"C'è chi crede in dio o nel denaro. Io credo nel cinema, nel suo potere. L'ho scoperto da ragazzino, mi ha aiutato a fuggire da una realtà in cui ero infelice. È una delle forme d'arte più alte che l'uomo ha concepito. Credo nel suo futuro."
(John Carpenter)

sabato 25 dicembre 2010

Racconti di Natale

Racconti di Natale

Con una punta di cinismo penso si debba “ringraziare” più la componente consumistica di quella religiosa se il Natale è ancora un momento così centrale nell’immaginario di tutto il mondo. Più difficile è invece trovare un’immagine, un volto o un filmato che sia ricollegabile in modo diretto e universale alla festa. Le carte sono scompaginate da mille schegge impazzite che si agitano nelle nostre menti e spesso creano i collegamenti più improbabili. Ad esempio: qualcuno si è mai chiesto cosa abbia reso un film assolutamente caustico e geniale (oltre che diabolicamente profetico) come Una poltrona per due un classico delle feste? Mistero! Basterebbe l’immagine di Dan Aykroyd prossimo al suicidio per rendersi conto di come non esista pellicola più lontana dall’aura zuccherosa che spesso connota il 25 dicembre.

Sarebbe più logico eleggere ad evergreen per eccellenza delle feste La storia di Babbo Natale di Jeannot Szwarc: ma qualcuno lo ricorda? Pensato sicuramente con l’intento di farne un eterno “ritornante” delle feste, aveva tutti gli elementi del genere: esplorazione della “verità” dietro l’icona, bontà profusa a piene mani e persino un piccolo intrigo. Bene, è caduto immediatamente nel dimenticatoio e non si vede in giro da decenni!

Certo, non è questione soltanto di standardizzazione, perché a volte l’oblio tocca anche progetti assolutamente bizzarri. Cercando immagini per accompagnare queste righe mi sono infatti imbattuto nel misconosciuto Santa Claus Conquers the Martians, pellicola natalizio-fantascientifica diretta da Nicolas Webster nel 1965, che già dal titolo sembra lo scult-movie per antonomasia! Da recuperare sulla fiducia, anche se è nella top ten dei peggiori film natalizi di sempre (link in calce).
 

Meglio allora affidarsi ai classici consolidati, come La vita è meravigliosa o, ancor di più alle varie versioni del Canto di Natale di Charles Dickens: l’ultima trasposizione, a cura di Robert Zemeckis, nonostante il favore con cui è stata accolta, sconta quell’artificiosità che connota tutti gli ultimi titoli dell’autore a causa della motion-capture che nell’era di Avatar appare terribilmente obsoleta e nemmeno capace di risultare calorosamente retrò. Meglio anche in questo caso scegliere una delle tante trasposizioni precedenti, io punterei su quella della Disney, Il canto di Natale di Topolino, anche se a onor del vero la mia preferita è S.O.S. Fantasmi (ma quanto è più bello il titolo originale Scrooged!), diretto dal tuttofare Richard Donner e gratificato dalla presenza stralunata di Bill Murray, uno di quei personaggi che anche nel ravvedimento finale non convince mai più di tanto, e può pertanto lasciare la porta aperta all’idea che, sì, Scrooge è diventato buono, ma forse no, chissà…
 

Infine un ricordo fumettistico, con la mitica storia And All Through the House, pubblicata su The Vault of Horror della EC Comics, con il Babbo Natale assassino, ispiratore di molte pellicole e che ha avuto pure un’ottima trasposizione ufficiale nella serie televisiva Tales From the Crypt. E indovinate chi era il regista? Robert Zemeckis! Quando si dice il caso…

Auguri di Buon Natale a tutti!!



