"C'è chi crede in dio o nel denaro. Io credo nel cinema, nel suo potere. L'ho scoperto da ragazzino, mi ha aiutato a fuggire da una realtà in cui ero infelice. È una delle forme d'arte più alte che l'uomo ha concepito. Credo nel suo futuro."
(John Carpenter)

venerdì 27 febbraio 2009

Fan-film: la magnifica ossessione

Fan-film: la magnifica ossessione

Il fenomeno dei fan-film, ovvero i lavori realizzati da appassionati per una distribuzione interna al circuito dei cultori (ma non solo), è uno dei più interessanti del moderno panorama indipendente: nasce come un gioco e a volte diventa terreno di coltura per possibili talenti, permette interessanti intrecci tematici con il cinema mainstream, e fornisce un interessante pretesto per riflettere su quanto ha fatto e continua a fare immaginario. A tale scopo il Nido inaugura una nuova etichetta dove, senza fissa periodicità, compariranno articoli riguardanti i lavori più interessanti del filone. Un doveroso prolungamento dell’analisi del fenomeno da me iniziata nel 2007 con l’apposito programma “Fandoom Generation” curato per la terza edizione del Taranto Film Festival (su alcuni dei film programmati in quell’occasione si tornerà peraltro in questa sede). A tale scopo riporto l’introduzione sul tema scritta per il catalogo generale.


A Roberto Del Giudice, Lupin III per sempre

Come un bubbone in attesa di esplodere, di trovare la forza di organizzarsi e manifestarsi al mondo: così potremmo descrivere l’esercito dei fans che da un trentennio a questa parte vivono le loro passioni con un’intensità tale da farci pensare che tutto sia stato finalizzato soltanto a questo momento, alla rivendicazione di un esserci, qui, nel nostro mondo sonnolento, per sfoggiare e diventare parte dei miti da così tanto tempo inseguiti. D’altronde l’origine di tutto è lì, in quel periodo temporale che fra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli Ottanta vede tanto il cinema quanto la televisione subire un radicale rivoluzionamento: sono gli anni di Star Wars nelle sale e di Goldrake in tv, gli anni in cui la televisione privata immette nelle case degli italiani i nuovi eroi dell’animazione giapponese e in poco tempo la comparsa dei videoregistratori rende la fruizione di film, cartoons e telefilm come un momento rituale, da rivedere, studiare, sezionare e ricreare insieme.

Il fenomeno dei fan-film nasce da lì, trova in Internet e nelle convention specializzate il suo terreno di coltura e diventa riflesso e conseguenza della passione per un qualcosa largamente condiviso: un gruppo di fan si riunisce e mette a frutto quanto ha amato e studiato, nel tentativo di ricrearlo attraverso delle opere che siano la conseguenza del culto, ma ne divengano una componente essa stessa, e in questo modo nascono nuovi sguardi, nuove tendenze che si allineano a formare un percorso, cui oggi rendiamo (seppur solo in parte) testimonianza.

Accade dunque che in Liguria un giovane appassionato delle Guerre Stellari lucasiane coinvolga amici e conoscenti nella realizzazione di un film che ricrei le atmosfere delle battaglie fra cavalieri Jedi. Il risultato è Dark Resurrection, un lavoro che a dispetto dell’origine amatoriale sfoggia un impatto visivo e una professionalità nella messinscena che riscuote persino il consenso e la sorpresa della Lucasfilm! E che dire di Zabaiot? Un’idea nata da un gruppo di ragazzi toscani, che si inventano letteralmente una parodia dei telefilm giapponesi basati su supereroi dagli incredibili costumi e dai nemici ancor più improbabili e la innesta su un contesto totalmente italiano, a metà strada fra la sperimentazione e la parodia, dando vita a un divertente e bizzarro genere, lo “spaghetti robot”. I culti germogliano, cambiano pelle e diventano autosufficienti rispetto al modello, danno vita a volte a opere di sintesi, che riuniscono in sé le caratteristiche di più personaggi, come accade con Grottango, videosigla di un finto cartoon ispirato ai vari Mazinga e Getter Robot, nato come un gioco tra appassionati, ma a sua volta fonte di culto nella Rete. Per concludere con l’ambizioso progetto del fan-film The Ufo, dedicato a Goldrake (ancora incompleto e che si presenta al pubblico al momento nella sola forma del making of) e la divertita parodia argentina di Otakus, che si diverte a omaggiare e nel contempo a sbeffeggiare il fenomeno degli appassionati oltranzisti: un’opera che travalica i confini italiani, per rendere testimonianza di quanto largamente diffuso sia il culto per questi eroi, che diventano il collante per una serie di gesti e situazioni ormai assurti a rilevanza universale.

La passione diviene perciò un tutt’uno con l’ossessione e il divertimento fra amici assurge a cifra stilistica per dare vita a nuovi filoni cari al pubblico: d’altronde non sono questi gli anni che vedono in sala trionfare le trasposizioni cinematografiche del Signore degli Anelli, di Spiderman e Transformers? Non siamo forse oggi raggiunti da nuove versioni e prolungamenti delle saghe di Star Wars e Indiana Jones? Il fan-film diventa quindi anche una radiografia di un momento storico orientato a portare su schermo, a rendere reali, le fantasie di un’epoca passata e per questo forse, tra i fans di oggi e tra i loro lavori, si nascondono i nomi del cinema di domani. Vale la pena prestar loro attenzione.

Fanfilms.net: database dei fan-film (in inglese)
Fan Films Foundation (in italiano)
La voce “Fan Film” su Wikipedia inglese

mercoledì 25 febbraio 2009

Ponyo sulla scogliera

Ponyo sulla scogliera
La pesciolina Ponyo, sbalzata lontano dal suo regno sottomarino, viene trovata dal piccolo Sosuke, che stringe con lei una sincera amicizia. Il padre di Ponyo, lo stregone Fujimoto, intanto cova progetti distruttivi per il mondo, che intende liberare da quell’umanità di cui pure un tempo faceva parte. Ma Ponyo, dopo aver ingerito il sangue di una ferita di Sosuke, acquisisce forma umana e vuole restare con l’amico terrestre: l’unione è osteggiata da Fujimoto, ma sembra trovare l’avallo della Grand Mamarre, la madre della piccola Ponyo.
  
 
Si può affermare che il nuovissimo Ponyo sulla scogliera (presentato in anteprima e in concorso alla Mostra di Venezia 2008) sta al precedente Il castello errante di Howl come La città incantata stava a Princess Mononoke: in entrambi i casi, infatti, si respira una libertà d’azione che pervade l’animo di Hayao Miyazaki, tipica di chi, liberatosi del fardello di un’operazione intellettualmente, emotivamente e contenutisticamente più onerosa, si abbandona infine al piacere della creazione pura e semplice. In questo senso Ponyo sulla scogliera è un’opera solare e pervasa da un piacere per l’animazione e il racconto che conquista immediatamente il cuore.
 
