sua carriera diventa così il percorso lungo la strada di un’affermazione che, al pari di un George Lucas, permette al cinema di raggiungere una lunga serie di tappe significative e di evolvere la storia del fantastico su grande schermo. L’arrivo a Hollywood avviene nel 1969, con l’ambizione da parte del giovane Stan di diventare attore, salvo poi decidere di ripiegare come addetto al makeup per la Walt Disney Company: una gavetta poi culminata nel 1972 con la creazione dello Stan Winston Studio e nel 1981 con la prima nomination all’Oscar (in tutto ne collezionerà 10 vincendo quattro statuette). Nel 1984 finalmente l’affermazione con il primo Terminator, che costituirà un vero evento settando uno standard altissimo per gli effetti speciali in un film nato come progetto a basso costo. La collaborazione con James Cameron continuerà con il già citato Aliens e con l’epocale Terminator 2 e i due daranno poi vita alla società di effetti speciali Digital Domain. Prima ancora di queste importanti tappe, però, il nome di Winston fa capolino anche in altri importanti progetti fantastici come l’indimenticabile La cosa di John Carpenter, dove presta la sua consulenza per la realizzazione di alcuni animatronics.

Il lungo percorso artistico lo vede nel tempo espandere il suo Studio, ma anche debuttare alla regia, nel 1988, con l’horror Pumpkinhead (diventato negli anni un piccolo cult) cui fa seguito nel 1997 anche il mediometraggio Ghosts, tentativo non del tutto riuscito di Michael Jackson di ricreare la forza e l’irresistibile mix di Thriller. Nel 2001, infine, il suo progetto sicuramente più ambizioso, ancora in tandem con Steven Spielberg per la creazione del mondo dei robot al centro del sottovalutato A.I. – Intelligenza Artificiale, che lo vede premiato con il suo ultimo Oscar.

Artista completo e creatore di personaggi mitici per più di una generazione, Stan Winston è stato il secondo mago degli effetti speciali a ricevere una stella sulla Hollywood Walk of Stars e il suo lavoro è stato raccolto nel libro “The Winston Effect – The Art and History of Stan Winston Studios”, di Jody Duncan. A lui, a pochissimi giorni dalla scomparsa, avvenuta a soli 62 anni il 16 giugno 2008 per un mieloma multiplo contro il quale lottava da anni, va il ricordo affettuoso di chi ha sempre inteso il cinema come fabbrica di sogni.

Sito degli Stan Winston Studios
Intervista a Stan Winston (in inglese)

lunedì 16 giugno 2008

Silly Symphonies (1/3)

Tornare ai punti d’origine è sempre un’operazione feconda, perché spesso permette di ritrovare già nei modelli le caratteristiche più facilmente attribuite agli epigoni. Prendiamo ad esempio le splendide Silly Symphonies della Walt Disney Company e mettiamole a confronto con quanto è venuto dopo: trovare già in nuce le caratteristiche di tanti cartoon della Warner Bros o dei fratelli Fleischer, senza tacere del fatto che proprio qui hanno mosso i primissimi passi personaggi come il celebre Donald Duck (il nostro Paperino), si sono utilizzate per la prima volta le arti recitative di talenti come Pinto Solvig, in seguito voce di Pippo, e si sono concretizzate le più straordinarie invenzioni di autentici geni dell’animazione come Ub Iwerks, dovrebbe essere più che sufficiente per rendere utile, oltre che gradevole, la riscoperta.

In effetti questa natura pionieristica non dovrebbe comunque stupire gli appassionati di animazione: le Silly Symphonies infatti nascono proprio con l’obiettivo di costituire un banco di prova per sperimentazioni e innovazioni utili a far avanzare tecnicamente l’industria al tempo nascente del cartooning e per varare quindi le innovazioni che saranno poi utilizzate in lavori di ben più grande respiro: primo fra tutti ovviamente il lungometraggio animato Biancaneve e i sette nani, destinato a uscire trionfalmente nelle sale americane nel 1937.

Ma in fondo già i primi corti disneyani si erano rivelati dei banchi di prova non da poco, e quindi il passaggio stesso da questi pionieristici lavori alla serie delle “sciocche sinfonie” avviene senza soluzione di continuità, all’indomani del successo riscosso da Steamboat Willie, prima sperimentazione disneyana con il sonoro: per l’occasione Walt Disney decide di sviluppare quella formula di successo creando dei cortometraggi (spesso ispirati a celebri fiabe) che proprio dall’applicazione innovativa del suono e della musica avrebbero tratto la loro forza. Nasce così nel 1929 la celebre Danza degli scheletri (che approfondiremo nella seconda parte di questo percorso) e, di seguito, altri lavori che, alla parola (comunque presente), preferiscono l’approccio trascinante fornito dalle gag “fisiche” e dalla loro concatenazione con il sonoro e le musiche. In particolare desta oggi interesse il fatto che la musica sia allo stesso tempo spina dorsale ed estensione del cartoon, detti cioè i tempi e i ritmi alle azioni, ma a volte sia anche un modello cui ambire. Se quindi in esempi come lo scatenato Caffè nel bosco (Woodland Café, 1937) la musica è la base portante delle azioni eseguite dai personaggi, nel successivo Sinfonia della fattoria (Farmyard Symphony) il gioco è complicato dall’utilizzo dei versi degli animali che, oltre a dare vita tra loro a un continuo rimpallo di suoni differenti, si impegnano nel finale in una esaltante reinvenzione de La donna è mobile di Verdi.

