"C'è chi crede in dio o nel denaro. Io credo nel cinema, nel suo potere. L'ho scoperto da ragazzino, mi ha aiutato a fuggire da una realtà in cui ero infelice. È una delle forme d'arte più alte che l'uomo ha concepito. Credo nel suo futuro."
(John Carpenter)

lunedì 27 aprile 2009

Intimissimi

Intimissimi

La nuova campagna pubblicitaria dedicata alla Collezione Basic di Intimissimi è da qualche giorno sugli schermi televisivi italiani e ha già prodotto una forte risonanza on-line, raggiungendo sicuramente lo scopo dei suoi realizzatori. Probabilmente per i più l’interesse avrà inizio e fine con la sfolgorante bellezza della protagonista, la modella russa Irina Sheik (nata Shaykhlislamova) che sta vivendo il suo warholiano quarto d’ora di celebrità sebbene sia testimonial del marchio da un paio d’anni, dopo essere subentrata alla non meno splendida collega brasiliana Ana Beatriz Barros e alla nostrana Monica Bellocci, protagonista, qualche tempo fa, di un altro celebre spot del marchio. Un volto e un corpo, quello di Irina, che si rivelano senz'altro scelta vincente, perché dotati di incredibile intensità e in grado per questo di emozionare al solo apparire su schermo.

Ecco, l’emozione, quella che da questo spot scaturisce e che nella nostra società dell’immagine non si può spiegare soltanto con il semplice mostrare la bella: occorre uno sguardo, un lavoro di elaborazione che sappia elevare il proprio oggetto a un livello archetipico tale da produrre una forza evocativa e trasmettere, tour-court, l’idea (platonicamente intesa) della bellezza. Il linguaggio delle immagini deve quindi porsi in una posizione dialettica rispetto al corpo che rappresenta per veicolare un “messaggio” e produrre un’emozione. Pertanto, l’aspetto che più colpisce nello spot, realizzato dal regista e fotografo Greg Kadel per l’agenzia Leo Burnett Italia, è principalmente la sua capacità di elaborare il materiale a disposizione nel segno della semplicità, dell’immediatezza e, va da sé, dell’incisività.

A un livello immediato, infatti, colpisce l’essenzialità del set, dove vediamo Irina muoversi in uno spazio dai contorni indefiniti, con indosso soltanto l’intimo e un bracciale: si muove descrivendo quasi una danza, accarezzata dal vento che le muove i capelli e a volte appare decisa e quasi sfrontata nei confronti della macchina da presa, in altri momenti sembra invece come colta in un momento di malinconia, secondo una efficace alternanza che esalta l’ossimoro di una femminilità a un tempo forte e fragile. Diventa in questo modo abbastanza evidente come si voglia riverberare già a livello visivo l’idea della semplicità insita nel modello “Basic” della linea Intimissimi e l’autosufficienza di una femminilità che non ha bisogno di particolari eccessi per risaltare in tutta la sua evidenza.

Su questa base si innesta il gioco di sguardi che è costruito secondo una logica di stratificazione: lo sguardo di Irina innanzitutto, che si rivolge all’obiettivo (e quindi allo spettatore), ma a volte anche agli specchi che le rimandano la propria immagine, costruendo due differenti traiettorie in cui lo spettatore è alternativamente chiamato in causa ma anche escluso dal “possesso” (visivo) di quel corpo così sensuale; ancora una volta, dunque, una femminilità che si offre con sfrontatezza, ma si ritrae anche, come a non aver bisogno d’altro che di se stessa. Il tutto è poi rilanciato dall’astrazione visiva che la moltiplicazione offerta dagli specchi crea sulla figura stessa di Irina, scomposta in una serie di “doppi” che rendono i suoi movimenti puro segno grafico sul bianco dello sfondo, come un tratto di pennello su una pagina, e rivendicano la natura artistica di un’immagine che vuole essere ispirazione di bellezza, donna ma anche musa. Come tale la modella si offre e si espone, ma nel far ciò non evoca, come spesso accade, l’idea di una volgare mercificazione della propria figura, nascosta magari nei piani ravvicinati sul viso e sul corpo che tendano a solleticare i più facili istinti: al contrario la leggiadria dell’insieme, unita all’intensità espressiva della coreografia e all’intelligenza della regia che tiene insieme il tutto con consapevolezza e attenzione, trasmettono un’idea di eleganza molto rara nel mondo della comunicazione usa e getta, dove spesso si preferisce fare appello a sentimenti molto viscerali e immediati sforando nella pura rozzezza.

