"C'è chi crede in dio o nel denaro. Io credo nel cinema, nel suo potere. L'ho scoperto da ragazzino, mi ha aiutato a fuggire da una realtà in cui ero infelice. È una delle forme d'arte più alte che l'uomo ha concepito. Credo nel suo futuro."
(John Carpenter)

mercoledì 12 novembre 2008

Las Horas Muertas

Las Horas Muertas

Due coppie in un camper sono ferme ai confini di una statale immersa nel deserto: un cecchino li prende di mira trasformando la vacanza in un incubo.

Quattro protagonisti. Il deserto. Unica possibile via di fuga, come una ferita a squarciare la monotonia del paesaggio una strada, attraversata quasi esclusivamente da camion. In mezzo al tutto e al nulla. E poi un cecchino, che prende di mira i ragazzi.

Basta davvero poco a Haritz Zubillaga per dare forma a un’idea tanto semplice quanto precisa, che pesca da modelli consolidati con la sicurezza di chi sa quel che vuole e lo persegue con convinzione, regalando ai tredici minuto di girato un impatto stilisticamente maturo e narrativamente teso.

Las Horas Muertas (anche noto come Killing Time) diventa così la cronaca di un disfacimento sociale già in atto: non sappiamo nulla dei protagonisti, i nomi dei loro interpreti compaiono come pallottole caricate in canna su fondo nero nella breve sequenza dei titoli di testa e tanto ci deve bastare. Ma è subito evidente come i quattro siano immersi in una convivenza di cui farebbero volentieri a meno, dove dominano gli egoismi delle parti, elementi di uno schema ridotto alle componenti essenziali e virato tragicamente al nero. La presenza del cecchino appare quindi come la materializzazione di quell’oscuro sentire che già attanaglia gli animi e non ha per questo bisogno di motivazione: può essere il suo un gioco perverso o una sorta di punizione per un mondo che deve costantemente imparare a convivere con l’orrore perché non ha possibilità di concepire altro.

Non a caso in questo microcosmo fatto di terra (quella brulla e pietrosa del deserto), aria (quella del cielo che sovrasta tutto e sembra non conoscere orizzonte), fuoco (quello che brucia le carni) e tempo (il poco concesso dalle implacabili pallottole del cecchino) quello che manca è proprio l’elemento vivificatore per eccellenza, l’acqua, mentre il suo unico surrogato, la birra, è il primo bersaglio delle mortali pallottole.

E si procede così, inesorabilmente, in un puro meccanismo di tensione che Zubillaga conduce stringendo sui volti e curando particolarmente i dettagli, dando significato a ogni gesto e a ogni pulsione, come il desiderio che Samuel prova per Ana, la più spregiudicata (e sensuale) del gruppo: nell’attimo del maggiore pericolo, quindi, è ancora l’istinto di parte a reclamare la sua centralità, secondo l’ottica dell’assurdo cara all’intera pellicola. Il tutto è poi immerso in una fotografia dai colori saturi, che rimanda tanto agli archetipi dell’horror anni Settanta (lo scenario è praticamente lo stesso de Le colline hanno gli occhi) quanto a quello del western, in particolare di quello italiano per l’insistente fischiettare del killer, che contrappunta le azioni e costituisce la ficcante colonna sonora del film.

Il sonoro è d’altronde l’altro importante elemento che Zubillaga cura con particolare dedizione, dando forma a una cacofonia di rumori che vanno dal costante sibilo delle pallottole al rombo dei camion in marcia sulla statale; e poi il montaggio, che permette al film di vantare una tempistica molto precisa, con sprazzi di orrore che fanno improvviso capolino nei momenti di apparente calma, mentre le traiettorie descritte dai proiettili forniscono nuove possibili vie di fuga a protagonisti/cavie osservati beffardamente nei loro vani tentativi di salvare la propria vita.

Il tutto inesorabilmente conduce alla normalizzazione dell’orrore, alla presa coscienza di un’esistenza in trincea che sembra rinfacciare all’uomo moderno e alla sua sicurezza, tracotante eppure fragile, la propria misera condizione di forzata prigionia all’interno di un alveo sempre più oscuro e decadente, che permette infine al film di sfociare senza remora nell’horror. Ma stavolta non ci sarà il Boris Karloff del bellissimo Bersagli a fermare romanticamente il mostro.

Las Horas Muertas è pertanto un’opera che lavora sulle percezioni e sul capovolgimento della realtà, sulla confusione dei sensi che non riescono a definire più lo spazio nel quale ci si muove e che giustifica le domande lasciate senza risposta, le motivazioni inespresse e la situazione di perenne incertezza sul quale l’assunto parte, si muove e infine giunge.

Premiato (meritatamente) con l’Anello d’Argento per il miglior cortometraggio al Ravenna Nightmare Film Fest 2008.

Las Horas Muertas
Regia e sceneggiatura: Haritz Zubillaga
Origine: Spagna, 2007
Durata: 13’

Las Horas Muertas su Vimeo
Sito della produzione Basque Film

1 commento:

Tamcra ha detto...

Ho visto Las Horas Muertas e mi ha molto colpito il finale che, come dici tu, non lascia scampo. Una costante dell'orrore è la lotta che la zona chiara ingaggia con quella oscura, qui invece -e viene in mente un altra pellicola paludosa, La Ciènaga , argentina stavolta,il male oscuro C'E' GIA' e non vede l'ora di uscire fuori fra un camion e l'altro (le vite degli altri?)