La produzione delle Silly Symphonies comprende 75 cortometraggi, realizzati in un arco di tempo di dieci anni, dal 1929 al 1939 e molte sono le invenzioni messe a punto in questo periodo: dall’introduzione del Technicolor a tre pellicole in Fiori e alberi (Flowers and Trees, 1932), all’uso espressivo degli elementi naturali nel capolavoro Il vecchio mulino (The Old Mill, 1937), entrambi premiati con un Oscar, fino alla creazione di personaggi destinati a lunga carriera (il già citato Paperino ne La gallinella saggia - Wise Little Hen del 1934)) oppure riutilizzati all’interno delle stesse Symphonies, creando in questo modo dei percorsi che intrecciano le influenze più disparate: è il caso ad esempio dei Tre Porcellini che, dopo il successo della loro prima opera (nel 1933) vengono riutilizzati l’anno dopo ne Il lupo cattivo (The Big Bad Wolf) come comprimari di Cappuccetto Rosso in una rivisitazione della celebre fiaba. Allo stesso modo la lepre Max Hare e la tartaruga Toby Tortoise, protagonisti, per l’appunto de La lepre e la tartaruga (The Tortoise and the Hare, 1935) vengono recuperati dopo un anno per Toby la tartaruga è tornata (Toby Tortoise Returns).

Proprio il personaggio di Hare è interessante poiché pare abbia fornito a Tex Avery l’idea per Bugs Bunny: il modello in questo caso è dichiarato, mentre non lo è quello dei due topini protagonisti de Il cugino di campagna (The Country Cousin, 1936) che nel duello finale con il feroce gatto codificano alcuni degli stilemi poi sviluppati da Hannah & Barbera per la celebre serie di Tom & Jerry.

La natura sperimentale e per certi versi avanguardistica delle Silly Symphonies è evidente anche nello stile narrativo utilizzato, che in molti casi ammicca evidentemente allo spettatore rivelando la finzione scenica e utilizzando lo sfondo come proscenio dal quale rivolgersi direttamente al pubblico: agevolata anche dal classico formato 4:3 dell’epoca, la sensazione di trovarsi di fronte a un palco sul quale i personaggi mettono in scena i loro numeri per il divertimento di chi guarda è notevole ma a tale scopo la regia delle prime avventure appare così troppo statica, predilige un punto di vista frontale modificato solo a tratti (ad esempio in Un Nido di Uccellini - Birds of a Feather, del 1931, c’è un’inedita inquadratura a perpendicolo su un volatile che rompe la staticità del punto di vista). Proprio per infrangere questo monopolio prospettico, fra le innovazioni che si registrano negli anni successivi c’è la profondità di campo, attraverso l’utilizzo della rivoluzionaria “multiplan camera” che tenta di restituire l’idea dei piani paralleli su cui si articola lo sfondo: fra gli short che ne traggono maggiormente beneficio sono da ricordare il poetico Sognando fra le stelle (Wynken, Blynken and Nod, 1938) e il già citato Vecchio mulino. Non che già in precedenza non si fossero già tentate soluzioni originali, basta pensare al vertiginoso piano sequenza che illustra l’esplorazione della piramide da parte di un ragno (!) nel divertente Melodie Egiziane (Egyptian Melodies, 1931). Tutto sfocia poi nel 1939 nella creazione di un capolavoro come Il brutto anatroccolo (The Ugly Duckling) che costituirà la terza parte di questo percorso.

Chi volesse invece riscoprire questi immortali gioielli dell’animazione non dovrà invece fare altro che rivolgersi al mercato del DVD, che per l’Italia ha attualmente pubblicato un cofanetto nella collana “Disney Treasures” con 37 Symphonies selezionate, nella speranza che in futuro vengano rese disponibili anche le restanti 38 come già accaduto in America.

Enciclopedia delle Silly Symphonies (in inglese)
Pagina di Wikipedia su Ub Iwerks
Pagina di Wikipedia sul Technicolor
Sito ufficiale Walt Disney Italia

sabato 14 giugno 2008

E venne il giorno

Una inspiegabile ondata di suicidi di massa sconvolge il Nord-Est degli Stati Uniti, facendo temere un attacco terroristico. Elliot Moore, professore di scienze, fugge da Philadelphia insieme alla moglie Alma, con cui è in crisi, per cercare scampo: durante il viaggio un botanico gli suggerisce che forse la responsabilità della follia collettiva che spinge la gente al suicidio è provocata dalle piante, che starebbero ribellandosi all’umanità. Un’ipotesi inquietante, che si articola secondo una modalità a cerchi concentrici, passando da gruppi sempre più grandi a quelli più piccoli, costringendo i superstiti a una fuga solitaria. L’arrivo a una casa isolata nella campagna costringe Elliot e Alma alla lotta finale nella quale anche tutti i dubbi sulla loro unione dovranno essere superati.