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lunedì 20 dicembre 2010

Tron

Tron

Il programmatore di computer Kevin Flynn tenta di espugnare il Master Control Program della ditta Encom, per vendicarsi del suo amministratore delegato Dillinger, che ha rubato le sue ricerche. Il Master Control però sta gradatamente evolvendosi e rischia di inglobare l’intero sistema informatico mondiale, fino a diventare una autentica minaccia. Flynn trova aiuto nei colleghi Lora e Alan: quest’ultimo ha anche inventato un nuovo programma, battezzato “Tron”, per entrare all’interno del sistema e abbatterlo. Flynn però viene colpito dal raggio di un laser sperimentale allo studio della Encom e in questo modo si ritrova all’interno dell’universo virtuale: qui deve lottare al fianco di Tron per sconfiggere la tirannia del Master Control.

Ora che il sequel sta per invadere le sale cinematografiche, viene giustamente da chiedersi che senso abbia recuperare un autentico oggetto d’avanguardia sepolto dalla polvere del passato come Tron, che rischia (come è successo, si veda il primo link in calce) di non essere capito dalle nuove generazioni di spettatori, ormai abituate a ben altre meraviglie tecnologiche. Un prodotto datato, dunque, ma che in realtà ha ancora qualcosa da insegnare, nella misura in cui sia contestualizzato nel momento in cui venne prodotto e nei fermenti che lo agitavano.

Può infatti apparire ancor oggi sorprendente l’idea che uno Studio come la Disney abbia confezionato quello che appare come un prodotto settario e tarato sulla lunghezza d’onda di una gioventù informatizzata: a differenza dei titoli odierni in cui non si può mai recedere dallo spiegare per bene i termini e le coordinate dell’universo messo in scena, Tron non si preoccupa particolarmente di questi aspetti e sembra a tratti parlare una lingua che è per pochi. Chiaramente al fondo soggiace una struttura avventurosa abbastanza classica, con il gruppo di ribelli che deve sconfiggere l’oppressore di turno, ma nel complesso l’insieme è sfuggente e poco incline all’universalismo del cinema blockbuster.

Tron, in fondo, nasce in quel particolare momento storico in cui la Nuova Hollywood sta ricostruendo l’immaginario, portando alla ribalta linguaggi nascosti e realtà altrimenti considerate marginali ed è chiaramente figlio del positivismo lucasiano e del successo di Guerre stellari. A posteriori è comunque più interessante notare lo scambio reciproco d’influenze che il film di Steven Lisberger ha intrattenuto con la saga degli Skywalker perché, se è vero che l’idea di base è una autentica parafrasi della lotta dell’Alleanza Ribelle contro l’Impero Galattico, nei fatti ci sono alcune trovate visive che lo stesso Lucas riprenderà nella più recente “nuova trilogia” stellare, in particolare per l’idea del veliero galattico e per il design delle città (dove si nota la spinta avanguardista e ben poco classica impressa dagli artisti concettuali Syd Mead e Moebius).

Proprio l’iconografia peraltro è l’autentico terreno di scontro sul quale Tron gioca la sua partita, nel passato e nel presente: infatti, rivisto oggi, il film colpisce non per quanto datati siano gli effetti, ma perché il mondo che pone in essere non ha alcuna ambizione di definirsi reale, anzi segna uno scarto voluto e marcato con l’universo “di fuori”. E’ ancora troppo presto per i confronti, ma dalle immagini finora lasciate trapelare sembra che proprio questo scarto si sia ridotto nel sequel (dal quale peraltro qui ci si aspettano grandi cose, la critica non è affatto preventiva), figlio naturalmente di una concezione dell’effetto speciale come elemento fotorealistico e pertanto credibile, pur nella sua inverosimiglianza.

Anche in questo caso Tron poggia su basi preesistenti, che sono quelle della cultura psichedelica: il mondo virtuale non è un universo alternativo che intende essere credibile, ma al contrario un alveo fantastico che riscrive continuamente se stesso secondo logiche difficilmente definibili e che sfociano nel puro esercizio della visione. Come il trip finale di 2001: Odissea nello spazio, piegato a una logica per l’appunto lucasiana, l’altrodove di Flynn è un autentico “viaggio” sensoriale che basta a se stesso in quanto ragione d’essere del racconto. E che pertanto ossequia quel sense of wonder che la moderna logica dell’effetto speciale ha sovente perduto in nome dell’ossessione fotorealistica.