Infine la musica, ovvero il brano L’amour toujours (I’ll Fly with You), nella versione cantata dall’artista israeliano Sagi Rei, il cui testo ancora una volta evoca l’idea del desiderio, del sogno di poter “avere accanto” la propria compagna. Gli stacchi di montaggio accompagnano il ritmo della canzone creando una sinergia fra le forme espressive dello spot e del videoclip, allo scopo di esaltare le movenze di Irina e rinnovare l’emozione di ogni sua apparizione in ogni inquadratura. Ma l’aspetto più interessante sta nel fatto che la canzone, in quanto cover (di un brano portato al successo in versione dance dal dj Gigi D’Agostino negli anni Novanta), contribuisce a riverberare il gioco dei “doppi” su cui si fonda visivamente lo spot. La canzone è essa stessa un “doppio”, richiamato da uno sfondo immateriale (quello del tempo) per contribuire all’idea evocativa di una bellezza come puro stato dell’essere che si fa emozione. Non a caso il testo, estremamente semplice perché pensato per servire una ritmica ossessiva tipica della musica dance, viene ricontestualizzato e trova nuova forza nella voce potente e aggraziata di Sagi Rei, il quale riesce a rendere emozionante un brano nato con finalità da tormentone, e gli conferisce una inedita dolcezza.

Tutto questo in soli 30 secondi che con la loro brevità sanciscono ulteriormente come la bellezza sia tale quando è fuggevole, un lampo che rischiara il buio e si imprime nel cuore salvo poi sparire quando non se ne può più fare a meno, lasciando lo spettatore preda di una malinconia e di un desiderio che a loro volta si rispecchiano nel duplice sguardo ammaliatore e triste che la stessa Irina ha sfoggiato durante la sua breve apparizione.

Spot Intimissimi Collezione Basic 2009
Regia: Greg Kadel
Agenzia: Leo Burnett Italia
Origine: Italia, 2009
Durata: 30’

Lo spot su YouTube
Sito di Intimissimi
Il brano I’ll Fly with You con testo e traduzione
Il brano originale L’amour toujours/I’ll Fly with you
Pagina di wikipedia su Irina Sheik
Blog dedicato a Irina Sheik
Pagina di Wikipedia su Sagi Rei

venerdì 24 aprile 2009

For a Moment, Freedom

For a Moment, Freedom
 
Tre gruppi di curdi iraniani fuggono dal loro paese ed entrano clandestinamente in Turchia, con l’obiettivo di ottenere dall’UNHCR (l’Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati) il visto per un paese dove possano rifarsi una vita. Il primo gruppo è formato dai giovani Ali e Merdad, insieme ai piccoli Azy e Kian, che sperano di poter raggiungere i genitori in Austria; il secondo è formato da Hassan, sua moglie Lale e il figlio Arman; infine c’è l’anziano Abbas, che condivide la sua esperienza con il simpatico iracheno Manu. Mentre aspettano ognuno la propria occasione, tutti assaporano l’inedita libertà cercando di non farsi scoprire. Le loro vicende umane si intrecciano e portano a differenti destini: c’è chi riuscirà a ricongiungersi ai parenti lontani, chi rimarrà per inseguire un amore, e chi verrà invece arrestato e condannato a morte.

Per un momento, la libertà. Titolo apparentemente semplice quando penetrante, non per ciò che enuncia, ma per il modo in cui lo fa, inducendo nel lettore/spettatore quel senso di precarietà dato dal segno di interpunzione: è come se la libertà evocata e tanto cercata sia in questo modo allontanata ed emergesse soprattutto l’illusorietà dell’unico momento da afferrare per realizzare il proprio sogno.