C’è una strana atmosfera che permea il nuovo film di M. Night Shyamalan e lo rende il più impalpabile e aereo della sua filmografia. Nonostante non manchino scene genuinamente spaventose o cruente, l’effetto che si prova durante la visione è straniante, quasi di levità di fronte allo scorrere delle immagini, confermando la tendenza a una rarefazione del plot e a una destrutturazione delle sceneggiature già evidenziatasi con il precedente Lady in the Water. In questo caso pare abbiano giocato anche le restrizioni del budget e le ingerenze della produzione, che hanno portato a modifiche dello script originale, ma in ogni caso il film non disperde il suo fascino. D’altronde, per quanto sia (a torto) considerato un regista di meccanismi, Shyamalan è invece un autore di sensazioni e sentimenti, abile a focalizzare l’attenzione attraverso piccoli accadimenti, tenendosi al di fuori dei luoghi dove gli eventi si generano realmente (pensiamo alla fattoria di Signs, testimone isolata dell’invasione terrestre da parte degli alieni) e attento agli umori e ai sapori generati dall’evento.

In questo senso E venne il giorno crea anche un ponte con tanto fantastico del passato che non si preoccupava di spiegare a ogni costo le cause o le dinamiche del disastro, e si premurava invece di mostrarne gli effetti sulla gente, costretta a un eroismo casuale: decisione sublime in tempi di cinema didascalico e inerte, che per questo costringe a un’attenzione non comune ai dettagli, ai volti (frequentissimo l’uso del primo piano), ai suoni e ai colori. Un cinema quasi elementale (ripensiamo all’importanza dell’acqua in Unbreakable e Lady in the Water), panico nel modo in cui esplora sentimenti indescrivibili come la paura, il senso di sgomento di fronte all’ignoto, ma anche l’amore e l’egoismo.

Il rapporto tra Alma e Elliot diventa così il paradigma della situazione generale: lei ha messo in discussione il rapporto per un sentimento non meglio identificato, un capriccio forse, di sicuro un qualcosa che riconosce come egoismo (d’altronde è lei a non aver voluto mai far maturare quell’unione, rifiutando anche di avere figli), ma che più precisamente è un’incapacità di donarsi all’altro per formare un unico, una mancanza di fiducia nell’idea di unione. Che è poi il vero problema alla base di tanto cinema di Shyamalan, l’incapacità di essere interconnessi con il “fuori” (The Village) e di comunicare allo stesso tempo all’interno, fatto che costringe alla costruzione di un nuovo sistema di relazioni (Lady in the Water) e che costringe a interrogarsi nei confronti della fede, in un eroe (Unbreakable), in un Dio (Signs) o in un’idea (The Village). Questo sistema è quello di un mondo che ancora una volta è diffidente verso l’altro da sé, e nei cui confronti il film scatena una sorta di feroce contrappasso mostrando una invisibile rivolta degli elementi (le piante, il vento) che costringe proprio alla scomposizione sociale perché stare uniti richiama il pericolo. Il film in questo senso si dimostra potentemente fobico, poiché viene a dare corpo proprio alla paura più grande del mondo moderno, quella di essere vittime nella folla, attraverso una propagazione di orrori che rende l’intera comunità come un unico organismo cieco e disorganico, perciò pre-destinato alla fine.

La rivolta delle piante quindi come metafora della disgregazione già in atto nel mondo, a livello personale e di coppia: da questo punto di vista è interessante ipotizzare come Elliot e Alma siano essi stessi una possibile causa dell’evento. Escludendo il prologo newyorkese e l’epilogo, infatti, in tutta la parte centrale sembra come se la piaga li segua, li accerchi e quando riesce a racchiuderli nel suo pugno li risparmia, come a volerli lasciare andare per farsi guidare verso altre realtà, che generano a loro volta disgregazione: dal proprietario della casa in cui cercano rifugio che rifiuta di ospitarli e li prende a fucilate, fino all’abitazione dell’anziana e ostile Mrs. Jones. Un contagio che è una conseguenza della non risoluzione dei loro dubbi umani e sentimentali, ma che è anche un incentivo ad affrontare finalmente quei dilemmi, a comprendere le loro sensazioni non utilizzando soltanto un anello i cui colori rivelano l’umore, ma interrogando l’animo, fino alla scelta finale in cui, forse, è racchiusa la fine e il re-inizio.

Shyamalan in tutto questo è con i suoi protagonisti, che segue con una regia ad altezza d’uomo, che a parte i totali nelle scene più pericolose, per il resto predilige quasi sempre campi ridotti (lo stesso formato dell’immagine è il più “chiuso” 1.85:1, molto amato dal regista, invece dello Scope) che accentuano sia la componente claustrofobica, che l’atmosfera da film “piccolo”, intimo, che guarda al passato per raccontare il presente. Una pellicola da affrontare ancora una volta come un atto di fiducia, senza imbarbarirsi in sterili tecnicismi per comprenderne l’essenza, la sua voce nel vento.