Lo scarto che dunque passa fra logiche matematiche dei “programmi” e dei codici necessari a porre in essere l’universo virtuale, e lo spazio immateriale e autenticamente fantastico che da questo si genera è l’autentico punto di fuga che permette al film di superare la propria inattualità: Tron, insomma, non è il frutto di un ingegno e di una tecnica ormai superate, ma al contrario di scelte stilistiche ben precise e non più replicabili. Oltre che di un’epoca in cui la fantasia intendeva ancora porsi al potere e rovesciare i sistemi basati sul controllo della materia e dell’immaginario.

Non è un caso che il Flynn di Jeff Bridges (scelta di casting intelligentissima e terribilmente stimolante alla luce di futuri exploit dell’attore come Starman e Il grande Lebowski) appaia come un perenne alieno, fuori schema sia nel mondo reale (dove è un outsider) che in quello virtuale (unico “creativo” fra tanti programmi): non a lui è infatti dedicato il titolo, che lo relega invece nel ruolo dell’interfaccia per lo spettatore, lungo il viaggio che porterà la realtà a latere a diventare centrale nel nuovo immaginario.

In fondo è questo che Tron vuole: essere recuperato e compreso nella sua essenza, al di là delle facili apparenze e degli schemi precostituiti.


Tron
(id.)
Regia e sceneggiatura: Steven Lisberger (storia di Steven Lisberger e Bonnie MacBird)
Origine: Usa, 1982
Durata: 96’

I manifesti di Eric Tan

venerdì 17 dicembre 2010

Blake Edwards forever!

Blake Edwards forever!

Siamo impreparati a salutare artisti come Blake Edwards. Non è tanto questione che li crediamo immortali, ma che semplicemente non accettiamo l’idea che possano andarsene. E se non girano da tempo (l’ultimo film, Il figlio della pantera rosa, è del 1993) siamo sempre lì ad aspettare che tornino. Perché alla fine i grandi tornano sempre, vedi Coppola, Malick, Carpenter…

Invece Edwards, come Billy Wilder o Robert Wise, non era tornato e, diversamente dal secondo, non era nemmeno diventato uno di quei registi-ambasciatori di cinema, che restano comunque sempre sulla breccia e si godono i tributi di questa o quella retrospettiva. Persino il suo ricevere l’Oscar alla carriera nel 2004 era sembrato quasi un suo gesto di cortesia nei nostri confronti. Chissà, forse era consapevole di quanto il suo cinema ci mancasse. Di quanto in fondo lo spettatore sia sempre un po’ egoista nel suo costringere gli artisti a un continuo ritorno dietro la macchina da presa.

E quindi oggi coltiviamo questo egoismo, semplicemente non accettando il fatto che Edwards non ci sia più. Un vecchio adagio cinefilo afferma che in fondo degli artisti non si parla mai al passato, perché le loro opere restano eterne, ma in questo caso il discorso è un po’ più sottile, perché in fondo Edwards il passato non lo ha mai veramente vissuto, lui era già avanti. Era in quella linea di confine fra classico e moderno, soprattutto considerando come i suoi stessi film galleggiassero in quel limbo sottile che divide la commedia dal comico e fossero capaci di coprire una gamma espressiva che va dall’ironia alla risata grassa. Grande narratore e abile creatore di maschere, Edwards subisce insomma quel particolare transfert che lo porta a identificarsi con il mitico Ispettore Clouseau (per ammissione modellato su se stesso), ma che nella nostra mente è invece sostituito dal Sir Charles di David Niven ne La pantera rosa: ironico, elegante, gran furbacchione e capace di trarre divertimento dal reale.

