"C'è chi crede in dio o nel denaro. Io credo nel cinema, nel suo potere. L'ho scoperto da ragazzino, mi ha aiutato a fuggire da una realtà in cui ero infelice. È una delle forme d'arte più alte che l'uomo ha concepito. Credo nel suo futuro."
(John Carpenter)

giovedì 31 dicembre 2009

2010: dall’odissea al contatto

2010: dall’odissea al contatto

Il primo pensiero relativo al 2010 riguarda il… 2001: non sono un kubrickiano come la stragrande totalità dei cinefili, ma, in quell’anno così atteso, l’occasione di vedere Odissea nello spazio su grande schermo (in un cinema che oggi non esiste più) non me la lasciai certo sfuggire! Ora che siamo arrivato al 2010 del sequel (L’anno del contatto) quasi non sembra vero che sia passato già questo decennio il cui inizio è stato segnato dalle nefaste profezie del Millennium Bug (poi rivelatosi una enorme bolla di sapone) e dagli ancor più nefasti (e quelli sì, reali) eventi dell’11 settembre americano: c’è poco da fare, il decennio è davvero iniziato nel 2001 anche se tutti lo abbiamo accolto un anno prima.

E quindi ora, quando sarebbe tempo di bilanci, preferisco lasciare agli altri il piacere delle classifiche e delle riflessioni su ciò che il cinema (e non solo) ci ha dato in questo intervallo di tempo: così come è iniziato in ritardo, dopotutto, il decennio avrà bisogno ancora di un po’ di tempo per essere assimilato a dovere e permetterci di trarre le doverose conclusioni. Ma soprattutto è bello pensare di essere immersi non in una serie di blocchi temporali scanditi dalla semplice data del calendario: se il 2010 deve essere l’anno del contatto, che lo sia come naturale prosecuzione del buono che si è visto finora in sala, aprendo la strada a nuove vie, in un fitto reticolo di emozioni che rinnovino il piacere della visione e della scoperta. E’ per questo che era importante assistere alla proiezione di 2001 e per lo stesso motivo oggi siamo pronti a stupirci di fronte al prossimo evento annunciato: ognuno scelga liberamente il suo, personalmente punto la mia attenzione su Avatar, che spero potrà trovare spazio fra le memorabilia del Nido.

Nell’attesa, ovviamente, auguri di Buon Anno a tutti!

giovedì 24 dicembre 2009

Vorrei cantare insieme a voi…

Vorrei cantare insieme a voi…

Come scrivevo un anno fa, il Natale è anche (e per quanto mi riguarda soprattutto) un momento che ha fortemente a che fare con l’iconografia: accanto al sentimento religioso su cui la ricorrenza si fonda (a prescindere che ci si creda o meno) esiste infatti una componente squisitamente visiva, fatta di immagini, volti, riti e suoni, che permette a questo particolare periodo dell’anno di riverberare la propria specificità e di produrre in qualsiasi individuo l’istintiva associazione mentale con l’arrivo delle Feste: è quella che poeticamente si chiama anche “aria di Natale” e che è sapientemente gestita da un complesso meccanismo di propaganda che nell’era mediatica si mescola in modo inestricabile con la tradizione.

Pertanto, per le generazioni più recenti, cresciute dopo il boom del mercato televisivo e l’avvento delle emittenti private, l’Aria di Natale non è data soltanto dalle iconografie più consolidate e “materiche” (Presepe, Albero, regali, cartoline e via citando), ma anche e soprattutto da una serie di visioni veicolate dal piccolo schermo: altre figure, altri suoni e, ovviamente, anche storie. Basti pensare, ad esempio, all’eterna riproposizione di quelli che sono diventati veri e propri classici della programmazione di fine anno come Hollywood Party di Blake Edwards o Una poltrona per due di John Landis.

Premessa necessaria per evidenziare come lo spazio delle Visioni dalla Rete durante queste feste rimarrà occupato dalla pubblicità della Coca-Cola che negli anni Ottanta è diventata simbolo stesso dell’arrivo delle feste (a questo proposito sono illuminanti molti commenti presenti nella pagina YouTube del video). Un gruppo di ragazzi, di notte, in una notte e un luogo non meglio precisati, canta (doppiato) una canzone di facile presa nell’immaginario collettivo, alla luce di candele che illuminano l’oscurità: l’inquadratura, allargandosi, rivela poi la disposizione a triangolo del gruppo, subito sormontata da loghi che trasformano l’immagine in quella di un poetico albero di Natale. Il look degli astanti rimanda a un certo immaginario anni Settanta (seppure non totalmente appiattito sull’iconografia hippy), insieme alla fotografia molto essenziale.

L’impressione che si ricava dalla visione è quasi che la sequenza non nasca esplicitamente per una pubblicità natalizia, ma sia stata invece espunta da un qualche altro contesto e ricondotta surrettiziamente allo scopo (anzi, se qualcuno ha informazioni a proposito, è il benvenuto). L’effetto è per certi versi straniante, ma risulta anche affascinante, soprattutto in virtù della capacità da sempre dimostrata dalla nota bevanda americana di modulare a suo uso e consumo l’immaginario.

Il che naturalmente conduce a una più ampia riflessione sul labile confine esistente fra la tradizione che codifica l’immaginario e lo sfruttamento anche spregiudicato che si fa dello stesso in nome di ragioni puramente economiche: lo spot di una bevanda diventa quindi esso stesso elemento in grado di creare l’atmosfera natalizia e dunque, pur non rinnegando la finalità commerciale, la sopravanza scaltramente per diventare invece “elemento iconografico” tout-court.

Naturalmente questo meccanismo risulta oltremodo inquietante, soprattutto se poi andiamo a considerare la famosa leggenda urbana in base alla quale l’aspetto iconografico di uno dei principali simboli natalizi, ovvero Babbo Natale, sarebbe stato forgiato dalla stessa Coca-Cola. La leggenda nasce in seguito alla grande capacità di penetrazione nell’immaginario che negli anni Trenta ebbero alcune illustrazioni pubblicitarie dell’artista Haddon Sundblom, il quale, sfruttando effettivamente i colori simbolo della bevanda (il rosso con rifiniture bianche) contribuì a fissare l’immagine di Babbo Natale, fino a pochi anni prima ancora discordante tra varie versioni di tinte differenti. Un’analisi più approfondita rivela comunque come Sundblom si sia rifatto a una iconografia comunque già alquanto codificata e che, dunque, non abbia “inventato” nulla, al massimo abbia solo contribuito a consolidare un’immagine certamente preesistente: ma l’ipotesi che il Natale sia principalmente (se non soltanto) il frutto di una spregiudicata operazione di marketing resta ugualmente viva e inquietante.

Nulla di cui stupirsi, però, considerando la particolare essenza del Natale, caratterizzato da una grande liberazione dei sentimenti, ma anche da una estrema ritualità che riverbera naturalmente l’artificio della rappresentazione: verità e bugia insieme, quindi, tali da rendere la festa un momento ambiguo, ma esplicito nella sua finzione. Un doppio binario che questo spot, per quanto scritto, riesce a sintetizzare in modo mirabile.

Buone Feste a tutti!

La pagina YouTube della pubblicità Coca Cola anni Ottanta
Babbo Natale su Wikipedia
Haddon Sundblom su Wikipedia
Coca Cola ha inventato l’immagine di Babbo Natale? (in inglese)
Coca Cola e il Natale (in inglese)

martedì 15 dicembre 2009

Tetro (Segreti di famiglia)

Tetro (Segreti di famiglia)

Prossimo ai 18 anni, Bennie giunge a Buenos Aires e, in attesa che la nave da crociera su cui presta servizio finisca le manutenzioni, si reca a casa del fratello Tetro che non vede da molti anni. Tetro, infatti, ha rotto ogni contatto con la famiglia in seguito a un violento litigio con il padre Carlo, direttore d’orchestra di fama internazionale. Bennie però conserva una lettera nella quale il fratello dichiarava che un giorno sarebbe tornato a prenderlo: una promessa evidentemente dimenticata, dal momento che Tetro accoglie l’arrivo del ragazzo con malcelata insofferenza. Per Bennie il rapporto che si va ricostruendo sarà foriero di rivelazioni circa la sua famiglia e i segreti sepolti nel passato.

Partiamo da una constatazione: Francis Ford Coppola è avanti. Il suo cinema apre prospettive vertiginose - e inafferrabili alle prime visioni - anche quando apparentemente racconta storie semplici. Con un simile presupposto appare immediatamente riduttivo condurre questo Tetro (titolo evocativo e d’impatto, nettamente preferibile a quello italiano) al livello di semplice vicenda in odore di autobiografismo, essendo Coppola figlio di un direttore d’orchestra - peraltro molto meno famoso dell’immaginario Carlo interpretato con fare sornione dall’ottimo Klaus Maria Brandauer. Ma comunque una tale lettura, su cui molte interpretazioni critiche hanno insistito, centra sicuramente il doppio binario sul quale il film, costruito attraverso una serie di dicotomie e sovrapposizioni, costantemente corre, ovvero quello del dramma familiare e dell’arte come cartina di tornasole per raccontare la vita e dare forma a un universo.