E venne il giorno
(The Happening)
Regia e sceneggiatura: M. Night Shyamalan
Origine: Usa, 2008
Durata: 90’

Conferenza stampa del film
Sito ufficiale italiano
Sito ufficiale americano
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lunedì 9 giugno 2008

La sposa in nero

Julie è in cerca di cinque uomini, apparentemente diversi tra loro, impegnati in differenti attività e che vivono in luoghi lontani. Li cerca, li avvicina, fa la loro conoscenza e poi, inesorabile, li uccide. Quegli uomini, infatti, tempo addietro sono stati responsabili della morte di David, sulle scale della chiesa dove era appena terminato il suo matrimonio con Julie. Da quel momento anche lei è come morta, l’unica cosa che la fa andare avanti è il desiderio di vendicarsi.

E’ sempre molto bello scoprire quanto le pellicole apparentemente considerate minori nella carriera di un grande regista possano nel tempo rivelarsi delle (ri)scoperte preziose e degne di nota. Il caso della Sposa in nero è abbastanza emblematico, non solo per il suo costituire una delle possibili fonti di ispirazione per il Tarantino di Kill Bill, ma anche proprio per quanto ci dice a proposito della stratificazione tematica e teorica del cinema di Francois Truffaut, spesso comodamente inserito nella facile categoria del “cinema dei sentimenti”. Considerato al di là dei facili pre-giudizi, il film è infatti difficile da catalogare: in prima battuta è un noir, nel quale il regista francese dà sfogo alla propria passione per l’opera di Alfred Hitchcock, complici le pressanti musiche di Bernard Herrmann e l’ispirazione da un romanzo di William Irish/Cornell Woolrich, già autore del racconto alla base de La finestra sul cortile. La costruzione della vicenda non segue una trattazione lineare, le motivazioni che spingono Julie a compiere il suo percorso distruttivo sono infatti rivelate in corso d’opera, attraverso un uso del flashback molto interessante, intercalato ai fatti per svelare progressivamente sempre di più, amplificando quindi due sensazioni: spiazzamento e tensione. Lo spettatore è catapultato immediatamente nel vivo dell’azione e non capisce se parteggiare per questa strana figura femminile o esserne spaventato.

Ma il film è anche una storia di fantasmi (e qui aleggia ancora l’ombra di Hitchcock e del suo La donna che visse due volte), poiché Julie è una donna privata della vita, e dipinta perciò come un’ombra sfuggente, soprattutto nei momenti iniziali, quando ancora la sua missione non si è palesata e la fluidità dei suoi movimenti è accompagnata da un uso sapiente del sonoro e della regia, fino a creare una sensazione inebriante e favolistica. Il suo apparire all’improvviso nell’inquadratura alla festa del signor Bliss, il modo in cui riesce a sfuggire agli arresti (salvo quando non è lei infine a volere il contrario) dimostrano il suo essere situata su un piano temporale altro che la rende allo stesso tempo meravigliosa ma letale (e l’interpretazione fornita da Jeanne Moreau si rivela molto convincente per ritrarre i vari stati d’animo che attraversano e definiscono il personaggio).

Infine è anche una storia d’amore, o meglio sulla fine dell’amore in un mondo ormai tarato sull’ostilità tra i sessi. Non a caso l’evento scatenante è proprio l’omicidio di un innamorato, dal valore quasi simbolico per come lascia il mondo in preda a una classe maschile superficiale e che concepisce la donna unicamente come preda da cacciare per divertimento sessuale. Julie deve quindi imparare a essere anche lei cacciatrice (non a caso il pittore Fergous le chiede di posare vestita come la dea Artemide), per riuscire a imporre la sua volontà punitiva su un mondo maschile non tanto freddo e meschino quanto privo di reale umanità, che uccide per errore (o per gioco), non si accolla le responsabilità delle proprie azioni, e in un certo qual modo sembra meritare il suo destino. Il fatto che il film sia stato realizzato nel 1968 sembra caricarlo ulteriormente di un portato sociologico, e in questo senso Julie diventa quasi un prototipo di donna che rivendica con la forza un suo desiderio di non essere subalterna all’uomo. Il film è con lei, le è complice, la segue e racconta le sue azioni con leggerezza e senza rinunciare a una ironia velata ma presente, quasi a staccare dall’omicidio il senso della fine per dare invece l’impressione di una metamorfosi in atto nell’ordine delle cose.

Tutto questo ben stabilisce la natura anche teorica del film, il suo giocare con i significati e i linguaggi e non stupisce perciò che Tarantino lo abbia tenuto a mente (lui che non si è mai dichiarato un ammiratore di Truffaut). Ma la complessità di un film apparentemente così lineare e ordinario finisce per creare inattesi legami anche con altre personalità cinematografiche attente alla sperimentazione linguistica: è per questo che, nella scena del teatro, vediamo già in nuce alcune strategie narrative che diverranno un marchio di fabbrica di Dario Argento, per l’uso espressivo del décor e della musica, e l’attenzione ai dettagli, insieme a un utilizzo dei tempi in grado di far montare la suspence senza mostrare praticamente nulla di significativo, soltanto basandosi sulla resa emotiva che lo spazio stabilisce con i fatti raccontati.

Dimenticato per molto tempo, il film è ora in uscita in DVD e si può trovare attualmente nelle edicole, allegato alla rivista Ciak.