In effetti, se poi andiamo a ripercorre la sua filmografia, ci rendiamo conto che in fondo i personaggi di Edwards sono così: la loro percezione è diversa dalla loro reale sostanza, basti pensare anche alla Julie Andrews di Victor Victoria o alla Ellen Barkin di Nei panni di una bionda. Uno iato che delinea una ricerca stilistica continua, ma anche una critica netta alla follia che muove il mondo. Quella che a volte esplode con virulenza drammatica, come accade nel poco visto I giorni del vino e delle rose, uno dei capolavori che da tempo merita di essere recuperato. Speriamo che almeno questa sia l’occasione giusta.
 

martedì 14 dicembre 2010

Noi credevamo

Noi credevamo

1828. Domenico, Angelo e Salvatore sono tre giovani abitanti del Regno delle Due Sicilie che, stanchi dell’oppressione cui sono sottoposti dal sovrano, decidono di affiliarsi alla Giovine Italia di Giuseppe Mazzini e perseguire così un ideale rivoluzionario che porti alla costituzione di uno stato italiano unitario e repubblicano. I tre, nel corso del tempo, devono scontrarsi con ideali frustrati, continui fallimenti, cambi di fronte, fino a un’unificazione che avverrà in modo molto diverso da quanto da loro auspicato.

L’uso dell’imperfetto nel titolo si presta a molteplici interpretazioni: è naturalmente il sintomo di un’ideale politico ormai perduto, sepolto in una gioventù di belle speranze che però si sono scontrate con la dura realtà dei fatti: quella, in sostanza, che ha visto l’unificazione italiana frutto di molti compromessi, intrighi e sangue versato invano. Ma, allo stesso tempo, è anche l’emblema della voglia di riappropriarsi di un periodo che fondava se stesso sul sentimento del credere in un ideale. Quest’ultimo aspetto è quello che lo sceneggiatore Giancarlo De Cataldo ha più volte rimarcato in occasione di interviste e incontri pubblici, come motore trainante di un’operazione che intende riportare il Risorgimento al centro della discussione pubblica, svecchiandolo dall’immobilismo imbalsamato nei ricordi scolastici.

L’intento avviene però in modo trasversale, rinunciando all’enumerazione dei fatti storici, negando la visione delle Guerre d’Indipendenza, della Spedizione dei Mille, e persino dei volti più noti quali Garibaldi, raffigurato come un’ombra sull’alto di un pendio costiero, in una delle sequenze più emozionanti del film. Proprio un momento del genere, l’unico in cui il film sembra finalmente abbracciare un respiro epico abbastanza negato nella prima parte del racconto, restituisce bene l’idea della metafora per l’ideale che si intende inseguire: il Mito di Garibaldi, prima ancora della sua presenza fisica e storica. Poiché il Mito è ciò che realmente spiega i sentimenti che animarono i giovani nell’avventurarsi alla liberazione dell’Italia. Troppo alto è infatti il rischio di ridurre altrimenti l’uomo alla stregua di quel Mazzini che, nell’interpretazione di Toni Servillo, diventa invece un’autentica maschera da commedia dell’arte, nel suo completo nero perfettamente “in parte” e l’espressione perennemente grave che solo nei deliri della vecchiaia riesce a uscire da se stesso, dopo la lunga sequela di fallimenti.

D’altronde, dietro la macchina da presa non c’è un regista qualsiasi, men che meno un autore alla Michele Placido che abbracci in pieno la causa del racconto di grande respiro per tracciare le coordinate dell’Italia di ieri e di oggi, fra intrighi e personaggi di grande spessore, in cui tragedia e farsa inevitabilmente convivono. Mario Martone è viceversa un autore consapevole della portata teorica insita nel linguaggio cinematografico e nella rievocazione del passato, e per questo il “suo” Risorgimento è prima di tutto un’operazione sul concetto stesso di messinscena di un passato noto per l’interposizione delle memorie già depositate. Diventa quindi un passato da ricollocare in un’ottica umana, attraverso lo spazio conferito a volti minori e a tre amici che seguono percorsi diversi (approccio, quest’ultimo, che ricorda quello della riduzione cinematografica di Romanzo Criminale, anch’esso scritto da De Cataldo); ma anche un passato che sia metafora di una condizione che si sarebbe riversata nel presente, da cui alcuni piccoli anacronismi, il più evidente dei quali è l’”ecomostro” in cemento armato che spunta nella campagna.