L’intera pellicola è quindi finalizzata alla messinscena di una realtà fittizia dove l’arte si fa veicolo di comunicazione e rivelazione delle dinamiche interpersonali e dei sentimenti celati nell’animo dei personaggi. Ciò avviene in modo interno al racconto, quando Tetro punisce se stesso isolandosi e negandosi allo stesso tempo il dono della scrittura (nel quale pure eccelle), oppure quando vediamo il padre usare la musica, suonata sul pianoforte di casa, come veicolo di seduzione per orchestrare quella trama che porterà il figlio a rompere definitivamente con lui. Ma c’è anche un secondo livello, esterno al racconto, attraverso il quale questa dinamica cara a Coppola si realizza, e che diviene pretesto per una riflessione sui linguaggi stessi della narrazione cinematografica, intrecciati e manipolati per creare un sistema di riferimento ad ampio raggio che ci dice della complessità visiva del film. Abbiamo così una prima parte più libera, che sembra rifarsi a certi moduli espressivi delle telenovelas brasiliane e affastella ironia e dramma, che confluisce in una seconda parte più evidentemente drammatica e a un passo dalla tragedia.

In entrambi i casi domina una qualità espressionista dell’immagine, attraverso un bianconero fortemente evocativo che esalta in modo particolare l’idea della rappresentazione scenica, quando i personaggi allestiscono i loro spettacoli che pure danno forma a momenti di snodo importante e, soprattutto nel caso del finale, costituiscono anche un momento di rivelazione e ricapitolazione degli aspetti nodali delle loro vite. Ma anche la realtà esterna al set non manca di creare i suoi elementi su cui far rimbalzare la narrazione: ad esempio il premio letterario sfoggiato dalla critica Alone, riproduce un ghiacciaio che sembra rimandare a quello reale, eppure così evidentemente fittizio, scenico, che Tetro e la sua famiglia costeggiano in auto, mentre si dirigono nella località festivaliera dove si giocherà la partita finale. In questo senso Coppola dimostra di aver metabolizzato la lezione del “fantastico reale” alla base di tanti capolavori del cinema di Powell & Pressbuger, omaggiati esplicitamente nel corso del racconto.

La contrapposizione con i flashback familiari a colori, però, contribuisce a ricondurre gli stilemi dei maestri inglesi nell’alveo dell’autentico cinema coppoliano: il film in questo modo crea infatti una sovrapposizione con Rusty il selvaggio, che il regista americano aveva girato nel 1983. Un’opera fondamentale e pure giocata sul contrasto bianconero/colore per dare vita a una dicotomia fra un presente nel quale i protagonisti risultavano immobilizzati dalle proprie dinamiche e un altrove nel quale fuggire per trovare (forse) la propria liberazione. In Tetro, invece, la contrapposizione investe un raggio d’azione più ampio e mette in relazione un passato a colori dove i sentimenti (negativi) si muovono in maniera evidente fino a portare alla deflagrazione, e un presente basato invece sulla rimozione della verità, incarnata da un coprotagonista (Tetro, appunto) reticente e rassegnato al silenzio.

Il personaggio, interpretato ottimamente da Vincent Gallo, rappresenta così una sorta di Rusty James cresciuto e disilluso (e non a caso la prima scelta di Coppola era proprio quella di Matt Dillon, che aveva interpretato il film del 1983). E’, insomma, un Rusty James inesorabilmente scivolato fino a sovrapporsi al fratello Motorcyble Boy, è fuggito come lui, ma non ha trovato la quadratura della sua vita che invece toccherà al fratello rivelare. D’altronde, nonostante il titolo gli neghi il ruolo da protagonista, è Bennie il vero deus ex machina del film, guida dello spettatore e motore dei principali snodi della storia, fino alla risoluzione finale. E proprio nello scarto che determina lo scivolamento del ruolo di protagonista fra i nuovi Rusty James e Motorcycle Boy (ovvero Bennie e Tetro), il film pulsa di quel lirismo che lo rende estremamente magnetico e magico. Il personale percorso di formazione di Bennie coincide così con la creazione dell’universo che la storia racconta fino allo sbocco finale. E nel raccontare l’ultima parte, come già avvenuto in passato (pensiamo al Padrino parte III), Coppola dà fondo alla sua grandiosità di regista sinfonico, regalando al film la sua scena madre, come si conviene a ogni grande spettacolo.

Segreti di famiglia
(Tetro)
Regia e sceneggiatura: Francis Ford Coppola
Origine: Usa, 2009
Durata: 127’

Sito ufficiale (in inglese)
Tetro sul sito della BiM
Intervista a Francis Ford Coppola
Trailer originale (HD)
Tetro: sequenza d’apertura

venerdì 11 dicembre 2009

L'uomo nero

L’uomo nero

Gabriele torna in Puglia per dare l’ultimo saluto al padre morente: il ritorno in quei luoghi gli fa tornare alla mente la sua infanzia, vissuta all’ombra di un genitore frustrato per le sue velleità artistiche mai appagate e che si era infine convinto a realizzare una mostra dei propri quadri. Il fiore all’occhiello dell’evento doveva essere una curata riproduzione di un quadro di Cezanne esposto alla Pinacoteca di Bari. Nel frattempo Gabriele si divideva fra le scorribande con l’amico Bruno e la paura per un misterioso “uomo nero” che aveva incontrato per caso mentre giocava a nascondino. La visita finirà comunque per rivelare a Gabriele il segreto a lungo nascosto dal padre.

Arrivato al decimo lungometraggio da regista, Sergio Rubini si conferma un anomalo caso di “milite ignoto” del cinema italiano, capace di penetrare l’indifferenza generale unicamente come attore, ma non come autore. E’ un peccato perché la sua filmografia da director, stante alcuni momenti di stanca o qualche deviazione non riuscita (si vedano il farsesco Prestazione straordinaria e il penultimo, velleitario, Colpo d’occhio) rappresenta per il resto una delle nostre realtà più felici, carica com’è di un afflato vitalistico che riesce a catturare colori e sapori del meridione italiano esplorandone a un tempo le contraddizioni umane, fatte di un certo immobilismo dei gesti e delle ritualità, e una componente più misteriosa, selvaggia e quasi magica che rende quei luoghi così scarni capaci di aprirsi a contaminazioni con il fantasy (lo splendido L’anima gemella).

In questo personalissimo percorso, L’uomo nero giunge come un inaspettato punto di arrivo, che rivela l’ormai raggiunta maturità e consapevolezza dell’autore pugliese: scambiato erroneamente per una commedia o magari per un affresco storico-sociale sulla falsariga dei kolossal di Giuseppe Tornatore, il film è invece ancora una volta una sorta di favola che racconta il ritrovarsi di un protagonista attraverso il confronto con le proprie radici e la propria terra. Quello del ritorno a casa, peraltro, è un topos abbastanza comune nelle opere di Rubini (pensiamo all’inizio de La terra), che qui si ritaglia anche il ruolo del capostazione, come a voler tornare agli albori della sua produzione, a quel La stazione che a cavallo fra gli anni Ottanta e Novanta inaugurò la sua carriera di regista.

Si parte dunque dalla memoria, dal conforto del noto, ma si arriva a un risultato complesso, magmatico, stilisticamente sorvegliato e costruito attraverso la contrapposizione fra una realtà generale, che sembra definirsi unicamente nell’evidenza dei suoi toni uniformi, e una serie di umori molto vari che corrono invece sottotraccia, e si palesano soltanto a uno sguardo più attento e obliquo. Esattamente come accade con la grande varietà di colori celati dal paesaggio apparentemente bicromatico che Gabriele e suo padre Ernesto vedono dal finestrino del treno che li conduce a Bari. E’ proprio Ernesto a evidenziare, invece, la grande varietà di tinte che si nascondono e si mescolano in quello scorcio di terra, a formare un sorprendente impasto di tonalità.

Il film in questo senso procede lungo il tentativo di rompere il guscio di ovvietà insito in una realtà che si bea della propria stolidità e dei propri pregiudizi. La spinta, prima ancora che sociologica, è umana e trova la sua ragione d’essere nella frustrazione che domina Ernesto e nel perenne disagio che invece accompagna proprio il piccolo protagonista Gabriele: un dolore, quest’ultimo, incarnato poi dalla figura dell’Uomo Nero (la cui identità verrà svelata solo nell’ultima parte del film). Rubini però evita la facile contrapposizione dicotomica, lavorando anzi sulla negazione del controcampo, in una particolare alchimia che lascia spazio all’ignoto e al fantastico (in ossequio alla prospettiva infantile offerta da Gabriele) e nega invece la visione dell’arte, evidentemente relegata a un fuggevole obiettivo perseguito dai “grandi” e che Gabriele dichiaratamente non riesce a capire.