La sposa in nero
(La mariée etait en noir)
Regia: Francois Truffaut

Sceneggiatura: François Truffaut e Jean-Louis Richard, dal romanzo “La sposa era in nero” di William Irish/Cornell Woolrich
Origine: Francia/Italia, 1968
Durata: 104’

Pagina di Wikipedia su Francois Truffaut
Pagina di Wikipedia su Cornell Woolrich

venerdì 6 giugno 2008

Be Kind Rewind: Gli acchiappafilm

Mentre il proprietario della videoteca dove lavora è lontano, Mike si vede cancellare tutte le videocassette dal suo amico Jerry, che è stato investito da una scarica elettrica mentre tentava di sabotare la vicina centrale per salvare il quartiere dall’inquinamento elettromagnetico. Disperato, Mike coinvolge Jerry nella folle impresa di girare delle versioni amatoriali dei film cancellati, da noleggiare ai clienti del negozio: l’idea si rivela inaspettatamente un enorme successo, che potrà forse salvare l’edificio dai propositi di demolizione degli amministratori locali, i quali intendono costruire sull’isolato un palazzo moderno e relegare il povero proprietario in una casa popolare.

C’è da credere che un tipo come Michel Gondry sia stato sbalzato da qualche fantastica piega del tempo, per illuminare quest’epoca grigia e pregna di sterile materialismo: unico fra tanti, questo omino francese merita infatti l’appellativo di artista e poeta, una figura analogica in tempo digitale, affascinato dalla materialità degli elementi, da una nostalgia che viene coniugata in senso sempre attivo rispetto alla tradizione e alla storia del cinema, dando vita a opere tanto personali quanto originalissime. Be Kind Rewind è in questo senso un ulteriore tassello di un percorso che, dopo la rivelazione dell’affascinante Se mi lasci ti cancello (sua seconda regia), aveva poi trovato piena maturità nel tenero L’arte del sogno, sorta di manifesto programmatico di un universo immaginifico che non intende scendere a compromessi con le difficoltà del reale.

Con questa nuova opera siamo su territori molto simili: c’è un mondo “di fuori”, ostile e che nella continua rincorsa al nuovo sembra dimenticare gli elementi che rendono la vita degna di essere vissuta; e poi c’è un mondo “di dentro”, che è quello del cinema, di un senso di appartenenza a un gruppo che nell’opera filmata trova il suo collante e il suo strumento di definizione. Tale e tanta è la fiducia che Gondry ripone nel potere aggregante delle immagini, da risvegliare nello spettatore sopito il senso della magia per l’esperienza della visione. E lo fa attraverso una dialettica feconda con la tradizione cinematografica, di cui viene recuperata la cifra meravigliosa, ma allo stesso tempo negando ogni narcisismo.

E’ interessante notare, infatti, come lo stile di Gondry, pur nella sua forte personalità, non miri a incantare lo spettatore attraverso una originalità ruffiana e di maniera, ma rappresenti invece una propaggine naturale del modo che questo regista ha di vedere il mondo: per questo egli si inchina semplicemente di fronte al cinema come potere in grado di coinvolgere i terzi e (sublime utopia) cambiare il mondo con la sua forza propositiva. Ecco dunque che il “rifare” i celebri titoli della storia del cinema diventa allo stesso tempo un omaggiare la storia della settima arte (secondo la logica del “re-enactmen”, sempre esistita, ma di recente sdoganata attraverso YouTube), ma anche un porsi al di fuori delle logiche meramente commerciali per glorificare invece la componente puramente artigianale e inventiva della narrazione per immagini.

L’estremo divertimento che lo spettatore prova nel riconoscere le scene di film celebri, reinventate con estro folle e con quella forza da pioniere, che porta semplici rottami, o disegni, o un ventilatore posto davanti all’obiettivo a creare l’effetto della pellicola rovinata, è il miglior complimento possibile che questo geniale creatore poteva fare all’artificio stesso della creazione di immagini e alla passione che la stessa veicola. Un cinema, appunto, materico, fatto di idee e mezzi che si uniscono in un abbraccio d’amore per regalare al pubblico un’emozione. Nulla di anti-storico, comunque, perché Gondry non rifugge dall’utilizzo di tecniche ed effetti moderni, ma non li esibisce e li pone al servizio di un concetto di cinema basato sull’invenzione e sul piacere del “fare”, coniugando in questo modo classico e moderno.

Si torna dunque indietro, fino agli albori della settima arte, quando la distanza fra il film e il trucco da illusionista era molto ridotta e in questo senso Gondry si pone come ideale erede di quel George Meliès che per primo aveva portato sullo schermo il gusto dell’invenzione, semplice ma d’effetto, e contestualmente anche il piacere di divertire e stupire lo spettatore.

Be Kind Rewind, infatti, intende in un certo qual modo scrivere una nuova e impossibile storia del cinema come momento di arte e invenzione, slegato da tutti quegli orpelli economici e cinici che fanno capo alla logica dell’industria. La dicotomia si articola anche attraverso il recupero nostalgico della piccola videoteca da angolo, un negozio che potremmo inserire in un ipotetico percorso che comprende anche lo store di Clerks e il negozio di dischi di Alta fedeltà (dal quale viene ripreso anche l’incontenibile Jack Black): realtà a misura d’uomo, dove l’atto del noleggiare un film rientra in una precisa ritualità mai disgiunta dal rapporto con chi quei luoghi li gestisce e in un certo qual modo li custodisce. Tutti elementi che invece si contrappongono alla freddezza delle moderne catene di noleggio, alquanto asettiche e che “non richiedono competenza specifica” alla gente che ci lavora.