Di più: Martone porta la sua riflessione sugli ideali risorgimentali a un livello metanarrativo lavorando anche sul concetto di messinscena, evocando i ritmi degli antichi sceneggiati televisivi e una certa teatralità del linguaggio: l’idea è che, nel mettere mano a un passato già scritto e da rivedere, non si possa sfuggire al riverbero di quello che l’arte e la Storia ci hanno infuso lungo i decenni. Di più: di come l’arte stessa in fondo fosse parte integrante di quel coacervo di sentimenti ed emozioni che agitavano quei giorni contrastati. Ecco dunque che, accanto al tentato regicidio che avviene all’esterno di un teatro, altrettanta importanza ha la sequenza in interni, in cui il pubblico rifiuta una rappresentazione troppo audace e “avanti” per i tempi, scatenando la reazione di una Cristina di Belgiojoso (una splendida Francesca Inaudi) che imputa alla gente del suo tempo di non capire quei fermenti che l’arte ha già imparato a intercettare a meraviglia.

Pertanto, il film è molte cose insieme, è il racconto di un fallimento che però non intende accettarsi come tale, ma vuole essere invece terreno di confronto per capire gli errori del passato, che spesso hanno il sapore di anticipare gli sbagli del presente; è anche il tentativo di generare una sana empatia per quelle persone che credevano; ed è anche una bella lezione di cinema sulla forma del racconto storico e sulla sua possibilità di contenitore di generi cinematografici, dal dramma umano e familiare, allo spionistico, fino a un finale dal sapore quasi western. Aspettiamo la versione integrale.

Noi credevamo
Regia: Mario Martone
Sceneggiatura: Mario Martone e Giancarlo De Cataldo, liberamente ispirata al libro omonimo di Anna Banti
Origine: Italia, 2010
Durata: 170’ (versione cinematografica)

giovedì 9 dicembre 2010

The Ward: Il reparto

The Ward: Il reparto

Siamo negli anni Sessanta. Kristen viene arrestata dopo una fuga nel bosco culminata nell’incendio di una casa: un gesto apparentemente folle e senza motivo, che le procura una detenzione in un ospedale psichiatrico. In particolare la ragazza finisce in una sezione (chiamata “il Reparto”) insieme a quattro altre pazienti, tutte affette da disturbi psichici più o meno evidenti. Una misteriosa presenza sembra però minacciare le ragazze e quando una ad una iniziano a sparire, Kristen capisce che l’unica via di salvezza è la fuga.


Uno spazio chiuso è il territorio ideale per John Carpenter, da sempre interessato a concentrare l’azione in ambienti oppressivi: la visione del nuovo e attesissimo The Ward, però, chiarisce come, più che di luogo chiuso, il suo cinema sollevi il problema della percezione di uno spazio, che può risultare mutevole a seconda delle situazioni. In effetti, l’aspetto più interessante del film sta nella sua capacità di rendere il Reparto (il “Ward” del titolo) come un luogo “poroso”, in cui le detenute possono muoversi liberamente e, nel corso dei loro tentativi di fuga, scoprire percorsi nascosti e nuove stanze. Spostandosi lungo i corridoi, i condotti d’areazione e i piani dell’edificio, le ragazze sono sempre accompagnate dalla macchina da presa, vigile nei soliti, magistrali, carrelli carpenteriani che, una volta di più, diventano l’emblema di uno sguardo che si fa mappatura di uno spazio, in una percezione alterata perché costretta a una continua riscrittura delle coordinate spaziali.