Così, non vediamo il quadro di Ernesto prendere forma, ma è soltanto il retro della sua cornice a riempire l’inquadratura, mentre centrale sotto l’obiettivo è l’insieme dei sentimenti che investono lo stesso pittore fallito nella creazione della sua opera; non vediamo il film che i parenti e gli amici riuniti seguono in televisione, lo sguardo si posa invece sui gesti passionali che coinvolgono lo zio Pinuccio e una delle convenute: l’arte assume dunque il ruolo di cascame da museo, di chimera da inseguire, ma anche di elemento accentratore, distogliendo lo sguardo dal quale è invece possibile cogliere la complessità e la varietà di quei colori e umori nascosti da una realtà stolida dentro cui si agitano energie divergenti e passionali.

Tutto questo trova poi sublimazione nelle visioni di Gabriele, capaci a un tempo di traslare i sentimenti che legano il bambino alle persone che lo circondano, ma anche di rivelare una volta di più l’incredibile varietà di forze che agiscono fra le pieghe della realtà. Qui Rubini dà sfogo alla sua vena più lirica, assecondando una precisa richiesta di meraviglia che il suo cinema gli porge e che lo avvicina ai grandi poeti del reale del nostro cinema, da Sergio Citti al Luigi Comencini di Pinocchio. Ecco dunque Gabriele scoprire attorno a sé la presenza di spiriti del passato, come quello di un barbuto Cezanne che, sfruttando le fattezze di suo zio Pinuccio (un Riccardo Scamarcio che rinnova la sua ottima mimica lasciata presagire in Verso L’Eden, di Costantin Costa-Gavras), si lancia poi in folli salti dal sapore chiaramente chapliniano.

Possiamo dunque vedere L’uomo nero come il semplice racconto di un bambino alle prese con il primo amore e una famiglia difficile, ma anche come un mosaico più complesso, che trova infine la sua quadratura nella scoperta della grande burla commessa dal padre ai danni dei compaesani: un momento anch’esso magico per come riesce a scompaginare le carte del racconto rivelando un sistema di riferimenti completamente opposto a quello creduto sino a quel momento, dove gli esperti d’arte si riveleranno per gli inetti che sono e il vessato capostazione come un gran furbone che aveva invece capito tutto e ha messo in scena la sua vendetta. Perché in fondo questa realtà mobile nella sua immobilità non accetta di essere scoperta nelle sue contraddizioni, non concepisce gli scatti d’ira che accomunano ad anni di distanza Ernesto che si scaglia contro i suoi ospiti e Gabriele che vorrebbe accusare di viltà chi viene a rendere omaggio alla salma di quel padre che in vita aveva insultato e deriso. In una realtà così, in fondo, si può agire soltanto sottotraccia, per avere il diritto all’ultima risata.

L’uomo nero
Regia: Sergio Rubini
Sceneggiatura: Domenico Starnone, Carla Cavalluzzi e Sergio Rubini
Origine: Italia, 2009
Durata: 115’

Sito ufficiale
Intervista al regista e al cast
Trailer de L’uomo nero

sabato 5 dicembre 2009

Nemico pubblico

Nemico pubblico

Vita, fortune e caduta di John Dillinger, gangster ai tempi della Grande Depressione: diventato il più ricercato criminale d’America, Dillinger di fatto costringe J. Edgar Hoover del Bureau of Investigation a incaricare l’agente Melvin Purvis di mettere in piedi una squadra speciale, primo nucleo di quello che diventerà l’FBI. Nel frattempo il gangster continua la sua corsa, rapinando banche a tempo di record, conquistando il cuore della guardarobiera Billie Frechette e attirando le simpatie del popolo, affascinato dai suoi modi da gentiluomo.

Fa bene il titolo a rimarcare immediatamente la natura “pubblica” del personaggio Dillinger. Perché, sebbene i costumi e la matrice storica possano far pensare diversamente, questo è un film sulla contemporaneità, stilisticamente (per l’uso ancora una volta congruo dell’HD) e filosoficamente: d’altronde il cinema di Michael Mann è così, mette in scena elementi apparentemente netti, per poi lavorare sui piccoli scarti che aprono voragini (e vertigini) di senso. Il biopic diventa quindi altro da sé, esattamente come accaduto in passato, con Alì, e il personaggio di Dillinger diventa icona, ma anche uomo. Non che poi ci sia chissà quale differenza fra le due dimensioni, quella personale e quella pubblica, in un gangster che pensa per sé, cerca il successo, lo “prende” con la stessa ruvidezza con cui costringe l’amata Billie a lasciare il suo lavoro, ma allo stesso tempo è consapevole del favore che riscuote sempre più presso la gente, quella cui riconsegna i soldi durante le rapine, comportandosi scaltramente come tardo archetipo del bandito gentiluomo. Ecco, in questo senso, Dillinger è tanto uomo quanto attore di un copione preordinato e che, in uno straordinario cortocircuito fra verità e finzione vede la sua vicenda reale concludere il film con la morte fuori dal cinema, dopo la visione/rispecchiamento in una pellicola di gangster.

Michael Mann in questo è bravo a mantenere il racconto in equilibrio fra dimensioni diverse e spesso contrapposte, riuscendo a elaborare il concetto di dicotomia come forse pochi registi erano riusciti sino ad oggi a fare: pubblico e privato, guardia e ladro, uomo e personaggio… il film è costruito su uno schema quasi geometrico per tutte le contrapposizioni che mette in campo, ma queste alla fin fine sono unicamente strumentali all’esplorazione della zona intermedia che divide gli opposti e che regala gli slanci più lirici e sorprendenti del film. Ad esempio in quella sequenza stupendamente e puramente cinematografica in cui Dillinger visita il centro nevralgico delle indagini, quell’ufficio dei Federali dove nessuno lo riconosce e che Mann esplora con lui, in una sospensione onirica di rara forza espressiva.

D’altronde è lo stesso momento, nel film, in cui si ha quasi la sensazione che la storia possa deviare dal suo percorso scritto e che Johnny possa realmente risorgere dalle sue ceneri, dopo l’arresto e la consapevolezza di essere ormai inviso a un sistema criminale contiguo a quello legale: un nuovo colpo è in programma, l’unione con Billie è ancora salda, forse non tutto è perduto, l’icona pubblica ha ancora una sua incorporeità che è quella dell’uomo comune, che non riconosci per la strada o nei luoghi pubblici dove pure è l’unico a non voltare la testa, godendosi il suo essere contemporaneamente il fulcro della scena, ma anche l’elemento di sfondo, praticamente invisibile.

La dicotomia classica fra la guardia e il ladro diventa così residuale, sebbene veicolo di potenza espressiva grazie all’attenta calibratura degli elementi, fra una banda di “nemici” che, eccezion fatta per lo stesso Dillinger ovviamente, contempla elementi non troppo carismatici, preoccupati di mascherarsi da rappresentanti di calzature e di passare inosservati; e un gruppo di poliziotti ruvidi e alla bisogna violenti, ma che trovano nell’incedere inquieto e inquietante di un Christian Bale al massimo delle sue capacità espressive il loro fulcro. Anche qui Mann lavora di increspature, mostrando un altro personaggio pubblico, il cui lavoro deve legittimare la nascita dell’FBI e perciò non ammette errori, ma è pure viziato dall’inesperienza.

A fronte di un Dillinger eroe e dannato, perciò, Melvin Purvis è un personaggio meno trasparente, è il Dottor Jekyll che rivela le sue incoerenze davanti a Mister Hyde: non è un caso se, diversamente da Johnny, avrà bisogno di ricorrere all’inganno e al tradimento per fermare il nemico. Purvis dimostra così una contiguità con quel perverso ingranaggio di potere e illeciti che domina tanto l’apparato statale quanto quello criminale.

Si realizza in questo modo un particolare rovesciamento dei presupposti canonici del genere, che si pone al contempo in continuità e in disaccordo con il ritratto sociale veicolato dal precedente Miami Vice: i criminali glamour che si recano a Cuba per un drink e conducono una vita di lussi sono più vicini al desueto gangster romantico o al cinico poliziotto, pronto a tutto pur di vincere la sua battaglia e regalare in tal modo prestigio al Bureau? Mann apre la voragine, ma poi si ritrae per stare accanto ai personaggi, secondo un’ottica del suggerimento che è straordinariamente classica, sebbene iscritta in un film modernissimo. Resta dunque soltanto il piacere del lasciarsi andare al piacere della visione, lungo un racconto denso ed elegante, che trova il suo picco visivo nell’incredibile sequenza di caccia all’uomo condotta nei boschi, dove Mann mette in scena la più alta delle sue (non) dicotomie: una serrata sequenza di spari, dove l’enfasi è affidata unicamente all’impasto di luci che, come flash improvvisi, rompono il buio della notte. Non c’è musica, i dialoghi sono all’osso, i movimenti di macchina sono convulsi, sembra quasi di essere di fronte a un horror, magari a un Real-Movie stile Cloverfield o Blair Witch Project. Ma siamo “soltanto” di fronte a un moderno capolavoro del cinema.