Una storia “semplice”, sicuramente caratterizzata da molti tratti distintivi e tematici cari al Maestro giapponese, ma ugualmente spiazzante perché oltre: oltre la cupezza e lo scontro fra civiltà del già citato Howl, oltre il proliferare delle strabilianti visioni della Città incantata e ovviamente oltre gli artifici tecnologici di Mononoke. Prova ne sia prima di tutto la tecnica, che nell’affidarsi totalmente all’animazione tradizionale abbandona quella tensione idealmente fotorealistica tipica delle precedenti opere. Sebbene il cinema miyazakiano, infatti, sia da sempre proteso alla rappresentazione di racconti fantastici, è pur vero che la perfezione tecnica tende a iscrivere la fantasia all’interno di universi che, per quanto disegnati, sono in sé credibili ed estremamente reali nella cura del dettaglio. In Ponyo invece questo non avviene: il disegno si palesa per ciò che è, e rimanda ai primi lavori con Isao Takahata, attraverso personaggi dal design immediato e fondali dove è possibile distinguere il singolo tratto di colore, tanto da giungere a una straordinaria economia espressiva, fonte anche di inusitata bellezza, tanto da rendere Ponyo sulla scogliera una magnifica esperienza visiva, di quelle che permettono di reimparare a vedere il mondo.
 
Il progetto in fondo è quello giusto, se consideriamo come la favola del bambino e della pesciolina che assume forma umana sia in sé un inno alle stagioni primarie della vita, ovvero la fanciullezza e la vecchiaia, che Miyazaki unisce attraverso l’interazione fra i due protagonisti e il gruppo delle anziane donne gestite dalla madre in un ospizio (e che si rivelano ben presto parte attiva nella vicenda). D’altronde già nel precedente Howl la protagonista era una ragazzina invecchiata, simbolo di una volontà che vede l’autore ormai consapevole di essere giunto alla maturità artistica, e che perciò anela a esplorare i legami che la terza età stabilisce naturalmente con l’infanzia, spingendo il pubblico a riflettere sulla bellezza dei sentimenti più immediati: la meraviglia, l’entusiasmo e, soprattutto, l’amore, come è in fondo quello che lega Ponyo a Sosuke.
 
Ecco dunque che Ponyo diventa anche un’operazione di sintesi e può permettersi di unire la fine con il principio anche riscrivendo quella che è una delle figure retoriche meno esplorate del cinema di Miyazaki: la catastrofe. Che ora non è più l’atto fondativo di una civiltà terminale (Nausicaa della Valle del vento) o l’atto catartico di una storia ormai destinata a vincere sul potere vivificatore della natura (Princess Mononoke), ma uno stadio dell’essere che non viene caricato di nessuna valenza distruttrice, ma anzi quasi anela a essere un passaggio vivificatore: ecco quindi che gli tsunami affrontati da Ponyo e Sosuke non recano con sé alcuna drammaticità, ma anzi sono anch’essi parte della natura e affrontati pertanto con sentimento quasi virtuoso, non rassegnato, ma certamente propositivo, fonte di avventura e senso del meraviglioso che escludono la catastrofe e si concentrano sui sentimenti dei singoli.
 
D’altronde la posta in gioco è ancora una vola l’avvicinamento di opposti, e il viaggio di Ponyo e Sosuke l’una verso l’altro diventa quindi un progressivo sfiorarsi fra una realtà che deve ritrovare la magia e una fantasia che deve essere capace di immergersi nel mondo, in un abbraccio che ha la stessa delicata intensità della fiaba per bambini che riesce a parlare anche agli adulti.
Nelle sale italiane dal 20 marzo.

 
Ponyo sulla scogliera
(Gake no ue no Ponyo)
Regia e sceneggiatura: Hayao Miyazaki
Origine: Giappone, 2008
Durata: 100’
 

lunedì 23 febbraio 2009

Frost/Nixon: Il duello

Frost/Nixon: Il duello

Ossessionato dal successo, l'anchor-man David Frost decide di organizzare un’intervista all’ex presidente Richard Nixon, al quale tenterà di far finalmente ammettere le proprie colpe nello scandalo Watergate. L’occasione buona, insomma, per far sostenere al presidente traditore quel processo che la giustizia ufficiale gli ha permesso di sfuggire, graziandolo dei suoi reati. Nixon dal canto suo accetta entusiasta, convinto com’è di poter sfruttare la situazione a proprio vantaggio, riabilitandosi agli occhi dell’opinione pubblica. Frost si vede costretto a investire personalmente il denaro necessario dopo che ogni emittente televisiva rifiuta di acquistare il programma e quindi la posta in gioco si rivela per entrambi i contendenti molto alta.

Si tira un sospiro di sollievo nel notare come, fra due trasposizioni poco interessanti da Dan Brown, Ron Howard si sia ritagliato il tempo di confezionare un piccolo gioiello di cinema civile, affidandosi a una pièce teatrale di Peter Morgan (già autore dell’ottimo The Queen). D’altronde era più che lecito aspettarsi un sussulto dall’ultimo regista professionale presente a Hollywood, uno di quei talenti che non rivendica l’autorialità a tutti i costi, quanto la possibilità di sperimentare strade sempre diverse, facendo dell’eclettismo la sua cifra stilistica. Anche se poi, a ben guardare, Frost/Nixon si presenta come un ribaltamento del concept di EDtv, come a ribadire che in fondo, l’artigiano, gli artigli dell’autore a volte li sa tirare fuori eccome!

Ma lasciamo da parte le sterili classificazioni e andiamo al sugo della storia: si citava EDtv. Lì, la cattura della performance nel suo farsi; qui la registrazione in differita di un evento che riassume in sé i sentimenti di un sentire comune già passato. E’ il processo a Nixon, negato dalla Storia, sebbene acclamato da una nazione, che ora avviene attraverso la televisione, come a ribadire le possibilità morali insite nei linguaggi codificati dal piccolo schermo (omaggiati dalla struttura falso-documentaristica che rimanda a format altri e ci ricorda che il Real Cinema è il genere faro dei nostri anni), e al contempo la sua natura vampiresca, fatalmente spettacolare. Howard mette sul piatto entrambe le carte, attraverso la contrapposizione tra un Frost ossessionato dal successo e il suo collaboratore James Reston, che più di ogni altro sembra sentire la necessità di inchiodare il presidente traditore alle sue responsabilità.

Il quadro tratteggiato dal regista rifugge però ogni manicheismo e si diverte anzi a mostrare non solo i piccoli scarti che separano la teoria (in base alla quale non si dovrebbe nemmeno stringere la mano al nemico) dalla realtà (dove invece accade esattamente il contrario e si può concedere l’onore delle armi all’avversario); ma soprattutto gioca sull’identità dei due contendenti, entrambi avidi e attirati dalle possibilità che il confronto porta con sé. Il gioco naturalmente volge ben presto in direzione di un racconto formativo dove ognuno dei due antagonisti si vede costretto a elaborare le proprie colpe e a fare ammenda dei propri errori. Il duello diventa quindi una partita che assume connotati sempre più tragici, che fanno emergere la vita nascosta dietro le rispettive maschere: la fragilità e i timori di un anchor-man di successo che staziona in bilico su un possibile viale del tramonto e la caparbietà di un ex-presidente che non accetta il ruolo di sconfitto dalla Storia (ed è peraltro aiutato da un segretario che dimostra una volta di più l’importanza dei comprimari nel racconto).

Il che assume connotazioni più importanti laddove si iscrive all’interno dello schema tracciato dal film, nel quale la scoperta delle umane sensazioni che si agitano nel profondo dei duellanti sembra indirizzare il racconto verso la rottura della differita, per ritrovare quella verità immediata che il film ha inizialmente messo in scacco. Ecco dunque che la telefonata (immaginaria?) tra Frost e Nixon, nella quale il presidente sfoga tutto il suo rancore verso il mondo, è il momento che rompe la sospensione temporale del plot per lasciare uscire, come un umore nero, la verità di due anime sole e rancorose verso un mondo che non sembra volerli comprendere. La scena è costruita secondo una dialettica squisitamente teatrale dove la solitudine del presidente, la sua ubriachezza e la stanchezza di Frost, rovesciano e spogliano l’iconografia fino a quel momento portata avanti dai due rivali, e palesano la loro umanità.