E quindi proprio l’analogica videocassetta diventa il viatico per riscoprire il piacere della visione, e, successivamente, per riportare il cinema nella vita: come accade appunto nel finale, dove viene messa in scena la storia raccontata per anni da Mr. Fletcher. Il cinema dunque anche come naturale prolungamento della narrazione orale, del racconto tramandato dagli anziani ai giovani, forme di espressione antiche ma non desuete, che la ricontestualizzazione di Gondry permette di rivalutare come ulteriori piccoli passi nella storia dell’evoluzione umana, dell’arte e del sentimento. E che per questo rende vera la fantasia e rende possibile anche cambiare il passato. Un film da amare senza riserve.

Be Kind Rewind – Gli acchiappafilm
(Be Kind Rewind)

Regia e sceneggiatura: Michel Gondry

Origine: Usa, 2008

Durata: 100’

Intervista a Michel Gondry
Sito ufficiale
Sito ufficiale italiano
Il canale di BeKindMovie su YouTube
Sito ufficiale di Michel Gondry (in francese)
Profilo di Michel Gondry

mercoledì 4 giugno 2008

Buongiorno notte – Il caimano – Il divo

Il cinema italiano cosiddetto “civile”, quello che si fa carico di raccontare i lati oscuri della storia del nostro paese, attraversa attualmente un periodo fecondo e molto interessante, che sembra descrivere coordinate nuove all’interno di questo particolare filone. Sembra essere stata abbandonata, insomma, la fase classica, dove il racconto cronachistico di fatti e volti della storia politica e sociale italiana non era mai disgiunto da un tono primario di esplicita denuncia, spesso facilmente (ma fieramente) didascalico (basti pensare alle pellicole di Giuseppe Ferrara), al punto da “staccare” in un certo qual modo quei fatti dalla società, vittima delle macchinazioni altrui e sfondo a tratti inconsapevole, a tratti ignaro, oppure, altre volte, silente osservatore degli eventi. Un percorso come quello descritto da film quali Buongiorno notte (2003) di Marco Bellocchio, Il caimano (2006) di Nanni Moretti e Il divo (2008) di Paolo Sorrentino, invece, sembra aprire possibilità nuove all’interno di questo particolare genere/non-genere (da intendersi in un’ottica che comunque non vuole essere “commerciale”), attraverso un lavoro sia sullo stile narrativo e visivo, che sul racconto come momento in cui l’autore investe se stesso, il proprio vissuto e lascia che il ritratto della figura istituzionale di turno divenga paradigma di una società che quel personaggio sorregge e riflette. Aldo Moro, Silvio Berlusconi e Giulio Andreotti, insomma, non come figure “altre” che hanno operato ai danni o a favore della società, ma come emblemi, che quella realtà invece la rispecchiano e dalla quale inevitabilmente derivano.

Il rapimento dello statista democristiano da parte delle Brigate Rosse, nelle mani di Marco Bellocchio, non è infatti utilizzato per l’ennesimo resoconto lineare dei fatti occorsi in quei tragici 55 giorni del 1978, ma diventa invece il pretesto per un’analisi dei meccanismi utopistici e ideologici che hanno portato a quel gesto violento. Da intellettuale di sinistra, alfiere di un cinema impegnato ma dalla forte impronta umana, Bellocchio cerca quindi di restituire degli stati d’animo: lo fa con il senno di poi, ma anche con la coscienza del momento storico e dei fermenti che attraversavano il mondo della stessa sinistra. Al centro del racconto, quindi, più che gli eventi interni alla stanza dove Moro è prigioniero, sono i sentimenti contrastanti che agitano Chiara (un’intensa Maya Sansa), una delle brigatiste, ma anche i militanti del “popolo di sinistra”, che al contempo disprezzano eppure invidiano il gesto compiuto da quegli uomini che hanno imbracciato la lotta armata: se ne distanziano, ma sottotraccia ne condividono la soluzione ritenendola una giusta risposta alle storture del potere ufficiale (e occulto). Un cinema che per questo travalica il mero accadimento per farne segno di un momento storico, riflessione sulla società e sugli ideali: non tanto ideologico quanto di riflessione sull’ideologia, sulle speranze e le delusioni del periodo e dell’oggi, sulla componente umana che spesso si separa dalle idee e porta a degli errori. Non un atto di accusa, né un’ammissione di colpa, quanto una voglia di confrontarsi sul tema, lanciando anche un segnale di speranza, tanto da permettersi un utopistico e lirico finale che vede Moro libero dalla sua prigionia, quasi un fremito di possibile futuro invocato e sognato, che ha la forza espressiva del passaggio del gabbiano di fronte all’Empire State Building di warholiana memoria: un momento, un fremito di vita, talmente breve da restare impresso eppure da essere inafferrabile. D’altronde Buongiorno notte adotta innegabilmente una forma narrativa franta e dal sapore a tratti impressionista, attraverso l’uso espressivo del colore e delle musiche (esemplare l’uso stordente e lirico di Shine on Your Crazy Diamond dei Pink Floyd).