Lo spettatore sarà così costretto altresì a rinnovare periodicamente la sua cognizione del Reparto, in un gioco di rispecchiamenti con la protagonista, che pure dovrà condurre un personale percorso di ricostruzione del proprio io, fino alla verità finale, reiterando così quel divario fra essere e apparire che da sempre trova banco nel cinema del regista americano. C’è naturalmente una componente di grande divertimento che il Maestro lascia trapelare, il piacere della messinscena di questo ambiente proteiforme, che produce una rinnovata tensione, lungo una narrazione stringata e capace di non perdere un colpo.

Pertanto si torna al problema già sollevato in passato da Essi vivono o dagli allucinogeni di Fantasmi da Marte, via prediletta per non perdere la percezione del sé e liberarsi del parassita alieno che infetta il corpo: la visione è ingannatrice e lo spazio può essere manipolato da elementi esterni o interni, che traccino la linea di confine fra la realtà e la follia. La percezione dello spazio diventa così non fisica quanto emotiva, legata alla condizione soggettiva di una protagonista che è tramite per lo spettatore, sul quale si riflette non solo il sopraccitato problema della cognizione dello spazio detentivo, ma anche quella tensione febbricitante che non di rado il film esplicita attraverso inquadrature distorte: sono i momenti in cui Kristen è sottoposta a terapie invasive, a somministrazione di calmanti, ma anche quelli in cui emergono scampoli del suo passato, dove forse si trova la spiegazione del gesto iniziale.

Nonostante questo, però, il film non si bea di possibili derive visionarie, apparendo invece estremamente materico e classico nella messinscena, secondo uno schema che rimanda ad Halloween: l’intento è quello di riscrivere lo spazio di una realtà che comunque è per la maggior parte del tempo avvertita come riconoscibile e condivisa, in modo di lasciare maturare solo a posteriori la cognizione della menzogna messa in atto. In questo senso The Ward è anche avvertibile come un ritorno che il regista compie attraverso alcuni luoghi tipici del suo cinema, in una deriva antimoderna che ne fa un puro esempio di film in controtendenza alle recenti mode del genere. Carpenter in questo senso è stato molto chiaro nel definirlo an old school horror movie made by an old school director e, al pari di colleghi come il Joe Dante di The Hole, sembra cercare il punto di fuga in una esemplificazione del materiale narrativo, che rende la vicenda estremamente lineare e fruibile in immediatezza.

Possiamo pertanto pensare all’avventura di Kristen come a un’esperienza contigua a quella che negli stessi anni vedeva il giovane Michael Myers covare la sua follia sotto lo sguardo vigile del dottor Loomis in un altro ospedale psichiatrico: in fondo si tratta di circoscrivere ancora una volta un periodo fondativo della perdita d’innocenza, come già avveniva con gli anni Sessanta del rimosso capolavoro Elvis e dell’appena citato Halloween, fino al futuro/passato di matrice western di Fantasmi da Marte e i Fifties di Christine.

In tutti questi casi, matrice comune è il viaggio di un(a) protagonista che deve prendere coscienza e consapevolezza di questa acquisita mancanza del sé e della propria innocenza, imparando a introflettere il Male che credeva provenire dall’esterno. I fantasmi, insomma, sono ancora una volta gli stessi.


The Ward: Il reparto
(The Ward)
Regia: John Carpenter
Sceneggiatura: Michael e Shawn Rasmussen
Origine: Usa, 2010
Durata: 88’

giovedì 25 novembre 2010

Torino 2010

Torino 2010

Quando, alcuni giorni fa, la consueta conferenza stampa ha rivelato il programma del Torino Film Festival 2010 si è avvertita una strana sensazione. Forse sbaglio, ma l’impressione è che la qualità delle scelte abbia sorpreso una stampa impigrita dalla vuota ipertrofia romana e dalle (pretestuose) polemiche post-Venezia. Come se il festival torinese fosse un fulmine a ciel sereno che, con le sue promesse di qualità, arrivava a scompaginare le carte di chi già aveva fatto tutti i bilanci possibili sull’annata.