Nemico pubblico
(Public Enemies)
Regia: Michael Mann
Sceneggiatura: Ronan Bennett, Michael Mann e Ann Biderman (dal libro di Bryan Burrough)
Origine: Usa, 2009
Durata: 140’

Intervista a Michael Mann
Sito ufficiale italiano
Sito ufficiale americano
Sito ufficiale di John Dillinger (in inglese)
John Dillinger su Wikipedia
I trailer del film

sabato 28 novembre 2009

Il rifugio

Il rifugio

Dopo la morte del compagno Louis per overdose, Mousse si ritrova sola e in attesa di un figlio: la famiglia del compagno vorrebbe che abortisse, ma lei preferisce ritirarsi in una casa vicino al mare dove affrontare la sua gravidanza in silenzio. Qui la raggiunge Paul, il fratello omosessuale di Louis, per trascorrere alcuni giorni insieme. E’ l’inizio di un impossibile  legame di coesistenza/corteggiamento destinato a incidere sul destino del nascituro.

E’ singolare che un cinema designato a dividere estimatori e detrattori, come quello di Francois Ozon, ci parli così spesso di divisioni o di progressivi avvicinamenti fra universi tra loro distanti. Il rifugio del titolo, in fondo, non è soltanto quello di chi decide di astrarsi dal mondo, ma anzi l’unità di misura che marca proprio la distanza fra i mondi. L’intento è dichiarato fin dal doloroso incipit, in cui vediamo Mousse e Louis prostrati dalla tossicodipendenza, ma ancora decisi a iniettarsi l’ultima dose letale: le braccia sono ormai tumefatte, ma l’astinenza è implacabile e il ragazzo decide di iniettarsi la dose direttamente in una vena giugulare, consegnandosi così alla morte. Oltre alla durezza della scena, ritratta peraltro senza compiacimenti sadici, ma allo stesso tempo senza glissare sui dettagli, colpisce la condizione dei due, felici del loro status di rifugiati in un appartamento che sa tanto di prigione dorata: sembra quasi di vedere i Dreamers di Bertolucci, ormai cresciuti e delusi da un mondo che preferiscono continuare a lasciare fuori per abbandonarsi all’estasi fittizia di un sentimento che si sublima nel consumo di droghe. E’ una visione che fa male, ma è necessaria a rimarcare una distanza.

Louis d’altronde è di famiglia ricca e proprio la sua famiglia, dopo la morte, vorrebbe preservare la “purezza” del lignaggio attraverso l’aborto: eliminare quindi il frutto di quella relazione che potrebbe creare un legame, in modo da abbattere così la distanza con Mousse. Ma la ragazza decide di far da sé. Qui il discorso si ispessisce, perché Ozon gioca la sua strategia sul corpo della protagonista: il disagio si estrinseca infatti in una sorta di consapevolezza che Mousse dimostra in quando donna il cui corpo suscita sensazioni in chi le sta vicino, fatto che naturalmente riduce la distanza che lei stessa vorrebbe invece rimarcare attraverso l’isolamento. Il registro espressivo è inoltre doppio perché la dinamica si articola anche nel rapporto fra l’immagine dell’attrice Isabelle Carré (realmente incinta) e lo spettatore: è un’immagine di maternità florida, radiosa che sopravanza le rughe che pure il volto non cela. E’ una bellezza reale e intensa, distante dalla patinatura spesso veicolata dall’industria delle immagini, ma importante a livello espressivo per il desiderio che suscita, tanto negli uomini che nelle donne.

Ecco dunque che, durante il suo isolamento, Mousse pure viene in contatto con una serie di personaggi che la ricercano in quanto donna incinta: una ragazza ammaliata dalla sua immagine radiosa e che le si avvicina con insistenza, un uomo che le chiede un rapporto sessuale poiché eccitato dalla fantasia di possedere una donna gravida… in qualsiasi momento il mondo intorno a Mousse sembra tentare di rompere il velo di isolamento: persino in discoteca un ragazzo con cui la donna tenta un fugace flirt subito le tocca il ventre, suscitando in lei disagio. Il ventre gonfio della vita che sta nascendo è quindi l’autentico tramite di Mousse con il mondo esterno, ma anche l’unità di misura del suo disagio, l’elemento che la caratterizza ma al contempo la rende aliena.

Il rapporto con Paul diventa quindi l’unico possibile, in virtù dell’omosessualità del ragazzo, che allontana qualsiasi possibilità di un coinvolgimento amoroso: l’intesa fra i due è infatti ideale ma non fisica e Paul è l’unico che non vede Mousse come un corpo, tanto che nel momento in cui la sua mano si posa sul suo ventre per spalmare la crema solare, il ragazzo prova disagio. Per la prima volta l’incertezza si manifesta quindi nell’interlocutore e non in Mousse, che anzi si ritrova a dover tranquillizzare Paul. I ruoli si invertono, ma allo stesso tempo questo momento è fondamentale perché finalmente rompe la distanza e rende Mousse non più un personaggio isolato, ma anzi in sinergia con l’esterno.

L’interazione fra Paul e Mousse, connotata come una sorta di corteggiamento asessuato in virtù della forte fisicità che entrambi i personaggi naturalmente manifestano, può dunque rompere il velo del disagio e arrivare a un rapporto fisico che appare più di una espressione di sessualità: è un momento di comunione fra due personaggi che si sono avvicinati. Qui Ozon sembra suggellare la fine della famiglia tradizionale in favore di un modello alternativo che non si basi sulle modalità canoniche, ma esclusivamente sulla capacità dei singoli di costruire un’interazione.

Ma il momento diventa anche un passaggio di consegne, propedeutico al finale in cui Mousse lascerà a Paul suo figlio: il gesto ha il doppio valore di donazione del sé a una persona con cui il legame continua anche a distanza, ma anche come rinnovarsi di quel disagio che rende naturalmente Mousse una persona incapace di normalizzare la sua esistenza e che quindi deve riconsegnarsi all’oblio. D’altronde l’intera gravidanza è vissuta nel segno di una precarietà sintetizzata dalle dosi di metadone che la donna deve assumere per non cadere in crisi d’astinenza (retaggio della sua condizione di tossicodipendente).

Il tema caro al regista viene quindi sviluppato secondo una direttrice più fisica che cerebrale, articolata attraverso una grande sinergia con gli attori, capaci di esprimere più con piccoli gesti che con le parole, tanto da costruire un tono quasi rarefatto e vagamente irreale (che ha attirato al film accuse di freddezza). Il film è stato presentato in anteprima italiana al Torino Film Festival 2009.

Le refuge
Regia: Francois Ozon
Sceneggiatura: Mathieu Hippeau e François Ozon
Origine: Francia, 2009
Durata: 88’

giovedì 26 novembre 2009

Pusher: La trilogia

Pusher: La trilogia

La parabola artistica di Nicolas Winding Refn per certi versi ricorda quella dei grandi autori hollywoodiani degli anni Settanta, intenzionati a rompere gli schemi e poi spesso costretti a lottare contro un mercato che, dopo averli incensati, volta loro le spalle. Ma con una differenza sostanziale: Refn ha usato questo cambiamento per dare forma a un progetto che oggi appare straordinariamente compiuto in sé e capace di riassumere tutta la prima parte della filmografia dell’autore danese.

I fatti sono noti: studente ribelle negli Stati Uniti e deciso a far da sé, Refn sfrutta un finanziamento ottenuto insperatamente in Danimarca per girare un noir nichilista che fa muovere paragoni con il primo Scorsese e che diventa il più grande successo commerciale della storia del cinema danese. Pusher esce nel 1996 e letteralmente “inventa” un microcosmo di varia umanità che ruota attorno al protagonista Frank, uno spacciatore di piccolo calibro che si trova per le mani un colpo in grado di cambiargli la vita, che però si conclude nel peggiore dei modi, con l’arresto e la necessità di sbarazzarsi della “roba”. Di qui inizia l’odissea nel vano tentativo di trovare i soldi per pagare il fornitore Milo. In sé la trama non sarebbe nemmeno così originale: oltre a Scorsese un paragone gustoso che si può muovere è anche con l’Amir Naderi di Manhattan by Numbers, ma senza la trasfigurazione quasi metafisica, quella che curiosamente caratterizzerà però i più recenti lavori di Refn: Pusher infatti è sporco e diretto, girato in larga parte con la macchina a mano (particolarmente prediletta da Refn) e ha il merito di indagare la realtà che racconta senza emettere giudizi, sviluppando una sorta di empatia con i protagonisti e il loro universo degradato.