Il tutto si ritrova poi nella capacità con cui viene modulato il racconto, in modo tale da evitare il facile manicheismo tra l’oppressione perpetrata dal regime della Repubblica Islamica e la libertà offerta dal paese più secolarizzato nel quale i protagonisti si ritrovano dopo la loro fuga. In questo senso, se il racconto è metaforicamente sospeso tra le due esecuzioni capitali su cui la pellicola si apre e si chiude, la libertà tanto agognata è appesa alla precaria necessità di rimediare il visto dell’ONU necessario a conseguire lo status di rifugiati: documento che peraltro non assicura affatto il ricongiungimento con i familiari presenti in altri stati poiché la ricollocazione dei protagonisti è subordinata al complesso sistema di quote di stranieri che ogni paese può legalmente accogliere. In questo senso, fra i tanti spazi delimitati che il film pone in essere, il principale è sicuramente quello descritto da due differenti concezioni della legge, quella che abbraccia una idea di stato oppressivo per le libertà dei singoli e quella che invece dà forma a strutture che, nel tentativo di aiutare i bisognosi, si dimostrano loro malgrado inefficaci. Il film non tace la prima realtà e non nasconde la seconda, attraverso il disperato tentativo di Hassan di ottenere un visto che gli viene rifiutato e che lo porterà a gesti estremi: un momento nel quale si fa più evidente l’aspirazione al modello fornito dal neorealismo e in particolare dal Vittorio De Sica di Ladri di biciclette, rivisitato in un’ottica ancora più cupa e adeguata alla posta in gioco. La scena anticipa peraltro una delle svolte più forti del film, dove la moglie Lale si renderà protagonista di una scelta di grande carattere, utile a ribadire come, in un mondo dove “è necessaria una carta per poter stare con i propri genitori” (come ribadito con tristezza dalla piccola Azy) la posta in gioco è la dignità dei singoli, non barattabile sul piano della burocrazia. Lo scarto, quindi, da legale diventa squisitamente umano e investe in profondità i sentimenti dei singoli individui, fatto che ribadisce la principale qualità del film, ovvero quella di restituire ai personaggi quel senso strappato dalla contrapposizione dei differenti mondi.

Il parallelo con il neorealismo è calzante soprattutto per la volontà palese di dare forma a un racconto popolare che sappia coinvolgere emotivamente lo spettatore attraverso una serie di eventi incrociati che dicono delle caratteristiche primarie dell’uomo e dei suoi bisogni: a quelli più facilmente intuibili (la fame, il freddo) si sommano ovviamente altri più complessi come la necessità di formare un legame affettivo, la rivalità fra Ali e Merdad che si contendono la stessa ragazza, la necessità infine di salvare chi viene sequestrato dai servizi segreti iraniani e torturato. La struttura messa in piedi dal regista Arash T. Riash è variegata non solo perché passa da momenti ironici ad altri più drammatici, ma anche perché sa intervenire sulle singole situazioni: la disperata ricerca di cibo dà quindi vita alla surreale e divertente sequenza in cui lo stralunato Manu (fra i personaggi più memorabili del film) tenta di catturare il cigno di un parco pubblico salvo poi vedersi inseguito dallo stesso, evidentemente molto contrariato dal dover ricoprire il ruolo di preda. Lo stesso animale, o meglio una sua piuma, lascia poi scaturire una scena dallo splendido sapore thriller, quando le autorità penetrano in casa dei due disperati, in cerca del cadavere dell’animale e l’unico segno della sua presenza (la piuma appunto) si sposta nell’aria, passando tra i piedi dei poliziotti senza che gli stessi se ne avvedano. E’ proprio la capacità di evocare scenari e situazioni altre (viene in mente la piuma di Forrest Gump) a colpire in questo racconto che, senza darlo a vedere, è pregno di sentimenti e di amore per il cinema ed estrinseca questa qualità stando addosso ai suoi protagonisti, amandoli e seguendone i destini. 

D’altronde il film non nasconde di muoversi anche sulla linea sottile che separa il cinema di finzione dalla rappresentazione storica: gli eventi sono infatti ispirati a fatti realmente occorsi al regista, fuggito dall’Iran insieme ai genitori quando aveva otto anni e che, nell’elaborare la sceneggiatura lungo quasi un decennio, ha attinto anche alle esperienze di amici comuni. Lo stesso cast è in larga parte composto da attori non professionisti (altro segnale che rimanda al neorealismo) e da autentici rifugiati, che permettono l’amplificazione della qualità umana sopraccitata e che aiutano lo spettatore ad appassionarsi alle vicende, a scoprire come anche nelle situazioni più difficili emergano aspetti precipui del carattere dei singoli (il senso di sfida, quello di solidarietà) e spesso sia il caso a definire le imprevedibili svolte del destino. Tutto questo senza considerare, ovviamente, la possibilità offerta da un film che è un vero e proprio controcampo cinematografico su una realtà spesso celata o poco considerata dal pubblico occidentale. In questo senso il messaggio universale e umano voluto dal regista raggiunge sicuramente il suo scopo regalando una sincera commozione.