Naturalmente bisognerà attendere la chiusura dell’edizione, ma fin d’ora si può affermare che una simile sorpresa può arrivare solo da chi continua a sottovalutare il miglior festival di cinema d’Italia, un appuntamento che negli anni non ha mai fatto mistero di preferire la qualità e la diversificazione dell’offerta ai nomi. Che pure stavolta non mancano: del colpaccio di proporre l’attesissimo The Ward di John Carpenter ho già scritto (e al Maestro è dedicato anche il video dalla Rete della settimana nella colonna a destra). Aggiungo allora la chiusura affidata all’immenso Clint Eastwood con il nuovo Hereafter! Altro che l’inutile palleggiamento di romavenezia su Malick sì/Malick no. Il regista de La sottile linea rossa è un’istituzione e mai nessuno potrebbe sognarsi di definirlo trascurabile, ma esiste tanto altro cinema che di fronte a questi ridicoli tormentoni è stato letteralmente messo da parte. Ecco, mi piace allora pensare che l’edizione 2010 del Torino Film Festival servirà a rimettere al centro le cose che contano, al di fuori di tutto.

E dunque retrospettiva John Huston (che già da sola basterebbe a chiudere ogni discorso), sezione “Rapporto confidenziale” dedicata all’horror (finalmente tornato in grande spolvero dopo il digiuno del buio biennio morettiano), il programma di “Onde” che promette scintille con il controverso L.A. Zombie, senza poi dimenticare il doveroso omaggio all’amico Corso Salani. Infine il cinema italiano rappresentato dall’interessante Alessandro Piva e, per chi proprio non può fare a meno del pizzico di glamour, ecco l’anteprima di Burlesque con la pop-star Christina Aguilera.

Insomma un programma poderoso, di cui altri si sono divertiti a snocciolare tutte le cifre. Già, poderoso: magari un festival che ha una così generosa tradizione di bel cinema e grandi scoperte potrebbe anche lasciare un attimo da parte la corsa all’ipertrofia, che sembra tipica piuttosto di chi deve dimostrare la sua importanza solo attraverso i numeri. E’ l’unica critica preventiva che mi sento di fare. Per il resto l’appuntamento in sala all’ombra della Mole si rinnova anche quest’anno. E questo è l’importante.


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Torino 27: il ritorno

lunedì 22 novembre 2010

Porco Rosso

Porco Rosso

1929. Marco Pagot è un aviatore deluso dall’umanità e che per questo vive facendo il cacciatore di taglie a danno dei pirati dell’aria. La sua fama di asso del Mare Adriatico è indiscussa e la gente lo chiama “Porco Rosso” da quando un maleficio gli ha fatto assumere sembianze di maiale. Porco trascorre così le sue giornate fra avventure aeree a bordo del suo idrovolante vermiglio, e serate all’Hotel Adriano dove canta l’amica Gina, segretamente innamorata di lui. Gli eventi prendono una piega inaspettata quando i pirati dell’aria assoldano un asso dei cieli, l’americano Curtis, per sconfiggerlo. Porco trova però aiuto nella giovane Fio, che lo aiuta a rimettere insieme il suo idrovolante e lo accompagna nell’avventura finale.

 
L’arrivo nelle sale di un capolavoro come Porco Rosso ha un’importanza molteplice: intanto perché finalmente permette di avere disponibile in italiano tutta la filmografia di Hayao Miyazaki (stante la non facile reperibilità che ancora circonda alcuni titoli come Nausicaa e Laputa), e di conseguenza perché chiarisce meglio il percorso compiuto dall’autore prima di assurgere alla fama internazionale con i successi di Princess Mononoke e La città incantata.