Certo, all’epoca doveva essere un bel pugno nello stomaco il ritratto di questa Copenaghen così poco accomodante ed esplorata nei suoi angoli meno noti e più sordidi, ma oggi il film appare per certi aspetti un po’ troppo attento alla strutturazione di genere, a scapito dei personaggi (e infatti la sensazione è che spesso sia il grande carisma degli attori ad apportare quella compattezza che manca alla storia per renderla davvero reale e penetrante). Nulla comunque di cui scandalizzarsi, anche perché la cinefilia è un altro dei tratti fondamentali di Refn, che però è attento a non farla mai precipitare nel semplice citazionismo: non a caso nei film successivi essa diventerà invece un elemento utile a riflettere i limiti e le caratteristiche dei suoi protagonisti, per elevarli a un livello mitico. D’altronde, uno degli aspetti che Refn ci tiene a precisare spesso nelle interviste è la sua natura di artista, viziato però da una serie di limiti (dislessia, daltonismo, incapacità di manipolare praticamente la materia) che trovano quindi nell’elaborazione visiva una possibilità di creazione e creatività a lui congeniale. Che si sia dunque di fronte a un autore in crescita e, soprattutto, consapevole della portata teorica insita naturalmente nell’atto della creazione cinematografica è indubbio, ma nella trilogia di Pusher tutto corre ancora sottotraccia e si estrinseca principalmente nell’iconica sequenza dei titoli di testa, dove vengono presentati i personaggi, rimarcando la loro qualifica di attori della tragedia che da lì in poi si andrà a sviluppare.

Pusher II arriva nel 2004, all’indomani dell’insuccesso commerciale del pur ottimo Fear X e quindi appare contaminato dall’incertezza che il regista attraversa: gli serve un successo in grado di fargli rialzare la testa e questo rende il film più franto del primo, aperto a svirgolature liriche che si concretizzano nel bel finale (sospeso come quelli di tutti i capitoli della saga). Inoltre qui emerge più chiara la cifra stilistica della serie, che forgia una struttura a scatole cinesi dove i film, più che rincorrersi secondo una linearità cronologica, si intrecciano fra loro, inquadrando la realtà danese attraverso gli occhi di protagonisti differenti. Ecco dunque che Frank scompare dalla scena e il ruolo principale viene assunto da Tonny (lo straordinario Mads Mikkelsen, attore feticcio di Refn, visto anche in Casinò Royale di Martin Campbell), delinquente goffo e spiantato, tossico e impotente, alle prese con un padre che lo disprezza e una serie di scelte difficili e di responsabilità enormi, con in testa la nascita inaspettata (e non voluta) di una figlia. Si arriva quindi a un eccezionale livello di intimità con i personaggi attraverso la giustapposizione di sequenze in cui vediamo Tonny rubare auto e sniffare coca, e altre in cui lo seguiamo mentre è intento a cambiare i pannolini alla piccola! L’aspetto più interessante sta, insomma, nello scoprire il livello di disagio pure presente in quello che appariva nel primo film come uno dei personaggi più organici allo squallore dell’universo della tossicodipendenza. Il tono diventa quindi più cupo perché la concomitanza di ironia e violenza non fa altro che esaltare il gusto del paradosso per una comunità che viaggia costantemente sul filo del pericolo e dell’autodistruzione. Lo stile visivo nel contempo si affina, mantenendo la ruvidezza dell’esordio, ma aggiungendo una qualità spesso pittorica nell’uso della fotografia, con particolare evidenza nell’uso “sparato” e per questo impressionista dei rossi.

Con Pusher III, realizzato nel 2005 immediatamente dopo il secondo, si raggiunge con tutta evidenza il punto di maturazione stilistica dell’intera saga, all’interno del quale Refn sintetizza la sua visione e chiude la sua parentesi noir. Protagonista stavolta è Milo (l’ottimo Zlatko Buric, attualmente nelle sale in 2012, di Roland Emmerich), ovvero il fornitore serbo al quale Frank doveva restituire i soldi nel primo capitolo. Si tratta peraltro dell’unico personaggio ad apparire in tutti e tre i film, una sorta di curioso demiurgo che tiene le fila del mercato della droga a Copenaghen, anche se ufficialmente il suo lavoro è quello di gestore di una trattoria. Ma stavolta è un Milo diverso, che partecipa ai gruppi d’ascolto contro la tossicodipendenza e vuole preparare la festa di compleanno alla figlia. Di tempo ne è passato dal primo Pusher e Refn è consapevole che un cambiamento è in atto, tanto da spingere il personaggio più forte e sicuro di sé della saga in un vortice di disperazione che riverbera la caducità del potere criminale e la natura tragica della trilogia, i cui protagonisti vengono sempre progressivamente stritolati dall’ambiente nel quale si muovono: Milo diventa quindi vittima di una nuova generazione di fornitori albanesi, che intendono dominare il mercato della droga danese e approfittano di un credito maturato nei suoi confronti per costringerlo nel ruolo del servitore durante la squallida vendita di una minorenne al mercato della prostituzione. La reazione è tanto umana quanto fulminante e affonda nel sangue in un finale estremo e difficilmente dimenticabile! L'unico approdo possibile per questa umanità così fragile è dunque la piena violazione del corpo (atto di distruzione e rinascita insieme), scelta che per certi versi sembra chiudere il cerchio con quel cinema degli anni Settanta cui Refn è affine, come si ricordava in apertura: il risultato, in ogni caso, è un capitolo finale che si staglia come un capolavoro, oltre che come l’episodio più devastante dell’intera trilogia.

Sebbene ci sia stata una fugace edizione DVD del primo capitolo, i Pusher risultano di fatto sostanzialmente inediti in Italia: riscoperti da poco grazie alla bella personale dedicata all’autore dal Torino Film Festival, potrebbero prossimamente essere trasmessi da RaiSat colmando in questo modo un colpevole vuoto della nostra distribuzione. Incrociamo le dita!

La Copenaghen violenta di Nicolas Winding Refn
Nicolas Winding Refn al Torino Film Festival 2009 (video)
Articolo sulla trilogia di Pusher
The Pusher Trilogy trailer

lunedì 23 novembre 2009

Torino 27: il ritorno

Torino 27: il ritorno

E’ andata bene, ed è un sollievo scriverlo. Gianni Amelio e la sua squadra hanno fatto un buon lavoro cercando non di cambiare quanto di riequilibrare. A festival terminato si può infatti considerare la 27a edizione del TFF un interessante work-in-progress verso una forma al passo non tanto con i tempi (che sono quelli che sono…), ma soprattutto con la storia e la tradizione di questo fondamentale appuntamento cinefilo.

Sembra che finalmente, insomma, ci si sia posto il problema di non personalizzare la manifestazione sulle idiosincrasie del direttore di turno, che ha invece lavorato di concerto con la sua squadra come un filtro, attraverso il quale far passare un sentire variegato, in modo da dare espressione alle più diverse manifestazioni cinematografiche.

In questo senso facciamo nostre le parole di Dario Zonta, che, nel commentare il premio andato al bravo Pietro Marcello per il suo La bocca del lupo, ha giustamente rimarcato l’importanza di inserire nella selezione ufficiale un titolo così distante dai formati canonici: un atipico ritratto della città di Genova, fra filmati di repertorio e contemporaneità, visto attraverso i racconti di vita di due personaggi borderline, Enzo e Mary, innamoratisi in carcere. Un lavoro caratterizzato da una forma di lirismo capace di farsi immediatamente narrazione empatica e quindi emotiva, antitetica ai canoni del genere documentario in cui pure l’opera si può ricondurre. E tutto questo peraltro in soli 67 minuti di durata (impossibile pensare a un eventuale passaggio televisivo…)! Un film che sarà distribuito anche nelle sale italiane da BIM.

Lasciamo quindi da parte i (per fortuna pochi) piagnistei di chi invocava più glamour, e anche gli inopportuni trionfalismi incentrati principalmente sulle cifre dei “tutto esaurito”, ma anche le seriosità di chi invece rivendicava il rigore come cifra fondamentale della kermesse: Torino è qualcosa di più, e meno male. E’ la possibilità di pensare che il cinema possa ancora costituire un polo attrattivo a prescindere dal nome e dai pruriti del politico di turno: questa attitudine è l’unica capace di rendere un evento culturale importante e bello da seguire, prezioso anche quando finisca per mancare il capolavoro. Ecco dunque che il concorso ha ritrovato una centralità altrimenti dimenticata, grazie a una intelligente razionalizzazione del programma, in passato sparso in una struttura a ragnatela che creava soltanto confusione.

Certo, non eccediamo in trionfalismi: c’è ancora del lavoro da fare per trovare il giusto equilibrio fra visibilità e offerta. La sezione Festa Mobile, pure pregna di titoli interessanti, ha riunito molti degli spazi collaterali del passato (fuori concorso, omaggi ai maestri), ma è apparsa come un corpo-monstre all’interno del Festival e ha un po’ fagocitato il resto. Il riferimento non è tanto alle retrospettive che, storicamente, costituiscono una piccola “riserva” dai contorni ben delimitati e che il pubblico sa riconoscere e amare facilmente, ma alle sezioni Onde e Figli e amanti. La prima, dedicata al cinema sperimentale, nonostante un programma di altissima qualità è apparsa infatti sacrificata da una programmazione poco penetrante, con orari non sempre agevoli, spesso in contrapposizione ad eventi di larga portata: spiace ad esempio che un gioiello come Un sourir malicieux, di Christelle Lheureux, eccezionale rilettura/ripensamento de Gli uccelli di Sir Alfred Hitchcock sia stato lanciato contro la serata-evento che ha visto il sommo Francis Ford Coppola presentare la versione restaurata di Scarpette rosse. E che in generale la bellissima idea dell’Hitchcock Day non abbia avuto la centralità che meritava. Ed è solo un esempio.