Non solo! Il momento segna, anche narrativamente, il cambio di passo nel duello fra i due, favorendo la redenzione di entrambi e l’affondo finale. Il fatto che Frost esegua nel privato quella elaborazione dei propri errori che Nixon invece si ritrova costretto a effettuare in diretta televisiva, ci riporta infine al ruolo del media all’interno della storia (e della Storia), dove alla fine il vincitore si decreta non già in base alla reale capacità di sconfiggere il prossimo, quanto alla sua abilità nell’inchiodarlo alle proprie responsabilità in diretta tv. E si torna quindi alla formula real-tv di EDtv, il cerchio si è chiuso.

Frost/Nixon: Il duello
(Frost/Nixon)
Regia: Ron Howard
Sceneggiatura: Peter Morgan, dalla sua pièce teatrale
Origine: Usa, 2008
Durata: 122’

Dichiarazioni di Peter Morgan
Sito ufficiale italiano
Sito ufficiale americano
Pagina di Wikipedia su David Frost
Pagina di Wikipedia su Richard Nixon
Pagina di Wikipedia sullo scandalo Watergate

venerdì 20 febbraio 2009

Saluti e baci, Oreste

Saluti e baci, Oreste

Ci ha lasciati Oreste Lionello: attore, doppiatore, cabarettista, grande uomo di spettacolo. Una di quelle figure che credi immortali perché presenti da sempre, in modo discreto ma avvertibile: un'icona silenziosa eppure energica, capace di lasciarsi scivolare addosso la volgarità imperante e che d’un tratto scopriamo umana nella sua fragilità. Era malato da tempo.

Di fronte alla sua scomparsa la memoria corre dunque veloce e mescola in egual misura i ruoli d’attore con quelli dove a primeggiare era la voce: tornano in mente l’Oscar Luigi Scalfaro del Bagaglino, il Lupo Alberto di Supergulp!, l’indimenticabile Mini-Vip di Bruno Bozzetto e il Barone Frankenstien di Gene Wilder. Oltre ovviamente all’imprescindibile Woody Allen.

Una lista cui si può aggiungere anche il Peter Sellers de Il dottor Stranamore, il Roman Polanski di Per favore non mordermi sul collo o il Donald Pleasence di Altrimenti ci arrabbiamo. Anche se forse uno dei suoi doppiaggi più belli e meno considerati è stato quello di Bert, lo spazzacamino felice interpretato da Dick Van Dyke in Mary Poppins!

Chi lo ha conosciuto lo ricorda come un professionista dal sorriso cordiale e dalla grande capacità mimetica, e in questa veste penso sia giusto ricordarlo, di fronte a una televisione che negli ultimi anni lo aveva troppo appiattito sugli spettacoli del Salone Margherita: lasciamo quindi spazio per un’ultima volta alla sua arte con un estratto da un altro dei suoi lavori più belli, il doppiaggio de Il Grande Dittatore di Charles Chaplin, con lo struggente discorso finale all’umanità.

Perché di lui si possa ricordare soprattutto la profondità unita a una grande leggerezza.


Biografia di Oreste Lionello dal blog di Antonio Genna
Oreste Lionello su Il mondo dei doppiatori
Pagina di Wikipedia su Oreste Lionello

mercoledì 18 febbraio 2009

Il curioso caso di Benjamin Button

Il curioso caso di Benjamin Button

Costretta in un letto d’ospedale e ormai prossima alla morte, Daisy prega la figlia Caroline di leggerle un diario che ha conservato nella sua borsa: vi si narra la storia di Benjamin Button, nato nel 1918 in condizioni di vita precarie e che nel corso della sua esistenza è ringiovanito progressivamente fino a morire neonato. Una vita incredibile, che si è intrecciata a doppio filo con quella di Daisy e i cui segreti ora verranno rivelati per la prima e ultima volta.

Qualcosa sta cambiando nel cinema di David Fincher, o forse sta semplicemente lasciando emergere ciò che finora era rimasto nascosto, soffocato da quella cupezza e quella nervosità che con eccessiva fretta era stata generalmente elevata a cifra stilistica della sua produzione dopo la visione di Seven, The Game e Fight Club. Ne emerge una qualità più umana, che sebbene non rinunci mai alla sperimentazione stilistica, agli andirivieni temporali e alla composizione digitale del quadro come spazio da reinventare ed esplorare, si concentra di più sui personaggi: eroi di una fiaba non contro il tempo, ma fuori dallo stesso, che, attraverso la figura cardine del protagonista che ringiovanisce dopo essere nato vecchio, cerca di riscrivere l’ineluttabilità della vita sottraendola alla consueta parabola delle stagioni. E’ per questo che il film, sebbene iscritto nella storia del Novecento, potrebbe anche ambientarsi in un arco temporale differente e non ha bisogno di rimarcare date e periodi, come invece accadeva nel precedente Zodiac, dove lo spossante protrarsi delle decadi gravava come un fardello sui personaggi. Ugualmente, però, non viene meno la consapevolezza del tempo, rievocato sin dalla struttura narrativa in flashback e anzi continuamente chiamato in causa dallo scorrere di orologi, e dalle mancanze degli affetti che scandiscono il presente e gettano un’ombra sul futuro.

In questo modo la vita di Benjamin Button si eleva a esaltazione dei singoli momenti di cui l’esistenza si compone: la felicità in fondo non è un traguardo impossibile, quanto di breve durata e per questo necessità di essere cercata e vissuta intensamente. La sfida cui la vita pone di fronte è dunque duplice: si tratta di affrontare nel modo giusto i momenti di felicità, ma anche di saperli riconoscere quando essi si palesano. In fondo il caso evocato sin dal titolo è la vera variabile che determina il corso degli eventi e persino l’ineluttabilità della fine e dell’inizio sembra soggiacere al suo volere. Per questo numerose sono le tappe da attraversare fino al raggiungimento del momento giusto, quello che permette di compiere l’agognata traversata della manica a una donna conosciuta durante una notte insonne in albergo, e quello che favorisce infine il ritrovarsi di Benjamin e Daisy dopo numerose occasioni sprecate. Il loro continuo rincorrersi attraverso il tempo ha quindi il sapore di un amoroso inseguimento attraverso la maturazione dei rispettivi corpi e le varie fasi delle loro vite, fino al raggiungimento del momento esatto in cui tutto si può compiere. L’eroismo del protagonista sta dunque interamente nella sua capacità di afferrare i momenti, di saperli riconoscere e di saper fare le giuste rinunce, diversamente da quelle figure genitoriali che rivelano le loro verità ai figli con eccessivo ritardo.

Ecco dunque che il film non soltanto dimostra un gusto quasi antropologico nell’illustrazione dei caratteri, ma sa offrire se stesso attraverso una continua modulazione di toni, regalando a un tempo divertimento, meraviglia e commozione, dimostrandosi poroso ma nello stesso tempo compatto, tanto da riuscire a ricontestualizzare nel racconto i momenti in apparenza slegati dallo stesso, nonostante alcune lungaggini e qualche passaggio più didascalico (specie nel finale). Unici punti fermi, come già enunciato, la fine e il principio, per i protagonisti e per la storia stessa, incastonata tra la fine della Grande Guerra (promessa di un nuovo inizio per il mondo) e la morte della narratrice, accompagnata dall’arrivo di un uragano, che può suggerire fiabeschi collegamenti (pensiamo a Il Mago di Oz).

