"C'è chi crede in dio o nel denaro. Io credo nel cinema, nel suo potere. L'ho scoperto da ragazzino, mi ha aiutato a fuggire da una realtà in cui ero infelice. È una delle forme d'arte più alte che l'uomo ha concepito. Credo nel suo futuro."
(John Carpenter)

sabato 17 ottobre 2009

Up

Up
 
Carl Fredricksen ha trascorso una vita felice insieme all’inseparabile moglie Ellie, con cui sognava di raggiungere il Sud e le cascate Paradiso: dopo la morte della compagna di sempre, però, Carl è sprofondato nell’amarezza di un presente dove biechi speculatori edilizi vogliono strapparlo dalla sua casa e riescono a ordinare che sia internato in un ospizio. Carl però si ribella e con una miriade di palloncini solleva la sua abitazione dal terreno per dirigersi verso il sudamerica. Nella sua incredibile avventura trova l’inaspettato aiuto di Russell, un giovane boy scout intento a guadagnarsi la sua ultima medaglia per assistenza agli anziani.

 
La levità con cui i palloncini sollevano la casa dell’anziano signor Fredricksen è la stessa che guida la mano di Pete Docter nel realizzare un capolavoro come Up. La capacità della Pixar d’altronde, sta proprio nel suo essere capace di rivoluzionare le categorie cinematografiche canoniche dando l’impressione di raccontare una storia come tante (e quindi nel realizzare opere che sono già dei classici nel momento in cui escono). Ecco dunque che forse dovremmo cambiare la nostra prospettiva sull’operato della casa di produzione americana, e considerare i suoi registi e tecnici come cantori di un cinema elementale: Up è un film “aereo”, che veleggia fra le nuvole del suo folgorante corto introduttivo (Parzialmente nuvoloso) e guarda dall’alto il passato e il presente. Che sono i tempi dell’anziano protagonista, ma anche quelli del cinema.
 
E’ infatti difficile non vedere nella parabola di Carl e nel confronto transgenerazionale con il giovanissimo boyscout Russel una rilettura di temi al contempo eastwoodiani e spielberghiani. Fredericksen condivide infatti con il Walt Kowalski di Gran Torino l’incapacità di stare in un tempo che si è visto scivolare tra le dita: nel caso specifico ciò è avvenuto attraverso un amore di grandi speranze e di malinconici esiti. Qui il film gioca una delle sue carte più strabilianti, attraverso una parabola di vita raccontata in pochi minuti con delicatezza estrema e profonda empatia verso questo giovane/anziano sognatore che non riesce a diventare, nonostante tutto, totalmente incanaglito come il reduce eastwoodiano: proprio per questo, anzi, egli riesce a produrre quel colpo d’ali che trasporta la sua casa nel cielo regalandoci l’immagine simbolo del film, quasi uscita da un’invenzione chapliniana o dalla Disney del passato, magari presa dalle opere del sottovalutato Robert Stevenson (possibili associazioni potrebbero infatti essere il letto volante di Pomi d’ottone e manici di scopa o le magie di Mary Poppins), senza dimenticare il Maestro Hayao Miyazaki, che in casa Pixar è considerato amico e punto di riferimento.
 
D’altronde la posta in gioco è cercare di ritrovare il proprio posto nello scorrere incessante della vita e per questo l’avventura ha un che di iniziatico e al contempo di risolutivo, con un eroe anziano che tenta di perseguire il sogno perennemente procrastinato e si ritrova a confrontarsi con un giovane compagno, sorta di proiezione moderna del suo giovane io sognatore, e infine con l’idolo d’infanzia, che si rivelerà però un personaggio alquanto gretto e meschino. La dinamica oppositiva fra un’infanzia spensierata corrotta dalla verità pragmatica del mondo adulto rilegge, come specificato in precedenza, i temi del cinema di Steven Spielberg, ma la prospettiva rivoluzionaria è data dal punto di vista di un anziano. In questo senso Up diventa il film della maturità che Spielberg non è ancora riuscito a regalarci, in cui l’amarezza di un passato da superare si trasfigura nella necessità di costruire un futuro anche quando il tempo sembra ormai arrivato al proprio limite: la finalità, d’altronde, sta tutta nella rinnovata immersione all’interno del fluire temporale. 
 
Così Fredricksen non officia il proprio funerale rituale come Kowalski, ma al contrario abbandona suppellettili e memorabilia della sua casa-memoria per lanciarsi in un’impresa che finalmente davvero recupera lo “spirit of adventure” sognato da ragazzo per fermare la grottesca deriva di chi si poneva a modello di intraprendenza e invece è rimasto ossessivamente, quasi conradianamente, ancorato a una missione di velleitario riscatto. Il passaggio è simboleggiato in maniera struggente dalla scoperta delle foto inserite dalla compagna Ellie fra le “cose da fare”, in quella sezione del “Libro delle mie avventure” che immaginiamo Carl non avesse mai sfogliato, convinto com’era che quelle pagine fossero rimaste bianche a causa dei sogni mai avverati e dei risparmi accumulati ma spesi per riparare una gomma sgonfia. Qui Carl scopre che tante “cose da fare” avevano in realtà trovato la loro concretazione in una vita felice della propria normalità (che non vuol medietà, fatto che dribbla qualsiasi sterile accusa di “buonismo”) e che ora è tempo di andare avanti in una nuova avventura.
 
Qui, le sequenze con protagonista il povero “struzzo in technicolor” Kevin, rinnovano il sentore spielberghiano del baluardo di innocenza, come il mai dimenticato E.T. o il Bumblebee del primo Transformers, entrambi vittime della stoltezza umana. Così come il dirigibile fa pensare all’Indiana Jones (anch’egli impegnato in un confronto transgenerazionale) dell’Ultima crociata. Il cinema torna dunque centrale per descrivere la vita e la forza cinetica di un corpo anziano che però combatte, aiutato da improbabili invenzioni che spezzano la verosimiglianza che fino a quel momento ci aveva fatto credere quasi di trovarci di fronte a un possibile Live Action (sensazione acuita da un eccellente e realistico uso del 3D) per ripiombare nella fantasia dell’animazione che ci permette di credere a una bellissima favola di rinascita: ecco dunque l’irresistibile corte dei cani parlanti, con in testa il buffo Doug, anch’egli smanioso di trovare un proprio posto in una comunità.
 
Il finale però è ancora una volta reale, intimista, e permette ai due personaggi principali di dare finalmente compimento a una dinamica rimasta latente per tutta la durata della storia e di accettarsi come legati da un sentimento filiale. Capolavoro.

 
Up
(id.)
Regia e sceneggiatura: Pete Docter, Bob Peterson
Origine: Usa, 2009
Durata: 106’
 

1 commento:

Angelo Moroni ha detto...

Si, assolutamente capolavoro. Pensa un pò che io l'ho visto "transegenerazionalmente" insieme ai miei due figli e uno dei due era la prima volta che andava al cinema. E' rimasto incollato al grande schermo per tutte le quasi due ore (vedere un bambino di 4 anni con gli occhialini 3D è un'esperienza impagabile). Bella recensione, che rispecchia l'amore per l'"Oggetto-Vita", che risuona e riverbera in questo film così avventuroso (come la Vita appunto, che anche per questo è infatti pericolosa, perchè può far morire).