I titoli culto dei registi italiani, protagonisti della sezione Figli e amanti, sono anche apparsi sacrificati, smorzando l’interessante ripensamento di quella che l’anno scorso era (seppur con una formula diversa) una delle proposte più esaltanti del festival.

Comunque la direzione tracciata è quella giusta, meno scanzonata e più ragionata rispetto a una decina d’anni fa, e in cerca di un baricentro che possiamo fiduciosamente sperare verrà trovato nei prossimi anni. Intanto ci portiamo dentro il piacere dell’aggregazione che genera il culto (ad esempio per l’esaltante personale di Nicolas Winding Refn), ma soprattutto della scoperta, con una serie di titoli che troveranno spazio nei prossimi articoli del Nido. C’è tanto buon cinema in giro e appuntamenti come questo servono a ricordarcelo, mentre il mondo “di fuori” dedica troppa attenzione a prodotti che non lo meriterebbero. La cinefilia, in fondo, è militanza e diventa in sé atto critico che porta a far conoscere e amare il cinema: è stato proprio Torino a enunciarlo anni fa (allora il direttore era Stefano Della Casa) e oggi siamo lieti che sia stato ancora Torino a ricordarcelo.

Torino 27 – I film che trovano distribuzione

mercoledì 11 novembre 2009

Torino 2009

Torino 2009

Il video postato questa settimana (e che rimarrà anche la prossima) nello spazio Visioni dalla Rete è stato realizzato in occasione dei giochi olimpici invernali 2006, ma si adatta bene anche al nostro caso, poiché dal 13 al 21 novembre Torino ridiventerà davvero il centro del mondo! Lo sarà per tutti gli appassionati di cinema, ovviamente, e quindi per chi, come noi, ha incentrato i suoi interessi sulla settima arte: una nuova edizione del Torino Film Festival va a cominciare e stavolta le premesse sono oltremodo allettanti!

Finita la grigia e seriosa era morettiana che tanta fortuna commerciale aveva portato, ma che aveva anche rischiato di compromettere l’informalità e quella particolare eterogeneità, anche bulimica, dell’offerta, il festival già sulla carta sembra essersi liberato. A scorrere i titoli del programma-monstre messo insieme dal nuovo direttore Gianni Amelio insieme ai suoi collaboratori, sembra infatti di essere tornati ai tempi in cui il festival era nelle mani di Stefano Della Casa, Giulia D’Agnolo Vallan e Roberto Turigliatto… quando i disagi erano sicuramente tanti a causa di un parterre di titoli fra i quali la scelta era davvero improba, ma che permetteva allo stesso tempo di immergersi nello spazio amico di registi tanto amati e anche di fare nuove e incredibili scoperte!

E su questo punto Amelio la sua differenza l’ha già marcata, quando ha spiegato che rispetto a Moretti “Sono un po’ più aperto verso quello che non mi piace, non faccio il direttore di Festival come se facessi il regista di un mio film” e ribadendo la necessità di una “generosità dello sguardo” di cui il festival sentiva il bisogno.

Spazio dunque a due formidabili retrospettive dedicate al grande classico del cinema americano Nicholas Ray e al maestro del cinema giapponese Nagisa Oshima. In mezzo piccoli omaggi ad autori come Kusturica e al Sommo Francis Ford Coppola, ma anche al talento emergente dell’ottimo Nicholas Winding Refn. E poi il concorso lungometraggi dal quale si spera arrivino le novità, mentre la sezione La Zona viene ribattezzata “Onde”, ma ha sempre in Massimo Causo l’uomo guida per la scoperta delle tendenze del cinema sperimentale: da qui arrivano proposte ghiottissime come i Ga-nime, ovvero la nuova “invenzione” della Toei Animation sul formato del cortometraggio, e l’Hitchcock Day!

Appuntamento sotto la Mole insomma, con un rinnovato entusiasmo che speriamo trovi il suo naturale appagamento nella visione!

Il sito del Torino Film Festival

Collegati:
Torino 2008
Torino Film Festival: The Day After

martedì 10 novembre 2009

L’uomo che fissa le capre

L’uomo che fissa le capre

Il giornalista Bob Wilton decide di andare in Iraq dopo essere stato mollato dalla moglie e in questo modo conosce Lyn Cassidy, ultimo esponente dell’ormai smobilitato Esercito Nuova Terra, formato da soldati addestrati all’uso dei poteri psichici, con cui cambiare il corso degli eventi bellici in modo non violento. Ora Cassidy sta tentando di ritrovare Bill Django, fondatore dell’innovativo corpo speciale dell’esercito, e Bob, curioso rispetto agli eventi, lo accompagna, ritrovandosi così coinvolto in una girandola di situazioni surreali.

“Ora più che mai c’è bisogno dei Jedi!”. La frase ha un effetto immediato per come riesce a contestualizzare la doppia direttrice su cui si muove il film, ovvero quella più squisitamente cinefila, ma anche quella che permette alla forza (la Forza) benefica del cinema di affondare nei malesseri di una realtà che ha bisogno di punti di riferimento. Facile dunque vedere L’uomo che fissa le capre come una sorta di moderna rivisitazione della cifra grottesca che aveva reso grande un M.A.S.H. e che dunque punta all’irrisione della guerra attraverso la messa in evidenza della sua assurdità: materiale in questo senso non manca, con in testa i militari americani che si sparano addosso l’un l’altro poiché convinti di essere sotto attacco nemico!

D’altronde se davanti e dietro la macchina da presa c’è un autentico liberal come George Clooney (attore e produttore insieme al socio Grant Heslov, che qui debutta come regista) il sospetto di una voglia di rinnovare il cinema di genere più impegnato è ben legittima: ma soprattutto è importante tenere presente la figura dell’attore americano per permettere alla materia di scivolare dentro e fuori i riferimenti più problematici, dando al tutto una natura ondivaga che ne impedisca il facile imbrigliamento in schemi poco opportuni. Se, infatti, Clooney è anche un corpo coeniano, tanto da rimandare alla bizzarria dei registi di Fratello dove sei?, il film rifugge fortunatamente quel macchiettismo spesso autoreferenziale dei due autori citati, per non perdere mai di vista una dimensione morale che riconduce sempre tutto alla Storia e alla società dell’America (tema, questo sì, squisitamente ascrivibile a tanto cinema di Clooney regista, produttore e interprete).

Pertanto, il viaggio di Bob e Lyn è anche un viaggio nell’evoluzione di un modo di guardare il mondo che dal pacifismo dei Settanta è infine giunto all’aberrazione della dottrina guerrafondaia di George Bush: l’esercito Nuova Terra, dunque, diventa non soltanto un tentativo di ridere della guerra per mostrarne la fragilità concettuale, ma anche, e soprattutto, l’espressione di una volontà coraggiosa che intende fondare una nuova mitologia del soldato, refrattario alla violenza e disposto a operare per il Bene comune. Ciò che dunque il film ci racconta è il tentativo, post Vietnam, realmente portato avanti dall’America (una parte almeno...), di reinventarsi come forza non belligerante ma intenta a cercare nuove strade, salvo poi ripiombare improvvisamente (e senza l’alibi del terrorismo, che nel film è pressoché assente) nella follia della violenza. Perché l’unica autentica rivoluzione che il pacifismo può ancora combattere è unicamente quella culturale: il parallelo con i Jedi è dunque fondante se consideriamo che l’ordine guerriero lucasiano è formato da Custodi della Pace e non da soldati. Il conflitto fra il Lato Chiaro e quello Oscuro è pertanto quello sul confine che porta la difesa della Pace a diventare strumento di guerra e la persuasione psichica votata alla non violenza a mutare in arma assassina che uccide le creature inermi.

Il tutto trova la sua forma attraverso una classica dicotomia fra due personaggi stralunati che incarnano una gioiosa follia, ma anche una curiosità comune per eventi straordinari in grado di ridefinire il rapporto con la speranza: il film, in questo senso, non scioglie l’ambiguità circa la possibile veridicità dell’esercito Nuova Terra fino all’ultima inquadratura, lasciando alla narrazione il compito di affastellare eventi attraverso una serie di flashback che rivelano la storia del corpo speciale. La figura iconica del sempre grandissimo Jeff Bridges unisce così la tensione spirituale dello Starman carpenteriano con l’ironia lisergica del Grande Lebowski, mentre la presenza di Ewan McGregor costituisce il tramite ideale con la saga di Star Wars. Tutti segni cinefili indispensabili per tracciare il percorso lungo cui muovere la storia.

La natura ondivaga del progetto permette quindi alla vicenda narrata di unire insieme una grande forza d’animo, capace di veicolare un messaggio costruttivo, ma anche una forte dose di malinconia per le speranze deluse che hanno lasciato il campo a un nichilismo più disperato. Il percorso, in fondo, è davvero quello di un Jedi che deve combattere la sua battaglia, ignorando la paura e perseguendo il proprio obiettivo. In questo senso L’uomo che fissa le capre è un film che merita di essere amato e seguito, come un monito, ma anche come un raro barlume di speranza in un’epoca che sembra aver perso il senso delle cose e ha persino deprivato i vecchi feticci di ogni carica ancestrale. E’ dunque un film che rimette in circolo idee, ricordi, emozioni e, naturalmente, tanto cinema! Sta a noi portarlo meritatamente in trionfo.