In fondo un’altra straordinaria qualità del film sta nella sua capacità di creare ponti con poetiche e cinematografie differenti: se l’esibizione del corpo-freak di Benjamin può infatti suggerire paralleli con il cinema di Tim Burton, e il suo scivolare nel tempo rimanda a Robert Zemeckis (lo sceneggiatore peraltro è lo stesso di Forrest Gump), la progressiva malinconia che ammanta il tutto, rendendo il protagonista consapevole della caducità del vivere, rimandano al cinema di Clint Eastwood. Il film è tutto questo, ma contemporaneamente è altro, non è grottesco (Burton), né storico-satirico (Zemeckis), né amaro (Eastwood), perché, anzi, Fincher mescola i toni e i rimandi con naturalezza, ma restando sempre fedele a se stesso: prendiamo ad esempio la splendida sequenza del duello notturno fra il rimorchiatore e il sommergibile. Costruzione esemplare della tensione, attenzione ai dettagli e uso intelligente degli effetti speciali, movimenti di macchina avvolgenti e virtuosistici: tutti marchi di fabbrica di un autore che però nello stesso tempo con quella sequenza sembra rimettere in scena lo Spielberg de Lo squalo, film che, guarda caso, lo folgorò in tenerà età spingendolo a dedicarsi al cinema per colpire al cuore lo spettatore e suscitare in lui emozioni intense. Questione di tempi e momenti da fermare, in fondo.

Qual è dunque l’emozione più intensa che il film suscita? E’ la malinconia per una conclusione ineluttabile, il riso per chi “viene colpito da un fulmine” o la commozione per la delicatezza del sentimento che travalica il tempo? Dovendo azzardare un’ipotesi, quella più calzante pare essere la serenità: quella di chi ha avuto l’occasione di comprendere l’assurdità di una vita proiettata sulla fine e ha per questo saputo astrarsi dall’ineluttabilità del tempo gustando pienamente ogni attimo.

Il curioso caso di Benjamin Button
(The Curious Case of Benjamin Button)
Regia: David Fincher
Soggetto: Robert Swicord e Eric Roth, da un racconto di Francis Scott Fitzgerald
Sceneggiatura: Eric Roth
Origine: Usa, 2008
Durata: 166’

Sito ufficiale italiano
Sito ufficiale americano
Curiosità sul film da BadTaste.it
Ritratto di Cate Blanchett

lunedì 16 febbraio 2009

SOS! Tokyo Metro Explorers: The Next

SOS! Tokyo Metro Explorers: The Next
 
Estate 2006. Il giovane Ryuhei Ozaki trova un diario giovanile del padre con la mappa di un antico tesoro ubicato nelle gallerie che corrono nel sottosuolo di Tokyo. Decide così di organizzare una missione esplorativa insieme agli amici Shun, Toshio e al fratello minore Sasuke: il viaggio metterà i giovanissimi eroi a confronto con una autentica società sotterranea, e darà il via a una grande avventura.

40 minuti sono più che sufficienti all’universo di Katsuhiro Otomo per riverberare ancora una volta se stesso, le proprie ossessioni e la sua importanza all’interno del panorama dell’animazione giapponese. In effetti è sorprendente notare la compattezza della materia forgiata dall’autore, anche quando il ruolo del regista è affidato, come in questo caso, a una persona terza, a testimonianza di una concezione del racconto forte e solida. SOS! Tokyo Metro Explorers: The Next è insieme trasposizione e ideale sequel di un fumetto breve realizzato da Otomo nel 1980 e incentrato sulle avventure di un gruppo di bambini-esploratori che da più parti ha fatto muovere paragoni con il celebre film I Goonies, realizzato da Richard Donner e Steven Spielberg nel 1986.

E’ un paragone calzante e per nulla peregrino pur considerando come il fumetto originale preceda il film americano, poiché va considerato la profonda cinefilia di Otomo che quindi rende ogni possibile connessione con le opere altrui come una prova del carattere virtuoso della sua produzione, capace di rimettere in circolo con tocco estremamente personale ossessioni e temi pure esplorati da altri e di stabilire legami che travalicano lo spazio e il tempo.

Nel caso specifico, poi, risaltano evidenti l’importanza del contesto e dello stile con cui l’avventura viene narrata, tipici dell’opera di Otomo: immergendosi nel sottosuolo di Tokyo, infatti, i giovanissimi protagonisti sanciscono ancora una volta l’importanza primaria dell’ambiente urbano come cartina di tornasole per comprendere i caratteri dei personaggi e per radiografare gli umori che serpeggiano nella società tutta. Il mondo “di sotto” nel quale il gruppo si imbatte è quindi costruito attentamente come divertita parodia della società nipponica, dove emergono scontri di parte e una latente conflittualità tra antico e moderno, con tanto di vetusto carro armato a costituire il tesoro intorno al quale ruota tutta la vicenda. 

I legami che la sceneggiatura stabilisce fra i personaggi (e che fino alla fine riveleranno l’estrema interconnessione del mondo “di sotto” con quello “di sopra”) trova nell’isolamento degli stessi la chiave di volta per descrivere con una certa minuzia e molto divertimento gli atteggiamenti tipici delle microcomunità che animano una società complessa e stratificata come può essere appunto quella della grande megalopoli giapponese: lo sguardo innocente dei bambini permette allo spettatore di essere guidato e di ritrovare il gusto per la scoperta di un mondo del quale non si sospettava l’esistenza e che riverbera perciò, accanto alla componente più squisitamente satirica, anche il gusto per l’avventura in senso puramente spielberghiano, permettendo al cerchio di chiudersi.

Passato e presente dunque si mescolano nel resoconto di un’incredibile avventura, ma anche lo stile si adegua a questo approccio optando per una coesistenza di tecniche di animazione tradizionali e 3-D, secondo un modello che si può trovare nello splendido KakuRenBo (sul quale certamente si tornerà): ecco dunque che le figure, sebbene realizzate con programmi di grafica digitale, tentano di riprodurre lo stile “disegnato” tipico del 2-D. Il risultato è altalenante: fluido e molto spesso realistico nell’interazione dei personaggi, appare a tratti forzato e denuncia la sua natura di sintesi, ma nel complesso permette alla spettacolarità pure cara a Otomo di palesarsi in modo riuscito. D’altronde il regista Shinji Takagi si è fatto le ossa su kolossal del calibro di Steamboy, per il quale è stato direttore dell’animazione, e quindi dimostra di conoscere bene le regole dello spettacolo e sa costruire le sequenze con buon gusto, trasmettendo divertimento e un pizzico di tensione. Il tratto tondeggiante e i colori morbidi seguono ovviamente lo stile caro al maestro Otomo e contribuiscono a rendere l’insieme molto accattivante.

Presentato al Future Film Festival 2009.