Curioso pensare che in quegli stessi anni Silvio Berlusconi iniziava la sua irresistibile ascesa che lo avrebbe portato a ricoprire una posizione dominante nel campo dell’industria televisiva privata: il resoconto di Nanni Moretti, lungi dal caratterizzarsi, come invece fu detto all’epoca della sua uscita, come un semplice film “contro”, racconta questi fatti attraverso una struttura narrativa a mosaico, intercalandoli con il privato di Bruno, un produttore di film exploitation che cerca di concretizzare una pellicola sulla vita dell’imprenditore (e poi politico) meneghino. La vicenda viene dunque a essere calata nella contemporaneità e nel quotidiano, raccontando come Berlusconi abbia incentrato la sua attività imprenditoriale sul “dare alla gente quello che vuole”, quindi ponendosi esattamente come propaggine di un desiderio sociale largamente condiviso, che non a caso poi gli ha permesso la discesa politica e ha plasmato i gusti dell’opinione pubblica. L’odissea della regista Teresa che non riesce a trovare finanziatori per il suo film, esplora quella componente ignava, ma anche pavida e fanfarona, di un’Italia comune che preferisce ignorare i problemi, fatta salva quella parte che, come lo stesso Moretti enuncia nel film, sa già tutto e si crogiola in un certo qual modo nel raccontare e sentire raccontare i fatti. Il Caimano in questo modo denuncia lo scacco di un mondo immobile, ripiegato in una nostalgia romanticamente sgangherata (dalla quale provengono gli immaginari film di Bruno – su tutti l’impagabile Maciste contro Freud), che tira a campare, lasciandosi in un certo qual modo guidare da chi si presenta come il giusto interprete dei sentimenti di tutti, anche se poi il suo vero fine è personale e la sua verità è particolaristica e produce disgregazione.

In un certo qual modo anche l’Andreotti di Sorrentino rientra in questo schema e come il Principe di Machiavelli è convinto di doversi piegare al Male per far trionfare il Bene. Ciò che però il film fa con sagacia è raccontare l’Italia della cosiddetta Prima Repubblica totalmente dall’interno dei Palazzi, attraverso uno stile grottesco che pesca direttamente dal repertorio della Commedia dell’Arte (con il suo gusto evidente per le “maschere”) per mettere in scena un macabro balletto degli orrori che dagli eccessi del potere temporale arriva direttamente al cinema espressionista come grido d’allarme per la decadenza di un’epoca (e in questo senso lo scivolare silenzioso di Andreotti nei corridoi richiama perfettamente la sagoma di Max Schreck in Nosferatu). Sorrentino alterna fascinazione per questa figura impenetrabile e complessa a una forte componente satirica che non cela la propria indignazione per un’Italia agli antipodi rispetto al ritratto tipico del Belpaese, un luogo raffigurato in maniera oscura dalla splendida fotografia di Luca Bigazzi, un coacervo di intrighi, omicidi eccellenti, stragi e giochi di potere fra le correnti dei maggiori partiti. L’effetto è esaltante e nauseante allo stesso tempo per come marca la misura di un Andreotti che è l’Italia e di un’Italia che pur nella ricerca di una distanza (il processo finale) si adegua e ammira il personaggio. La narrazione procede quindi fluidamente, attraverso una forte impronta stilistica, quasi monocorde nella sua potente evidenza autoriale, spezzata a tratti da scene di autentico delirio che danno la misura umana della posta in gioco: le visioni di un Moro che, proprio come in Bellocchio, finiscono per rappresentare il rimosso e i sensi di colpa del protagonista, l’urlo nel “transatlantico” di Cirino Pomicino e, soprattutto, l’indignata confessione di un Andreotti che per un solo momento perde la sua maschera di cinismo per dare sfogo ai propri demoni interiori. Demoni che sono quelli della nostra Storia: fra il caso e la volontà di Dio, insomma, non c’è spazio per l’ammissione di estraneità ai fatti.

Intervista a Marco Bellocchio
Intervista video a Nanni Moretti
Intervista a Paolo Sorrentino

lunedì 2 giugno 2008

Onora il padre e la madre

Andy e Hank Hanson sono due fratelli dal carattere opposto: il primo è ambizioso, deciso, ha un posto di prestigio in un’azienda immobiliare ed è sposato con la bella Gina; il secondo invece è debole, insicuro, oberato dai debiti e su di lui grava l’onere di dover pagare il mantenimento della figlia dopo il divorzio. Il bisogno di denaro però accomuna entrambi e così Andy progetta una rapina alla gioielleria di famiglia (che Hank dovrà poi portare materialmente a termine), un colpo facile e veloce. Ma poi tutto va storto: la rapina fallisce, il complice con cui Hank si è accordato muore e la madre che si trovava nel negozio finisce in coma. Il drammatico evento innesca inoltre una reazione a catena che lascia ben presto emergere tutti i contrasti e i rancori sopiti all’interno della famiglia Hanson.