L’uomo che fissa le capre
(The Man Who Stare at Goats)
Regia: Grant Heslow
Sceneggiatura: Peter Straughan, dal romanzo "Capre di guerra", di Jon Ronson
Origine: Usa, 2009
Durata: 93’

Grant Heslov, George Clooney e Ewan McGregor sul film
Sito ufficiale americano
Sito in italiano

mercoledì 4 novembre 2009

The Human Centipede (First Sequence)

The Human Centipede (First Sequence)
 
Due ragazze americane, Lindsey e Jenny, sono in vacanza in Germania dove restano in panne con l’auto. In cerca di soccorso, si ritrovano nella casa dell’austero Dr. Heiter, che, alla prima occasione, le immobilizza per farne le cavie del suo nuovo esperimento. L’uomo, infatti, è un chirurgo specializzato nella separazione dei gemelli siamesi, ma ora intende dare seguito a una nuova creatura che unisca invece di dividere. Dopo aver catturato anche un giovane ragazzo giapponese, Heiter dà quindi il via all’operazione per creare un “millepiedi umano”, attraverso l’unione chirurgica dei corpi lungo la direttrice bocca-orifizio anale.

La visione di Human Centipede, meritato vincitore del Ravenna Nightmare Film Fest 2009, arriva come ultimo atto di un processo preparatorio che aveva visto il film assurgere preventivamente all’olimpo del culto. Atteso e invocato per la bizzarria estrema della sua idea, il film spunta come un corpo apparentemente anomalo nel curriculum del regista Tom Six, proveniente dalla televisione e già director dell’originale Grande Fratello olandese. Non si potrebbe pensare, dunque, a una persona più integrata con il sistema audiovisivo mainstream di questo folle mitteleuropeo che invece stupisce tutti dando fondo alla sua insospettabile passione per il cinema di Takashi Miike, mettendo in scena un’idea nata dichiaratamente come scherzo durante una discussione tra amici.

Questo aspetto istantaneo si riverbera inevitabilmente in una storia che, sul versante narrativo, si esaurisce unicamente nella messinscena dell’idea, secondo una dinamica che in altre mani aveva in passato prodotto risultati modesti (basti pensare all’Eli Roth del primo Hostel), ma che qui si rivela straordinariamente funzionale agli intenti. Il film, infatti, si concentra sul dolore dei malcapitati protagonisti, costretti a subire l’umiliante tortura dell’operazione ideata dal folle dr. Heiter: lo scienziato domina al contempo la scena attraverso la felice caratterizzazione fornita dall’attore Dieter Laser, sorta di moderno epigono spettrale del Caligari di Conrad Veidt, ibridato con il gigionismo del Christopher Walken più cattivo. D’altronde che il film riverberi la sua sostanza cinefila è indubbio, anche se poi cerca un approdo nel reale, sia attraverso una (forse anche pretestuosa considerando che l’operazione avviene in fuori campo) “accuratezza chirurgica”, sia attraverso un discorso più complesso sul tema dell’incomunicabilità.

Ecco, l’aspetto più interessante del film non sta soltanto nella natura scioccante di una storia che indugia in una perversione di rara forza emotiva, ma nel modo in cui la stessa si eleva a livello metaforico, riuscendo nel contempo anche a diventare filtro di storie già raccontate: ci sono echi di Frankenstein, dell’espressionismo tedesco e, per l’appunto, del body horror giapponese (oltre a quello cronenberghiano), che rimandano inevitabilmente agli orrori del nazismo, agli esperimenti di Mengele e, in generale, a tutto il sottofilone della provincia che diventa nido di insospettabili orrori.

Il collante fra questi aspetti tra loro apparentemente difformi sta tutto nella metafora dell’incomunicabilità che il film riverbera sin dal principio attraverso la compresenza di personaggi provenienti da differenti realtà (America, Germania, Giappone). Già quando le ragazze restano in panne le vediamo subire le molestie di un passante senza che loro inizialmente ne capiscano le intenzioni perché distratte da una lingua che non comprendono. Allo stesso tempo l’unico dei tre malcapitati che non vede la sua bocca unita chirurgicamente alle terga del compagno è il ragazzo giapponese, che si ritrova in testa e che però non parla la stessa lingua di Heiter. E anche quando la sua confessione finale lo porterà a invocare il perdono per le sue colpe, la sua resterà una considerazione non compresa, destinata a perdersi. 

Il film dà quindi forma a una cacofonia di suoni con i lamenti di dolore delle vittime che divengono autentico leit-motiv sonoro della storia, in opposizione alle risate mefistofeliche dello scienziato e questa contrapposizione fra l’insostenibilità della tortura e la cifra assolutamente grottesca dell’esperimento permette al film di viaggiare sul doppio binario del drammatico e del comico. Non a caso lo stesso Six ha rivelato a Ravenna che il film suscita reazioni opposte a seconda del tipo di pubblico cui viene mostrato, è divertente per alcuni e rappresenta un autentico pugno nello stomaco per altri (fra i quali il sottoscritto).

Ad ogni modo l’unione fisica fra i protagonisti diventa metaforico contrappasso all’incomunicabilità del loro status di stranieri in terra straniera e, ovviamente, di personaggi egoisti che subiscono per questo la loro simbolica punizione. La surrettizia unione corporale diventa quindi l’unico modo possibile per una comunicazione che ormai, smarrito ogni precetto morale, è diventata esclusivamente fisica, con le feci che si volgono a nutrimento in una sorta di assurda rivisitazione della teoria dei vasi comunicanti. Un unico apparato digerente distribuito su tre corpi, dunque, che dice molto su come il corpo sia ancora il campo di battaglia prediletto dall’horror dopo i fasti splatter degli anni Ottanta. In ogni caso, di splatter qui ce n’è poco, Six preferisce suggerire più che mostrare, ma l’esito è ugualmente scioccante. D’altra parte è molto interessante anche la possibilità di spostare il precipitato teorico inquadrando anche l’unione dei corpi come critica all’autofagia di un genere che si nutre sempre di se stesso. 

Del film è anche in lavorazione un seguito che dovrebbe portare alla creazione di un millepiedi “completo” (Full Sequence) e che promette di essere molto più esplicito sul piano della violenza.

The Human Centipede (First Sequence)
Regia e Sceneggiatura: Tom Six
Origine: Olanda/Uk, 2009
Durata: 90’

mercoledì 28 ottobre 2009

Ravenna 2009

Ravenna 2009

E’ iniziata invece martedì, 27 ottobre, la settima edizione del Ravenna Nightmare Film Fest, che centra ancora una volta l’appuntamento di Halloween (si concluderà infatti proprio il 31 ottobre) per regalare un prezioso spaccato dell’horror cinematografico contemporaneo. Certo, a fronte dell’interesse che circonda il genere e che gli fa guadagnare persino ampi spazi sui maggiori quotidiani, va registrato quest’anno la contrazione più forte che l’offerta del festival abbia mai ricevuto: il programma, infatti, si incentra esclusivamente sul concorso lungometraggi e nei primi giorni l’appuntamento con le proiezioni è riservato unicamente alla sera, salvo poi esplodere nell'abbuffata del weekend (con ben 9 titoli su 13 totali). Niente cortometraggi e retrospettive, che pure erano fra gli spazi più gustosi del festival e questo spiace parecchio.

A tentare un coraggioso controbilanciamento c’è il fatto che tutti i film presentati sono in prima visione nazionale e fra i nomi coinvolti c’è persino Catherine Breillat con il suo Barbe Bleue. Ma sulla carta sembrano molto interessanti anche l’olandese The Human Centipede, di Tom Six e, sebbene si presti a molte critiche preventive per l’ardore di tentare una prosecuzione a un titolo che doveva restare unico, sicuramente suscita curiosità anche il Descent 2 di Jon Harris, seguito dell’ottimo capostipite di Neil Marshall. Peccato non aver recuperato a questo punto anche l’altro attesissimo sequel, ovvero il REC 2 della coppia Balaguerò/Plaza, nonostante il passaggio veneziano.

Speriamo insomma che valga la regola del “pochi ma buoni”, di sicuro l’appuntamento resta uno dei più interessanti, a fronte anche del numero sempre più ristretto di festival dedicati all’horror in Italia (quest’anno siamo rimasti orfani anche del PesarHorrorFest) e quindi merita di continuare a essere seguito con affetto e costanza.