SOS! Tokyo Metro Explorers: The Next
(Shin SOS Dai Tokyo Tankentai)
Regia: Shinji Takagi
Sceneggiatura: Sadayuki Murai, da un manga di Katsuhiro Otomo
Origine: Giappone, 2007
Durata: 40’

venerdì 13 febbraio 2009

Freddy vs Jason

Freddy vs Jason

Dimenticato e prigioniero di un limbo, Freddy Krueger tenta di tornare sfruttando la forza di Jason Voorhees: le imprese omicide dell’assassino di Camp Crystal Lake serviranno infatti a rinvigorire il terrore tra i giovani di Elm Street, donando al demone dei sogni nuova forza. Ma la furia del gigante mascherato si rivela inarrestabile, costringendo i due villain a un confronto diretto. Nel frattempo la giovane Lori, coinvolta nei fatti, cerca con gli amici di impedire il precipitare degli eventi.

Sicuramente i produttori della New Line non ne sono ancora consapevoli, ma rivisto oggi Freddy vs Jason si staglia come un perfetto film spartiacque: attuale eppure retrò, capace di mediare fra la sgangheratezza programmatica dell’horror anni Ottanta e un taglio più incisivo ed elegante tipico del genere nelle sue più recenti terminazioni (ottimi il make up e la fotografia). Una natura ibrida, che gli permette di riverberare ancora adesso una certa libertà nei toni e nella narrazione, con un approccio grottesco che non diventa mai completamente ironico, artigianale sebbene chiaramente frutto dell’industria, feroce ma anche fumettistico. Di certo non l’apripista di un nuovo sottofilone di cross-over tra icone storiche dell’horror come era nelle intenzioni della stessa New Line, ma piuttosto l’ultimo esemplare di una specie e già (ma per fortuna non del tutto) il primo di una nuova.

D’altronde eravamo nel 2003, anno di rifondazione dello splatter e di varo dell’infausta stagione dei remake, rispettivamente con il divertito Final Destination 2 e il serioso Non aprite quella porta (entrambi New Line) e in questo scenario ancora una volta il film di Ronny Yu si pone a metà strada: molto più semplice del primo nel racconto e visivamente meno “pesante” del secondo, appare come una scheggia di passato che si contamina con il nuovo e finisce però per inglobarlo e risputarlo, mentre esibisce e massacra allegramente i corpi siliconati delle nuove starlette (nel cast c’è anche la Destiny’s Child Kelly Rowland) e fa dei due boogeymen i veri dominatori della scena.

L’idea di per sé è già datata: il pensiero corre ovviamente ai classici e anch’essi terminali scontri tra Frankenstein, Dracula e L’Uomo Lupo della Universal anni Quaranta, che tentavano con la quantità di sopperire alla qualità di un filone ormai esausto e in crisi di credibilità. Di tempo però ne è passato e quindi ora si può giocare a carte scoperte, con un Freddy Krueger che tenta di ristabilire la potenza della memoria come fonte del suo regno di terrore, a scapito di una gioventù dedita allo “sballo” in modo sin troppo manicheo e pertanto distratta, oppressa com’è peraltro da una classe di adulti che ha deciso per lei.

Questo è probabilmente l’aspetto più interessante del film, se consideriamo come la forza oppositiva che preme per uno scontro diretto fra i due boogeymen, si riflette in una struttura narrativa anch’essa basata sul confronto aspro tra le generazioni. Gli adulti nel film sono simbolo di un’autorità che preferisce ignorare il problema (secondo una classica metodologia denunciata da artisti come George Romero quale causa primaria dei traumi e degli errori della società occidentale) mantenendo i figli all’oscuro e procrastinando in questo modo il confronto con il male a una data mai scritta, laddove i ragazzi invece dimostrando una forza d’animo che permette loro di affrontare direttamente i villain, sancendone in questo modo i ruoli. Ecco dunque che Krueger (per l’ultima volta interpretato dal grande Robert Englund) appare in maniera più netta come l’autentico malvagio della storia, il deus ex machina dell’intero meccanismo distruttivo e non a caso anch’egli, metaforicamente, è una figura che sintetizza il mondo adulto con le sue pulsioni omicide; Jason invece è più un esecutore della volontà imposta dalla madre (un’adulta, ovviamente) e i suoi sogni sono abitati da mondi devastati dove la sua missione continua con regolarità spossante: quasi una sorta di grottesca proiezione della realtà qualora i figli non avessero il coraggio di ribellarsi ai padri e di prendere in mano le redini del proprio destino, come già accadeva con la Nancy del primo Nightmare. Il prezzo da pagare, anche in questo caso, è la perdita di umanità.

Le caratteristiche oppositive sono poi quelle che naturalmente fanno di Freddy e Jason due antagonisti ideali, l’uno minuto e intelligente, l’altro colossale e tardo, refrattari rispettivamente al fuoco e all’acqua, a loro agio in universi differenti, che spaziano dal sogno alla realtà, e accomunati soltanto dalla ferocia assassina, quella che vedrà poi il loro duello esplodere in un tripudio di effetti sanguinolenti. Qui si evidenzia in maniera più netta la capacità registica di Ronny Yu, che orchestra le scena di lotta con sapienza, utilizzando campi e piani fissi e dando poi ritmo all’azione attraverso il montaggio. Ne emerge un lavoro carico di energia, trascinante ma estremamente chiaro e distante dal caos del cinema americano contemporaneo, dove si abusa della macchina a mano e si predilige sempre il senso di precarietà del confronto alla sua corretta illustrazione. Anche questo, in fondo, rende Freddy vs Jason l’ultimo di una specie.

Freddy vs. Jason
(id.)
Regia: Ronny Yu
Sceneggiatura: Damian Shannon e Mark Swift (basata sui personaggi creati da Wes Craven e Victor Miller)
Origine: Usa, 2003
Durata: 97’

Sito ufficiale americano
Intervista a Robert Englund e Ken Kirzinger (in inglese)
La saga di Nightmare (in inglese)
Nightmare su Wikipedia
La saga di Venerdì 13 su Malpertuis
Jason Voorhees su Wikipedia
Nightmare sul sito della New Line
Friday the 13th the website (in inglese)

mercoledì 11 febbraio 2009

Babil Junior: il manga

Babil Junior: il manga

Mentre al completamento della collana manca ancora un numero con alcune storie fuori continuity, l’uscita dei volumi 6 e 7 permette comunque agli appassionati di leggere la conclusione dell’arco narrativo principale di Babil Junior, autentico classico del manga, qui alla sua prima edizione italiana nonostante la pubblicazione originale risalga al 1972. Onore al merito dell’editore d/visual, dunque, che ha permesso di far conoscere ai lettori nostrani la versione cartacea, laddove i personaggi finora erano noti soltanto attraverso la serie animata trasmessa sulle emittenti private italiane all’inizio degli anni Ottanta o mediante la miniserie remake del 1992 realizzata per il mercato del video.

Che ci fosse più di un motivo d’interesse nella lettura era evidente considerando l’importanza storica che l’opera di Mitsuteru Yokoyama riveste nel panorama nipponico: autore prolifico e vero inventore di generi (i robot giganti, le maghette), Yokoyama dimostra anche in questo caso di essere tematicamente avanti rispetto ai suoi tempi, sebbene poi la qualità narrativa rientri nel pieno delle influenze contemporanee, tanto da fare di Babil Junior un lavoro paradigmatico rispetto alla struttura del manga classico, con tutto ciò che ne consegue in termini di forza espressiva e limiti dell’opera.