83 anni, un Oscar alla carriera ricevuto nel 2005 e un nome che ormai è simbolo di un cinema capace di unire impegno civile e professionismo: cuore e tecnica, arte e mestiere. Sidney Lumet è ormai parte di un immaginario che dagli anni Settanta a oggi illumina il cinema americano più inquieto e problematico, quello che si preoccupa di far emergere il rimosso per mettere la società di fronte ai propri lati migliori (come nel garantista La parola ai giurati), ma anche alle proprie debolezze e ai fragili equilibri delle parti (come nel dimenticato A prova di errore). La sua ultima fatica è stata accolta con grande entusiasmo dagli appassionati di cinema, per come riesce ancora una volta a unire uno sguardo morale con un lavoro sulle strutture di genere. Il risultato è una tragedia a sfondo familiare, ibridata con il più classico racconto noir di una rapina, che diventa il pretesto per una radiografia dello spappolamento di una realtà dove i rapporti umani sono incancreniti e il quadro generale si rispecchia nella crisi dell’istituzione primaria della società (la famiglia).

L’aspetto al contempo sostanziale e controverso sta soprattutto nella scelta di adottare, per questo racconto così potente, una struttura narrativa a incastri che, da un lato, sembra riecheggiare i modelli più classici del genere (pensiamo a Rapina a mano armata), dall’altro i nuovi metodi di decostruzione della narrazione tradizionale portati avanti dai moderni serial televisivi (e se pensiamo che Lumet ha militato a lungo sul piccolo schermo la cosa ha perfettamente senso). Una scelta precisa, anche opinabile (una narrazione lineare non avrebbe fatto perdere alcunché alla forza della storia, tanto da rendere legittime le accuse di semplice manierismo), e che il regista sfrutta quasi per irridere i protagonisti, per isolarli e rimarcarne la prigionia in schemi egoistici. D’altronde quello che viene messo in scena è un mondo definito in modo quasi matematico, dove i ruoli sono ben codificati, le attività criminali si iscrivono pienamente nel tessuto sociale, ma avvengono in un clima di normalità in grado di allontanare gli sguardi indiscreti (i piani orditi in un bar fra una birra e l’altra, il pusher che vive in un lussuoso attico, la gioielleria in periferia) e la macchina da presa descrive traiettorie molto precise fra gli spazi di interni labirintici, dove tutto è perfettamente in ordine, fino a quando la tragedia non porta la follia a deflagrare, le pietre a essere gettate fuori dal piatto e i rapporti a rivelare la loro pochezza. Come lo stesso Andy ricorda, i numeri sono strumenti asettici, possono essere ricombinati a patto che il totale non cambi e fra gli interstizi lasciati liberi dalle loro differenti disposizioni è possibile costruire piccole realtà di profitto personale, imbrogli, tutto apparentemente pulito, tutto perfettamente logico.

Un po’ come accade con i rapporti del film, anch’essi molto chiari e definiti: padri, figli, mariti, amanti. Quello messo in scena da Lumet, a questo proposito, è un universo quasi totalmente coniugato al maschile, dove sono gli uomini ad avere il privilegio e l’onere di reggere le fila del sistema, a dover assicurare il mantenimento delle donne, quasi a rivendicarlo con forza, salvo poi rivelarsi assolutamente incapaci. Sono padri mancati, come Charles che non è stato capace di assicurare al figlio Andy l’affetto necessario, come Hank che non ha i soldi per mantenere la figlia, o come lo stesso Andy che, protettivo e “paterno” nei confronti del fratello minore è invece una delle cause scatenanti del disastro. Ecco, nello schema scientemente ordito dal film la variabile rappresentata dai sentimenti umani è quella che realmente mette in scacco il sistema rivelandone le falle, quella che spinge Gina fra le braccia di Hank per sentirsi amata e considerata e quella che incita Andy a ordire la rapina non per reale avidità, quanto per vendicarsi del disinteresse da sempre provato dal padre nei suoi confronti.

Da questo punto di vista la struttura a incastri ordita dagli autori è perfetta nel ritardare la scoperta del vero movente, del rancore sopito, e lascia che lo spettatore scopra tutto lentamente, per poi precipitarlo nella concitazione del finale con la sua affermazione di un giustizialismo di stampo antico, dove il padre deve al contempo punire il figlio ma anche affermare in questo modo il suo fallimento. Nessuna pietà, soltanto l’incedere ineluttabile della tragedia.

Gli uomini, quindi, non sono numeri e se credono di potersi permettere di posporre la morale non fanno altro che sottolineare il loro essere morti (come da titolo originale). Lumet ce lo vuole ricordare e con lui un grande cast, utilizzato al meglio dal regista attraverso un lavoro sulla fisicità degli interpreti: e per rendersene conto basta guardare la realistica scena di sesso iniziale, la credibilità di ogni lacrima, di ogni scatto d’ira, dei corpi stessi, non plastificati ma permeati da una forza viva, che è poi quella che colpisce maggiormente lo spettatore.

Onora il padre e la madre
(Before the Devil Knows You’re Dead)
Regia: Sidney Lumet
Sceneggiatura: Kelly Masterson
Origine: Usa, 2007
Durata: 117’

Intervista al produttore Michael Carenze
Sito ufficiale (in francese)