Premio Speciale della Giuria al Festival del Cinema Europeo di Lecce 2009.


For a Moment, Freedom
(Ein Augenblick Freiheit)
Regia e sceneggiatura: Arash T. Rihai
Origine: Austria/Francia, 2008
Durata: 110’

mercoledì 15 aprile 2009

Two Lovers

Two Lovers

Afflitto per la fine di un amore, Leonard trascorre le sue giornate fra momenti di profondo sconforto e il lavoro nella lavanderia del padre, quando si ritrova di fronte a una scelta tra due donne che irrompono nella sua vita: la prima è Sandra, figlia dei soci di famiglia, che gli offre la sicurezza di un amore sincero e la possibilità di costruire un avvenire solido; la seconda è invece Michelle, che si è trasferita da poco nel suo palazzo e che è al centro di una burrascosa relazione con un uomo sposato al quale Leonard vorrebbe sottrarla fuggendo lontano. La scelta presuppone rinunce e scontri, ma porterà alla reale felicità?

C’è una forte inquietudine che corre sottotraccia nei lavori di James Gray e che permette agli stessi di innalzare a livello archetipico le storie che raccontano. La linearità narrativa diventa in questo senso pretesto per una profonda riflessione sul senso di appartenenza a una comunità familiare nei cui confronti i protagonisti si pongono (loro malgrado o meno) in una posizione di confronto, anche violento. Two Lovers in questo senso è costruito secondo una specularità perfetta con il precedente I padroni della notte, nonostante l’appartenenza delle due pellicole a generi diversi (questo un mélo, quello un poliziesco). In entrambi i casi è il corpo iconico di Joaquin Phoenix e la sua straordinaria mimica, quell’agire a metà strada fra timidezza e disagio dell’esistere che abbiamo imparato a conoscere da lungo tempo, a costituire il tramite dell’autore e a subire quel processo di attraversamento del dolore che lo porta a modificare una condizione preesistente.

Nel caso specifico la partenza è sul tentato suicidio di Leonard per una storia finita male, cui si accompagna poi una convivenza familiare che appare tutto sommato serena, con i genitori che partecipano emotivamente alle disgrazie occorse al figlio e lavorano per assicurargli quella stabilità umana ed economica di cui il ragazzo ha bisogno. In realtà l’inquietudine che corre sottotraccia è quella di una vita scandita da una predestinazione quasi divina (la storia precedente, lo apprendiamo nel corso del racconto, è fallita per una predisposizione genetica che avrebbe condannato gli eventuali figli della coppia a morte certa) alla quale il ragazzo risponde con una innaturale euforia che lo pone evidentemente come una figura instabile agli occhi dello spettatore, quasi vorace rispetto a una vita che sente sfuggirgli: l’immagine stessa della predestinazione è rafforzata dall’appartenenza di Leonard a una cultura di antiche origini come quella ebraica e nell’invasività (ancorché discreta) dei genitori che, pensando di agire per il suo meglio, lavorano per offrirgli un lavoro stabile e arrivano a “scegliergli” una donna (Sandra) con cui sposarsi.

La variabile mancante in questo discorso è ovviamente quella della felicità reale, che arriva sotto la chimerica presenza di una ragazza (Michelle) che sembra riflettere la confusione del protagonista e nella quale inevitabilmente lui si riconosce: il triangolo che quindi si determina è affrontato da una prospettiva che è unicamente quella dello stesso Leonard. Lui è l’unico a conoscere la situazione in cui si trova, che resta taciuta ai genitori e alle due ragazze interessate (non a caso Michelle si stupisce quando Leonard rivela di essere fidanzato e di non averglielo mai detto, nonostante fra i due ci sia formalmente una grande amicizia) e tale rimarrà fino alla fine. Il punto non è dunque l’innescarsi della classica dinamica del tradimento su cui si poggia spesso il racconto sentimentale, ma il tormento del singolo uomo di fronte a una scelta che presuppone due diverse destinazioni della propria vita: la sicurezza, contrapposta alla turbolenza della passione. Momenti che Gray riassume nelle due scene di sesso che coinvolgono Leonard, l’una (con Sandra) passionale ma tenera, l’altra (con Michelle) vorace e rabbiosa: due sequenze antitetiche anche per la posizione dei corpi (distesi nella prima, in piedi nella seconda) che riflettono le dinamiche in campo (sicurezza e instabilità per l’appunto).