La storia vede l’adolescente giapponese Koichi essere richiamato da una misteriosa forza nel deserto arabo, dove sorge la biblica Torre di Babele: si tratta in realtà di un’imponente fortezza che un alieno giunto sulla Terra molti secoli prima da un mondo tecnologicamente avanzato ha lasciato in eredità all’erede che un giorno sarebbe comparso sul pianeta. Koichi apprende così i segreti dell’alieno, impara a sviluppare poteri paranormali e sovrumani e assume l’identità di Babil Junior, ritrovandosi poi costretto ad affrontare un altro esper, Yomi, che intende conquistare il mondo. Come si può notare non siamo distanti dai classici temi di un altro autore contemporaneo, ovvero Go Nagai, per la figura del folle con mire di conquista e per alcuni elementi iconici, come la base tecnologicamente avanzata e il robot gigante. Babil ha infatti al suo servizio tre assistenti: Rodem, una pantera mutaforma, Ropuros, un enorme rapace meccanico, e Poseidon, un colossale robot.

I possibili punti di contatto con Mazinga Z sono più evidenti nella serie tv, dove si insiste maggiormente sul valore iconico dell’adolescente alla guida di un macchinario con tanto di tuta da battaglia, laddove il fumetto volge lo sguardo chiaramente a un modello più squisitamente avventuroso ed epico, che tocca alcuni elementi e temi propri della fantascienza, sfruttandoli per la costruzione di sequenze dinamiche e d’impatto, all’interno di una narrazione dal ritmo molto sostenuto. La capacità di Yokoyama di precorrere i tempi è evidente nell’inserimento di temi come la manipolazione genetica e i poteri paranormali che saranno poi ripresi da altri autori con esiti molto più profondi (pensiamo al Katsuhiro Otomo di Akira), ma che qui già si inseriscono all’interno di un discorso molto interessante.

La genialità della storia, infatti, sta nella mescolanza di elementi apparentemente eterogenei, che danno vita a un tessuto narrativo compatto e potente, capace di unire materia e spirito, fantascienza e mito. La forza iconica data dalla Torre di Babele, simbolo del Caos, rivela perciò la volontà di porre in essere un confronto tra due uomini elevati al rango di dei ed evidenzia in questo modo il timore di Yokoyama per un possibile superamento dei limiti congeniti dell’essere umano (favorito dall’evoluzione o dal progresso tecnologico), che diventa strumento di distruzione e perdizione.

L’autore in questo senso differisce però dal più stratificato Nagai per un certo manicheismo, che vede Babil e Yomi precisamente aderenti al ruolo del “buono” e del “cattivo” e delega ai tre servitori le possibili sfumature in grado di rivelare la mostruosità latente dei due protagonisti: in quanto possessore di poteri psichici, infatti, anche Yomi impara ben presto a comandare Rodem, Ropuros e Poseidon e in questo modo annulla il vantaggio di Babil, riconducendo la lotta fra i due a un più serrato confronto personale. Ne consegue che gli umani veri e propri ricoprono ruoli molto marginali, la famiglia di Koichi viene abbandonata senza troppe conseguenze (laddove nella versione animata a volte tornava a fare capolino) e non si insiste particolarmente sui possibili risvolti psicologici o morali, confinati nei presupposti stessi della storia.

Il che rende evidente una certa ripetitività che la storia sconta dalla metà in poi, con l’escalation continua dello scontro fra i due superuomini: pare evidente come a Yokoyama interessi maggiormente il racconto nella sua accezione più popolare, fatta di grandi sequenze d’azione e di un tessuto narrativo semplice e mirato ad esaltare sentimenti primari come lo stupore degli umani di fronte alle imprese di Babil e Yomi, il coraggio del giovane eroe e la follia spietata del dominatore.

In questo modo il fumetto risulta quindi datato ma comunque avvincente e trascina il lettore in una sarabanda di situazioni che, nel rendere sempre più serrato il confronto tra i singoli, apre il racconto a scenari sempre più globali: Yokoyama si dimostra maestro di capacità espressiva, attraverso l’uso di una griglia molto funzionale, che a disegni a tutta pagina che esaltano la forza dirompente delle scene d’azione in cui agiscono i tre servitori (in particolare i maestosi Ropuros e Poseidon) alterna tavole divise in piccole vignette dove l’attenzione è incentrata sui particolari. Impagabile a questo proposito, per costruzione ritmica e visiva di stampo chiaramente cinematografico, il momento in cui Babil e Yomi si scambiano un fugace sguardo dopo il primo incontro e capiscono così di essere destinati a una feroce rivalità.

Il design dei personaggi, invece, dimostra chiaramente un debito verso lo stile tondeggiante tipico del grande maestro del manga Osamu Tezuka, mentre si nota una maggiore cura nel design degli apparecchi meccanici e dei tre servitori, dove la sensazione tattile della consistenza vischiosa di Rodem, della pelle ruvida di Ropuros o della corazza traslucida di Poseidon è forte e dimostra l’abilità di un autore consapevole delle sensazioni che vuole trasmettere.

Babil Junior
(Babiru Nisei)
Scritto e disegnato da: Mitsuteru Yokoyama
Pubblicato da d/visual
8 volumi
1972

Pagina di Wikipedia su Babil Junior
Editoriale d/visual sul manga
Scheda di Anime News Network sulla serie tv

lunedì 9 febbraio 2009

Idiots and Angels

Idiots and Angels
 
Indolente e cinico, Angel trascorre le sue giornata in un bar, sognando di sedurre la giovane cameriera e ridendo delle sfortune altrui. Una mattina però si ritrova un paio di bianche ali sulla schiena, cerca di strapparle, ma quando si rende conto che non può cerca di ignorare quella diversità che pure lo sottopone allo scherno altrui. E non è tutto! Le ali infatti cercano di farli commettere delle buone azioni, lo contrastano quando la sua condotta si rivela sbagliata e finiscono per essere bramate anche da chi vede in esse un possibile strumento di ricchezza.

Si rischia di ripetersi, ma è impossibile non amare Bill Plympton e non considerarlo un autentico Genio. Dopo lo splendido e divertentissimo corto Shut-eye Hotel, l’artista americano torna alla forma del lungometraggio, che aveva già esplorato in passato, per dare forma a una nuova opera traboccante in egual misura divertimento e poesia, che riverbera tutti i tratti estetici e contenutistici tipici del suo cinema. Al centro, come sempre, c’è un’unica idea, semplice, folgorante, anche folle: un uomo spento e gretto che si vede costretto da un paio di ali d’angelo a comportarsi bene. Siamo al limite dello scherzo goliardico, che però Plympton governa da par suo permettendo alla storia di porsi come racconto morale, ma allo stesso tempo anche satirico, demistificatorio, con punte di godibilissima irriverenza.

Quel che conta in fondo non è la tesi, ma la sintesi tra differenti stilemi dell’espressione cinematografica e per questo il racconto, quando non prende direttamente la strada del lirismo o dell’ironia esplicita, staziona comodamente nel grottesco, giocando sull’opposizione di toni e sentimenti. In fondo il titolo stesso richiama due estremi: l’idea della purezza evocata dal termine “angeli” e la drastica marchiatura a fuoco del genere umano sintetizzata dalla parola “idioti”. Perché gli uomini nei film di Plympton hanno ben poco di speciale, sono anzi creature che lo stesso stile visivo, così potente e materico, dipinge come pesanti ammassi di carne incapaci di uscire dal gioco delle ossessioni e dei desideri terreni. Pertanto Angel è un individuo che suscita dissenso nello spettatore, lo vediamo commerciare in armi sottobanco e ridere degli avventori che palesano una qualsivoglia debolezza o difetto. Ma ancor peggio di lui sono i personaggi che riducono l’umanità a semplice possibilità economica e cercano di rubargli le ali per farne uno strumento di guadagno. La critica di Plympton diventa perciò un elaborato gioco sugli stereotipi, che riesce ad aprire gli spiragli necessari all’innesto di toni fra loro differenti, generando quella mescolanza di elementi alla base del suo cinema.

