"C'è chi crede in dio o nel denaro. Io credo nel cinema, nel suo potere. L'ho scoperto da ragazzino, mi ha aiutato a fuggire da una realtà in cui ero infelice. È una delle forme d'arte più alte che l'uomo ha concepito. Credo nel suo futuro."
(John Carpenter)

venerdì 27 giugno 2008

La danza degli scheletri (2/3)

Uscita nelle sale americane il 22 agosto del 1929, La danza degli scheletri inaugura la grande stagione delle Silly Symphonies, settando immediatamente gli standard tipici della serie, ma realizzando allo stesso tempo un composito manifesto programmatico di cosa significa “animazione” per i Walt Disney Studios: un banco di prova dove sperimentare soluzioni visive in grado di colpire lo spettatore, far evolvere l’industria dell’entertainment, ma allo stesso tempo riflettere su temi, figure e concetti dell’immaginario americano.

E’ infatti evidente come il corto attinga direttamente dal rapporto da sempre fecondo che la società a stelle e strisce intrattiene con l’iconografia di stampo horror, coniugata in senso spettacolare (basti pensare a festività come Halloween, dove l’elemento scenografico è centrale). A questo proposito le primissime inquadrature, attraverso una regia stilizzata, passano in rassegna proprio alcuni luoghi ed elementi topici dell’orrore comunemente inteso: un cimitero, la forma minacciosa di un gufo che si staglia contro la luna, un cane che ulula, dei gatti che in modo inquietante si fronteggiano su due lapidi prima di essere spaventati dal risorgere del primo scheletro. Il tutto con una perfetta sincronia tra suoni, azioni e musica e senza nessun personaggio parlante.

Ma nello stabilire i punti fermi, allo stesso tempo Disney (produttore e regista) e Ub Iwerks (disegnatore e animatore) li sovvertono, impastando i contorni di quelle figure, donando loro una consistenza a metà strada fra il liquido e il gommoso, mostrandocene proprio la natura iconica e scenografica. Il che direttamente conduce all’arrivo degli scheletri e al loro impareggiabile numero musicale: quello che colpisce è infatti proprio la totale de-sacralizzazione del concetto di “corpo”. Nell’universo disneyano il corpo non è elemento di definizione della realtà, ma è anzi un balocco con il quale divertirsi utilizzandolo alla bisogna per la creazione di gag irrealistiche dove le membra ossute dei protagonisti possono allungarsi, accorciarsi, ricombinarsi in modo quasi surreale o assumere la forma di strumenti musicali (impagabile la colonna vertebrale/xilofono!).

A pensarci bene è esattamente ciò che Disney amerà fare in quasi tutta la sua produzione, ivi inclusa quella Live Action che spesso usufruirà del cartoon per aprire squarci di irrazionalità autentica e poetica nei racconti. In questo caso però siamo distanti dal più classico concetto di poesia: La danza degli scheletri corteggia infatti la componente macabra e di divertimento virato al nero che pure riposa negli angoli più recessi dell’animo. Per questo motivo il cartoon diverte ma allo stesso tempo inquieta, sottotraccia corre come una energia oscura che la regia consapevolmente sottolinea attraverso una direzione statica e che utilizza le ripetizioni dei gesti in modo da creare un effetto quasi ipnotico. L’ottima fotografia in bianco e nero (ne esiste anche una versione colorizzata del 1982) fa il resto.

Allo stesso tempo la vena dissacratoria si fa strada con forza e rinnova la tendenza al rovesciamento dei cliché già evidenziata in partenza: il primo scheletro che esce dalla sua tomba, infatti, si spaventa per il verso minaccioso del gufo, capovolgendo così la sua condizione di essere inquietante e spettrale in un quasi umano e pavido personaggio che è capace di provare emozioni. Proprio l’umanizzazione, sebbene sempre coniugata nel senso antirealistico della coreografia, permette ai quattro scheletri ballerini di apparire allo spettatore dei simpatici characters, e la loro danza allo stesso tempo diventa un momento di semplice e liberatorio divertimento.

Ecco, forse qui si nasconde la vera forza del cartoon, la sua capacità di ironizzare sulle miserie del mondo attraverso lo sberleffo dei non morti che si divertono a mettere in scena il loro numero musicale: siamo in fondo nel problematico 1929 del crack economico, alfiere di un periodo tutt’altro che lieto e che Disney commenta a modo suo, attraverso il rovesciamento di morte e dolore in senso ludico.

Viene in mente Sergio Citti che tantissimi anni dopo, nel 1989, donerà ai suoi Mortacci il piacere di uscire dalle tombe per trascorrere divertenti nottate nel cimitero a ridere delle miserie dei mortali. Così come più evidente è il debito di John Landis e degli zombi ballerini di Thriller, guidati da Michael Jackson, o quella dei trapassati di Tim Burton nel night de La sposa cadavere. In ogni caso è sempre forte la carica satirica di un mondo dei “morti” ben più energico e vitale di quello dei “vivi”.

Nonostante i debiti da alcuni rivendicati nei confronti della “Danse Macabre” di Camille Saint-Saens del 1874 (smentiti dall’autore della musica, Carl Stalling), La danza degli scheletri rimane senza dubbio un capolavoro di stile e originalità, un vero e proprio squarcio di energica follia nell’ambito del cinema popolare.

La danza degli scheletri
(The Skeleton Dance)
Regia: Walt Disney
Origine: Usa, 1929
Durata: 6’

Articolo con informazioni e curiosità
La musica di Carl Stalling
La danza degli scheletri su YouTube

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