Sito del Ravenna Nightmare Film Fest

Collegato:
Ravenna 2008

Lucca 2009

Lucca 2009

Inizia domani, 29 ottobre, l’edizione 2009 di Lucca Comics and Games, fiera del fumetto e dell’animazione: un anno fa la cittadina toscana teatro dell’evento fu letteralmente invasa da un impressionante afflusso di visitatori, creando non pochi problemi di vivibilità. Nel maggio del 2009 una cosa del genere si è ripetuta anche al Napoli Comicon. Il che, da un lato, è un segno evidente di come, a fronte della crisi che colpisce in modo progressivo e inesorabile il settore del cartaceo, appuntamenti come quello di Lucca siano sempre circondati da interesse e dalla forte sensazione che il pubblico ha di uno spazio ormai percepito come parte integrante della propria passione. Un evento che dunque si lega all’immaginario codificato dal fumetto e dall’animazione ma a sua volta se ne distanzia, come fatto autonomo e vivibile di per sé, come unicum destinato a chi presenzia sul posto.

Dall’altro lato, però, questo congestione rappresenta un problema che ormai si palesa e non va sottovalutato, a fronte di una città comunque troppo piccola e mal collegata per contenere un evento diventato ormai il principale in Italia per chi segue fumetto e animazione. Ci sono margini per migliorare la gestione di un appuntamento la cui portata non sembra essere ancora stata compresa da chi lo porta avanti?

In attesa che i fatti diano una risposta, l’edizione 2009 offre fra le tante, la presenza di due ospiti di altissimo rilievo come il grande disegnatore spagnolo Luis Royo (presso lo stand Rizzoli Lizard) e l’illustratrice giapponese Akemi Takada, character designer per serie animate come L’incantevole Creamy, Orange Road e Lamù (presso lo stand Yamato Video). E ancora Vittorio Giardino, i 40 anni di Alan Ford (e i 50 di carriera di Max Bunker), le mostre dedicate, fra gli altri, al gruppo giapponese delle CLAMP e all’illustratore fantasy Donato Granicola e l’evento su Ken il guerriero con la replica italiana del funerale di Raoul, pensato per il lancio del film La leggenda di Raoul, sequel de la Leggenda di Hokuto.

In chiusura segnalo i due esclusivi poster realizzati dagli artisti Rick Berry e Phil Hale, che tornano a lavorare insieme dieci anni dopo e che saranno anche fra gli ospiti della manifestazione. Uno lo potete vedere in questa pagina, per il secondo rimando al sito ufficiale della fiera con il calendario degli eventi.

Sito di Lucca Comics and Games

Collegato:
Lucca 2008

lunedì 26 ottobre 2009

L’invincibile Dendoh

L’invincibile Dendoh
 
La Terra, attaccata dall’impero meccanico dei Gulfer, è protetta dall’organizzazione Gear. Ad affrontare le bestie nemiche è Dendoh, un robot che sceglie come suoi piloti due ragazzini, Hokuto Kusanagi e Ginga Izumo. Il loro compito, oltre ad affrontare le varie battaglie, è anche quello di impadronirsi delle Armi Elettroniche, in grado di diventare le armi di Dendoh. Ben presto la battaglia apre inedite rivelazioni su Vega, vicecomandante della Gear, dietro la cui maschera si nasconde la madre di Hokuto. Non è tutto: la donna è infatti una delle poche superstiti del pianeta Alktos, assoggettato da Gulfer. Dallo stesso mondo proviene anche Arthea, fratello di Vega che l’impero meccanico ha condizionato spingendolo ad affrontare Dendoh con il robot gemello Ogre. I legami affettivi e il rapporto fra la Terra, Gulfer e Alktos diventeranno la posta in gioco e il segreto da comprendere per sconfiggere i nemici.

 
La fissità dei canoni che regolano il genere robotico nell’animazione giapponese sembra permettere una scarsa permeabilità del filone a influenze esterne, ma nell’ultimo decennio stiamo assistendo a interessanti tentativi di ibridazione tra format e storie tra loro differenti. Se ad esempio il remake di Gaiking mostra alcuni riferimenti precisi al clamoroso successo di Dragon Ball, una serie come L’invincibile Dendoh tenta di far proprio il tema delle creature digitali derivate dal filone portato al successo da serie come Pokémon o Digimon.
 
Tale scelta ha provocato alcuni snobismi nei confronti di quest’ottimo prodotto targato Sunrise, ma a una visione priva di pregiudizi il risultato si rivela convincente e geniale per come riesce a governare un elemento apparentemente fuori contesto senza snaturare eccessivamente il genere principale che, anzi, risulta guadagnarne e mostrare così evidenti segni di progressione. La fusione di elementi tra loro difformi avviene nel segno della coesistenza di opposti già rintracciabile nei caratteri dei due protagonisti: Hokuto Kusanagi, calmo e riflessivo, capace di ponderare ogni scelta anche con la giusta dose di freddezza e una maturità che farebbe invidia a ogni coetaneo (ma anche a molti adulti) appare infatti totalmente diverso dall’amico Ginga Izumo, passionale, istintivo e che non a caso dimostra una spiccata predilezione per le arti marziali. Mente e braccio, intelligenza e forza, insomma, per due eroi scelti dal destino e che devono, inevitabilmente imparare a convivere alla guida del robot.
 
Questo canone, peraltro, non è distante dai molti che abbiamo visto negli anni dare forma ai vari piloti dei giganti meccanici dell’animazione giapponese. Imparare a governare una macchina di tali dimensioni per affrontare una dura battaglia è infatti un chiaro racconto di formazione: la lotta è soprattutto contro le proprie debolezze e riecheggia quella molto più concreta che ogni giovane spettatore deve imparare quotidianamente ad affrontare contro le avversità, ma qui si lega a un concetto più ampio che investe direttamente i rapporti affettivi, in particolare l’amicizia, la fratellanza, ma anche il legame fra l’uomo e la natura e, ovviamente, l’amore.
 
Il rapporto che pertanto i due protagonisti stabiliscono con le Armi Elettroniche è di tipo squisitamente empatico, con le bestie virtuali che “cercano” determinate caratteristiche nel cuore dei loro padroni. Si crea pertanto un ponte fra l’idea del legame storicamente codificato fra l’uomo e il robot (con il pilota che “sente” sulla sua pelle i danni inferti al gigante meccanico) e l’empatia fra personaggi e mostri digitali alla base di serie come Pokémon e Digimon. In un certo senso, Dendoh diventa quindi tanto una evoluzione del filone robotico, quanto di quello dei mostri virtuali, ed entrambi i generi si ritrovano sul campo, affiancati nella battaglia.
 
Il resto lo fa una struttura da soap-opera che rimanda ovviamente ai fasti di Gundam, su cui peraltro lavoreranno successivamente i due creatori, ovvero il regista Mitsuo Fukuda e sua moglie, la sceneggiatrice Chiaki Morosawa (con Gundam Seed). Proprio alla saga del Mobile Suit si rifà poi l’uso espressivo dello split-screen, con le inquadrature a “finestra” che si aprono rivelando i piloti durante le scene di battaglia. Scelta espressiva pertinente, poiché riflette la volontà di “aprire” letteralmente un varco nella fissità dei canoni codificati dal genere robotico nella sua accezione più classica, ovvero quella creata da Go Nagai, cui rimanda la storia dei fratelli di Alktos, chiaro riferimento a Ufo Robot Goldrake.
 
In virtù della già evidenziata coesione affettiva fra i personaggi, la Gear finisce quindi per assumere non soltanto il ruolo di base operativa, ma anche quello di famiglia allargata dove si creano legami, sbocciano coppie (ad esempio fra il pilota Kirakuni e l’analista di dati Aiko), nascono nuove amicizie e si rivelano inaspettati segreti che arrivano a coinvolgere fin dentro l’alveo della famiglia reale. Ciò permette ai personaggi di riscattare l’apparente semplicità della storia e di essere sfaccettati e in grado di generare grande coinvolgimento: si resta pertanto catturati dal tormentato destino di Arthea, dal fascino e dal coraggio di Vega, dal triste destino di Subaru e dalla buffa caratterizzazione dei Gulfer pasticcioni Absolute, Gourmei e Witter. Le loro azioni sono calate in un contesto sicuramente scientificamente disinvolto, ma che guarda comunque alla realtà del pubblico contemporaneo, ai problemi e alle passioni dei più giovani (la scuola, Internet, gli idoli musicali), senza eccessiva furbizia.
 
Su tutto poi domina l’azione: incalzante, barocca, in un crescendo narrativo irresistibile che si giova della riconoscibilità iconica dei momenti topici (l’installazione dell’Arma Elettronica, l’Attacco Finale) e reitera gli stessi con convinzione, intercalando molto bene il tutto allo svolgimento della narrazione. Alla fine il risultato è estremamente spettacolare e offre un enorme divertimento con le battaglie, le tecniche e i comandi nuovamente urlati a squarciagola, lasciandoci con la convinzione che una storia semplice e memore del passato è riuscita a rinnovare i furori di un genere aggiornandoli al presente. Una serie molto sottovalutata e assolutamente da recuperare.

 
L’invincibile Dendoh
(Gear Senshi Dendoh/Gear Fighter Dendoh)
Regia generale: Mitsuo Fukuda
Sceneggiatura generale: Chiaki Morosawa
Origine: Giappone, 2000
Durata: 38 episodi