D’altronde altro elemento da tenere in considerazione è la totale mancanza di giudizio dell’autore rispetto alle due donne che la storia pone in essere: entrambe in possesso di pregi e difetti non innescano una elementare dicotomia (la brava ragazza contro quella cattiva), ma piuttosto l’idea di due archetipi di felicità possibile cui solo la sensibilità interiore del protagonista può dare la forma compiuta che permetta la scelta. Questo giustifica anche la diversità fisica delle due, che non vuole ribadire la loro antitesi, ma unicamente la loro forma archetipica, peraltro – ed è un ulteriore segnale di quella inquietudine enunciata, che lavora sul ribaltamento delle apparenze – opposta alla tradizione, con la bruna rassicurante e la bionda inquieta, entrambe bellissime.

Si torna in questo senso alla natura primaria del cinema di Gray, che lavora su concetti che affondano nel mito e nel racconto di matrice biblica, dove la parabola stessa di Leonard diventa infine metafora del figliol prodigo che insegue una felicità apparente salvo poi decidere di tornare a casa. Lo sguardo perso nel vuoto e la lacrima che riga il viso, al pari della fuggevole visione della compagna perduta nel finale de I padroni della notte, raccontano però di una scelta compiuta non senza amarezza nel cuore e andando incontro a rinunce anche forti. E’ un momento emotivamente potente ma narrativamente trattenuto, asciutto, quasi estwoodiano (e in effetti qui come in Gran Torino si parla di appartenenza a una comunità nel cuore di un quartiere americano), nascosto tra le maglie del racconto eppure evidente. Cambia il campo d’azione, la scelta stavolta è quasi indotta dagli eventi più che provocata da una ossessione (che anzi voleva esattamente l’opposto), e il suicidio iniziale viene ribaltato nell’abbraccio finale, ma alla fine non cambia l’esito: il trovare il proprio spazio nel mondo avviene solo con la consapevolezza del dolore che si è attraversato e con cui si dovrà inevitabilmente convivere.

Two Lovers
(id.)
Regia: James Gray
Sceneggiatura: James Gray e Ric Menello
Origine: Usa, 2008
Durata: 110’

Intervista a James Gray
James Gray su Joaquin Phoenix
Sito italiano
Sito ufficiale americano

giovedì 9 aprile 2009

La belle personne

La belle personne
 
Dopo la morte dei genitori, Junie si trasferisce a casa del cugino Matthias e contestualmente si iscrive al suo liceo. La ragazza non tarda a suscitare la curiosità e l’interesse degli altri studenti e ben presto inizia una storia con Otto, tranquillo e rassicurante, ma allo stesso tempo è attratta da Nemours, professore d’italiano dall’aspetto inquieto e malinconico, che si innamora perdutamente di lei. Si innesca in tal modo una dinamica fatta di desiderio e timore che porta Junie a non voler cedere a un sentimento che vede come illusorio e destinato a non durare. Il tutto condurrà a un drammatico finale.

E’ raro imbattersi in un’opera intellettualmente onesta al punto da raccontare il primo amore con rispetto, conferendo dignità ai giovanissimi protagonisti e senza cadere in dinamiche modaiole. Christophe Honoré lo ha fatto, regalandoci una pellicola splendidamente intensa e capace di dimostrare come sia possibile raccontare un’età per molti versi ancora incompresa, come è quella adolescenziale, con lo stesso piglio che si utilizza con storie d’amore più adulte. Vien da pensare che il percorso cinematografico che dal lontano Tempo delle mele ha portato a La belle personne abbia permesso il maturare di una consapevolezza del reale che ha immerso questo tipo di racconto nei sentieri del puro melò, sganciandolo dalle stantie emulazioni della commedia demenziale, nella quale invece stazionano ancora i tristi esempi italiani (si veda a tal proposito il desolante Notte prima degli esami).