D’altronde già a livello visivo il film esplicita l’idea di un mondo la cui struttura è a vasi comunicanti, dove ogni azione confluisce nella successiva e in questo modo rivela anche la fragilità di una prospettiva univoca sulle cose. Perché basta variare l’angolo di ripresa, o ridurre il campo per scoprire come l’oggetto possa diventare altro da sé, favorendo il passaggio a nuove azioni e nuove scene, creando in questo modo una struttura narrativa estremamente fluida. L’acqua che cade da un rubinetto diventa così il latte che si versa in una ciotola di cereali e nuovi passaggi conducono poi l’azione verso lidi sempre nuovi, secondo le direttive dell’autore.

I punti di riferimento, dunque spariscono e così il film che sembrava palesarsi in un primo momento si scopre invece nuovo e sorprendente ad ogni passaggio. Anche le citazioni si adeguando a questo schema e se l’inizio con la sveglia impertinente sembra ricordare il divertente short disneyano Early to Bed (1941), con Paperino nel ruolo del dormiente disturbato, e i successivi passaggi in auto e le scaramucce per il parcheggio rimandano al Pippo dell’indimenticabile Motor Mania (1950), il resto prosegue in modo autonomo e originale.

Tutto è dunque interconnesso nel cinema di Plympton e questo permette alle sue figure grottesche di essere al contempo così vere ma anche così dichiaratamente fantastiche, semplice segno grafico che evidenzia la propria fattura artigianale per diventare ombra da deformare e reinventare a ogni passaggio. L’essere umano diventa perciò l’elemento fuori schema, l’unico che non si può ingabbiare, refrattario a ogni sentimento univoco e che per questo offre la maggiore possibilità espressiva. Ecco dunque che Angel da personaggio sgradevole può diventare l’eroe di turno e offrire slanci passionali che lo portano a redimere l’umanità in nome del sentimento che scopre nel suo cuore per la bella di turno, fino a quel momento considerata soltanto come un possibile oggetto sessuale. Le sue ali si rivelano perciò maledizione da strappar via con violenza, ma anche dono da seguire e riconquistare per comprendere davvero il valore dell’esistenza. E il racconto di Plympton, nella sua leggerezza, riesce a veicolare concetti più profondi, regalando momenti di commozione e di stupore pur nella costante ricerca del divertimento. Il tutto in nome di uno spettacolo pieno, degno di un profondo conoscitore dei meccanismi narrativi classici quale Plympton è, capace di reinventare i cliché alla bisogna per il piacere dell’originalità.

Presentato al Future Film Festival 2009.


Idiots and Angels
Regia e sceneggiatura: Bill Plympton
Origine: Usa, 2008
Durata: 78’

mercoledì 4 febbraio 2009

Operazione Valchiria

Operazione Valchiria

1943. Il Colonnello Claus von Stauffenberg, fortemente critico nei confronti del nazionalsocialismo, viene richiamato a Berlino dopo aver riportato alcune mutilazioni in un attacco alleato contro le postazioni tedesche in Africa. Nella capitale si unisce a un gruppo di cospiratori che vogliono liberare la Germania dal giogo oppressivo del tiranno. La strategia concordata prevede l’eliminazione fisica di Hitler con una bomba e la successiva attivazione del piano Valchiria, originariamente pensato per serrare i ranghi del potere in caso di morte del Fuhrer: nel caso specifico, invece, Valchirie verrà usato per bloccare le SS, sulle quali ricadrà la colpa dell’attentato, per favorire in questo modo l’instaurazione di un nuovo governo. Ispirato a un fatto storico.

La carriera di Tom Cruise da più di vent’anni è orientata alla creazione di un cinema capace di unire un forte afflato popolare a una solidità narrativa degna della grande tradizione hollywoodiana. La sua figura, economicamente autorevole e artisticamente competitiva, a volte innesca dinamiche oppositive che finiscono per stritolare la vena artistica dei registi, ma quando invece il progetto si rivela capace di veicolare istanze tra loro contrapposte, il risultato è un’opera compatta e stratificata, capace perciò di riverberare tanto la poetica dell’autore quanto quella dell’attore. Operazione Valchiria è uno di questi film, chiaramente figlio del pragmatismo caro a Cruise, ma allo stesso tempo pienamente immerso in quella trasparenza del reale che ha fatto la forza del cinema di Bryan Singer.

Ecco dunque che il personaggio di Stauffenberg persegue un’idea dell’uomo come artefice del proprio destino, che lotta per il raggiungimento di un fine volto a migliorare la realtà, contrapponendosi a una deriva generale che lui solo vede come storica: a fronte dei colleghi che insistono unicamente per spodestare Hitler, quasi mossi da una sorta di foga dell’agire che però si rivela priva di ogni sostrato filosofico e critico, Stauffeberg è infatti l’unico che vediamo elaborare intimamente il rifiuto del nazismo come dottrina politico-sociale di immane barbarie, attraverso la scrittura privata in un diario; e soprattutto è l’unico a porsi il problema di come favorire il passaggio a un nuovo ordinamento politico, a cosa fare “dopo”. Il suo pensiero è quindi l’unico rivolto in prospettiva storica e la sua azione di sdegno si configura in un moto non eversivo, ma politicamente propositivo: non un tradimento, ma una difesa dell’essenza dello Stato come istituzione volta al Bene dei cittadini. Obiettivo sino a quel momento disatteso dal tiranno che ha fatto delle istituzioni uno strumento per il compiacimento del proprio ego (e lo sguardo spiritato di David Bamber è molto esplicativo in questo senso).

Stauffenberg è in questo modo un perfetto personaggio di Cruise, ma anche una figura squisitamente vicina al cinema di Synger: la sua particolare capacità di adottare una prospettiva sbilenca e salvifica rispetto alla confusione del reale è sottolineata già a livello fisico con le menomazioni che trovano nella benda sull’occhio la sua più evidente espressione. In fondo Stauffenberg è un “fuori schema”, deforme come Kaiser Soze e dotato di capacità superiori, metaforicamente parallele a quelle degli X-Men: lo schema del film si adegua alla sua visione delle cose, attraverso una struttura da ricomporre, dove gli sguardi, i gesti e i messaggi in codice trasmessi dalle postazioni telegrafiche costituiscono i punti da collegare per l’attuazione del percorso e permettono al film di mettere in campo una serie di elementi iconici che elevano la situazione particolare a livello mitico. L’immagine principale in questo senso è quella della Valchiria e dell’omonima opera di Wagner, essenza (opportunamente distorta) del pensiero di Hitler e ispiratrice sia del piano di salvaguardia del regime che di quello volto alla sua disgregazione.

Perché in fondo è ancora una volta una questione di particolari da focalizzare, gli elementi sono disposti sul tavolo fin dall’inizio e bisogna solo sfruttarli a proprio vantaggio per un esito nuovo (come ne I soliti sospetti): ecco dunque che la strategia ideata da Stauffenberg sfrutta un piano già esistente, ma ne cambia la destinazione. A conti fatti la vera “azione” è costituita dall’attentato dinamitardo mirato all’eliminazione di Hitler: è quello infatti il momento “inedito”, innestato nel consueto scorrere del reale, che da solo permette l’attuazione dei successivi e scompagina le carte, che quindi possono essere rimescolate per rendere possibile l’inganno.

La costruzione narrativa così congegnata, servita da una sceneggiatura al solito molto concentrata sugli eventi e sui dialoghi dei personaggi, regala al film un incedere a un tempo incalzante e sospeso su una perenne tensione, che lascia aperti gli spazi necessari all’innesto dell’elemento ingannevole. Che è tale per entrambe le fazioni, dove dominano giochi particolari e timori personali e che vede il piano costruirsi su un equivoco (non si comprende se Hitler sia morto o meno nell’attentato), tanto da rendere il tutto una questione di giusta tempistica. Il contrasto già evidenziato fra l’apparenza del reale e la sua sostanza esplode nell’ultimo atto in tutta la sua potenza, sottraendo il film dal facile meccanismo thriller per aprire spazi a una tragedia che Synger governa comunque con mano sicura e stile asciutto, senza indulgere in facili apologie e regalando perciò al tutto una solidità (e sobrietà) che riporta all’idea di cinema cara a Cruise. Il disegno in questo modo si compie, dimostrando la compiutezza dell’opera e il suo equilibrio fra istanze diverse.

Operazione Valchiria
(Valkyrie)
Regia: Bryan Singer
Sceneggiatura: Christopher McQuarrie, Nathan Alexander
Origine: Usa, 2008
Durata: 120’

Intervista a Bryan Singer e Tom Cruise
Sito italiano
Sito ufficiale americano
Wikipedia: Il Piano Valchiria
Wikipedia: L’attentato a Hitler
Wikipedia: La Valchiria, di Richard Wagner
La cavalcata delle Valchirie (clip audio)

lunedì 2 febbraio 2009

From Inside

From Inside
 
Un treno a vapore attraversa incessantemente una Terra ormai devastata da una immane catastrofe. A bordo, la giovane Cee riflette sul viaggio e sui timori legati al suo stato: la ragazza infatti è incinta, ma è sola al mondo ed è perseguitata da orribili visioni che sembrano impedire ogni margine di speranza in una realtà ormai vicina al capolinea. Una misteriosa figura bendata però sembra vigilare su di lei, silenziosa ma presente, mentre il viaggio prosegue.

All’origine del progetto c’è un graphic novel, realizzato dallo stesso John Bergin, che di questa trasposizione è autore completo, avendo curato anche il montaggio, la fotografia e l’animazione. Il frutto di questo lavoro è un’opera potente e oscura, che riesce con pochi elementi a definire immediatamente il contesto e le emozioni care all’autore, evocando sensazioni di profondo e disperato nichilismo, dove il viaggio diventa metafora di un percorso verso un ineluttabile destino. La narrazione è scandita dalla voce over della protagonista, che enuncia i suoi pensieri con ponderazione e crea un flusso di parole e suoni quasi ipnotico, che, insieme al clangore incessante del treno che attraversa i binari e alle inquietanti musiche di Jeff Rona e David Edwards, funge da collante tra le visioni che definiscono il particolare look visivo del film.

Dall'originale cartaceo viene ripresa la fissità delle immagini disegnate e animate solo in parte, come a voler restituire l'idea di una “lettura” del mondo e degli scenari che vengono ritratti, quasi una sorta di possibile rielaborazione del concept ben più ameno che motivava le sperimentazioni di Supergulp! Una scelta anch’essa ragionata, come è tutto il film, capace di unire una profonda focalizzazione sulla materia a uno slancio lirico e visionario che conquista il cuore prima della mente, pure appagata da uno stile visivo vagamente impressionista, che mescola realtà e sogno. Non sappiamo infatti quanto di ciò che vediamo sia frutto dei timori inconsci di Cee o pura verità: la ragazza è il nostro unico tramite in quella realtà devastata, la definisce e forse la crea, mentre si interroga sulle cause del disastro, rispetto alle quali ha un’unica certezza: sono state provocate dall’uomo.

Il film innesca in questo modo una dicotomia fra l’interno della mente umana, dal quale sgorgano visioni mostruose e atteggiamenti distruttivi (la mattanza dei bovini, l’uso dei cadaveri come combustibile del treno) e un esterno che con la solennità dei pochi manufatti ancora esistenti riverbera la gloria di un passato ormai lontano e dona al paesaggio desertico una parvenza spettrale. Lo scenario pertanto descrive una realtà post-industriale, dove dominano giganteschi ponti ferroviari semi crollati, fabbriche ormai divorate dalla ruggine e pochi villaggi in lotta contro le inondazioni provocate da una pioggia violenta e da acque che hanno il colore del sangue. Il tutto contribuisce a rimarcare la forte componente visionaria dell’opera, dove il proliferare delle immagini che Bergin produce sembrano soprattutto rimarcare l’idea della maternità negata, chiara metafora dei timori che affliggono la giovane Cee: il ricordo di un peluche cui tanti anni prima fu estratto il carillon dal ventre; un bovino gravido che viene squartato; allucinanti sale operatorie dove agiscono medici dalla faccia di teschio con strumenti chirurgici mostruosamente deformati; carrozze-lazzaretto: tutto sembra muovere nel senso di una negazione di ogni possibile continuità della vita. 

Gli interni sono pertanto anche quelli del corpo femminile, in cui sta nascendo quel bambino che potrebbe rappresentare il domani, quello delle gallerie attraversate dal treno e quello dei vagoni in cui si consuma il dramma e si riassume tutta la miseria della condizione umana. Ma gli interni sono soprattutto quelli dell'anima, di una vita che vuole vivere e trova in un misterioso uomo bendato un aiuto generoso e sempre presente, la cui identità non verrà mai rivelata e che aiuterà Cee a transitare dal terrore alla speranza. Forse è solo un’ombra, magari quella del marito scomparso tempo addietro, un ennesimo scampolo di sogno per affrontare la realtà. In ogni caso non siamo vicini alle note positive presenti in opere come I figli degli uomini, perché il viaggio è caratterizzato da una progressiva presa di coscienza di quanto ormai poco margine sia rimasto per immaginare un possibile re-inizio e Bergin va fino in fondo a questa sua scelta, non risparmiando improvvisi cambi di tono.

Il viaggio serve dunque a empatizzare con i personaggi, a condividere i loro dubbi, i tormenti e le lotte per proseguire verso una meta che non conosciamo ma che sulla fiducia crediamo utile a definire un nuovo punto di partenza: soffriamo delle difficoltà provocate da ogni ostacolo che si frappone all’avanzare del gigante d’acciaio, e gioiamo di ogni piccolo progresso della carovana, immersi come siamo nella vicenda. Le sperimentazioni visive passano poi per una mescolanza (a onor del vero non sempre riuscita) di disegno tradizionale e animazione 3-D per restituire il senso della profondità, soprattutto degli elementi materici (il treno, le fabbriche, i binari), che crea un contrasto interessante e vagamente cyberpunk con la qualità pittorica dei disegni tradizionali: in alcuni passaggi sembra di riconoscere anche possibili debiti dalle opere di H.R. Giger, che ossequiano la componente post-apocalittica dell’idea.

Presentato in anteprima italiana al Future Film Festival 2009 dopo numerose manifestazioni internazionali, From Inside rappresenta una delle più belle folgorazioni degli ultimi anni, lancinante e poetico, inquietante, anche spaventoso, ma profondamente carico d’umanità.


From Inside
Regia e sceneggiatura: John Bergin
Origine: Usa, 2008
Durata: 71’