Il film risulta pertanto iscritto fra due momenti tragici che scandiscono l’inizio e la fine del racconto: il primo è la morte dei genitori di Junie (la bellissima Léa Seydoux), quello che resta in perenne fuoricampo, ma è continuamente evocato ad ogni snodo narrativo e costituisce una pesante eredità con la quale la giovane deve confrontarsi e sulla quale è modulato il suo agire nei confronti della vita e del nuovo sentimento che le si offre. Un agire trattenuto, sofferto, che si pone in continuità con la sua lunare bellezza e che la porta a essere un corpo che suscita desiderio ma anche un’anima fragile, divisa dai percorsi del destino perché indecisa se accettare la normalità del rapporto con un giovane e rassicurante coetaneo o l’incerto futuro al fianco del professore. Un personaggio che quindi è al contempo causa scatenante delle dinamiche interne all’universo che la circonda, ma anche inconsapevole vittima dei meccanismi che (suo malgrado o meno) innesca. Non che peraltro Nemours sia meno sfaccettato: inguaribile rubacuori (interpretato non a caso dall’iconico Louis Garrell), in continuo movimento fra più relazioni instabili, si ritrova stavolta alle prese con il primo, vero, innamoramento ed è costretto a una maturazione mai affrontata pienamente.

D’altronde che nell’economia del racconto siano i giovani a costituire la vera forza del tessuto sociale è indubbio, mossi come sono da una piena consapevolezza del proprio stare nel mondo, ma comunque inquieti rispetto alla forza trascinante dei sentimenti: sicuramente più maturi di quegli adulti che invece risultano assenti o incapaci di costituire un’idea di certezza (come accade appunto con Nemours). Ne viene fuori un ritratto giovanile che è quello di una microcomunità coesa pur nelle singole differenze, formata da personaggi un po’ dandy e dotati di una spiccata personalità, espressione di una generazione che sa essere anche colta ma non artificiosa, certamente ancora acerba nei confronti della vita, ma in fondo già “grande” nei modi e nei dialoghi. Probabilmente è questo l’elemento che più di altri tradisce la filiazione dal romanzo La principessa di Clèves, scritto da Madame de La Fayette nel 1678.

Il tutto evita pertanto i facili moralismi sulle distanze imposte dai ruoli (lei studentessa, lui insegnante) per lasciar emergere il precipitato umano dei personaggi coinvolti, che appaiono vivi e pulsanti di un sentimento in grado di lacerarli. Sarà proprio questo a condurre la storia verso il tragico momento finale, che arriverà a spezzare l’equilibrio delle distanze, il progredire delle indecisioni, e darà forma alla componente più dolorosa insita nel sentimento, costringendo Junie a una necessaria decisione.

Le strategie amorose che il film pone in essere denunciano inoltre la natura evidentemente superflua del linguaggio, sia esso parlato o scritto, all’interno di una storia dove pure il ruolo della comunicazione è importante, essendo Nemours un insegnante di italiano che però non riesce a dare seguito alle sue certezze, così come accade ad altri ragazzi che vivono i loro amori in clandestinità e le cui lettere finiscono per dare vita a equivoci che ossequiano le dinamiche tipiche del filone sentimentale giovanile, e che qui non sono utilizzate in funzione ironica, ma per amplificare anzi l’impressione di un microcosmo confuso. D’altra parte Honoré dimostra di conoscere molto bene la materia che tratta e gli artifici necessari a creare l’empatia con il pubblico cui si rivolge: va notato a questo proposito anche l’uso estremamente raffinato della musica, i cui testi spesso risultano direttamente esplicativi dei sentimenti che i protagonisti esprimono soprattutto con i gesti, creano straordinarie sovrapposizioni coni i dialoghi (come nell’ultima passeggiata di Otto per i corridoi scolastici dove il ragazzo "canta" le strofe della canzone contemporanemente in sottofondo) oppure diventano poesie da leggere in classe (accade con la celebre Sarà perché ti amo dei Ricchi e Poveri). L’intero insieme dei brani, peraltro, costituisce una colonna sonora che pur nella natura pop dei singoli brani non scade mai nel banale.

Per tutto questo il racconto emerge come raffinato eppure popolare, capace di parlare al cuore di più generazioni e si spera che, dopo l’anteprima al Festival del Cinema Europeo di Lecce 2009 (dove ha vinto il premio per la migliore sceneggiatura), veda presto una distribuzione ufficiale in tutta Italia.


La belle personne
Regia: Cristophe Honoré
Sceneggiatura: Cristophe Honoré, Gilles Taurand, liberamente ispirato a La principessa di Clèves, di Madame de La Fayette
Origine: Francia, 2008
Durata: 90’