Porco Rosso, infatti, più che un semplice tassello di una poetica rappresenta una sublimazione dei temi e delle figure retoriche care al regista giapponese: la sua fama di pellicola a metà strada fra paradigma e sintesi del cinema miyazakiano si scontra con una levità narrativa molto distante dai capolavori più recenti, che ci restituisce un Miyazaki solare e divertito nella messinscena di questa irresistibile epopea di avventure aeree. La fascinazione per il volo, da sempre presente nelle pellicole dell’autore, non è dunque un semplice tema da trasferire asetticamente sullo schermo, ma è la sintesi di un dinamismo e di una leggerezza figurativa che il film fa sua a ogni livello. Basterà infatti notare come il film non contempli sostanzialmente figure negative, poiché anche i nemici sono comunque tratteggiati con un’ironia che riconduce tutto alla matrice del gioco. Gli stessi pirati dell’aria sono figure che non spaventano chi li affronta e si lasciano dominare persino da una torma di bambine, nella scoppiettante sequenza iniziale (che sembra guardare all’innocenza di Totoro).

In questo senso (e l’ambientazione fra le due guerre lo ribadisce) Porco Rosso è il film attraverso il quale Miyazaki stabilisce il suo ruolo di allievo rispetto a una concezione del cartooning basata sullo studio e la coloritura dei caratteri e sull’ironia come filo conduttore della narrazione. Da sempre associato al nome di Walt Disney, il regista giapponese dimostra invece di avere cara soprattutto la lezione dei fratelli Fleischer, oltre naturalmente ai Pagot cui è legato da personale amicizia e che qui omaggia con il nome del protagonista. L’aspetto più interessante, però, sta nello sfasamento temporale di cui siamo testimoni, in quanto spettatori che assistono alle imprese di Porco a 18 anni dalla realizzazione. La figura dell’aviatore disilluso e che per questo si ritira nel suo eremo stabilendo con il mondo un contatto al di sopra delle fazioni, è l’esatto contrario di quell’Howl che con il suo castello si muove per stabilire la sua non appartenenza a un luogo, ma nel suo intimo ribolle per una guerra che sente come una minaccia presente e vicina e contro cui scatena la sua magia. La disillusione dell’eroe instaura quindi una dialettica a distanza con il Miyazaki più maturo, che sembra altrettanto amareggiato dal procedere degli eventi e che elabora questa sua frustrazione con l’estetica del disastro (pensiamo alla violenza contro la natura di Princess Mononoke o allo tsunami di Ponyo sulla scogliera).

Qui al contrario siamo ancora nella fase in cui la disillusione si accompagna a un’intima speranza di rifondazione dell’universo, cui lo sguardo del regista si rivolge con un perenne affetto. Ed è interessante notare come tale rifondazione avvenga proprio tramite una di quelle figure femminili che il regista ha sempre elevato a protagoniste dei suoi capolavori. La piccola Fio rappresenta infatti il bilanciamento fra la prospettiva sghemba di un Porco che è elemento “altro” rispetto al reale e le più problematiche donne dei recenti lavori che invece sembrano farsi carico delle frustrazioni dell’eroe e dello spettatore (pensiamo a Chihiro ne La città incantata o, ancor più, a Sophie nel Castello errante di Howl). Non a caso è proprio Fio a ricostruire l’idrovolante di Porco, permettendogli di tornare a essere di nuovo tutt’uno con il suo personaggio e forse sarà proprio il suo bacio a sciogliere la maledizione, caricando la sua figura di una notevole portata mitica.

Porco Rosso è dunque un film sorprendente nella sua linearità, forse anche teorico per la dialettica che instaura con gli elementi della messinscena, accorto nella sua documentazione del reale ma capace di abbandonarsi allo slancio pindarico di un’emozione di sensazioni primarie come il ridere e a visioni di un altrove magico. E’ un film capace perciò di oscillare dal reale al fantastico pur senza darlo a vedere. In fondo, ancora una volta è una coesistenza di opposti, sintetizzati magnificamente dal grugno del maiale, del quale non viene mai rimarcata troppo l’alterità rispetto al mondo che lo circonda.

 
Porco Rosso
(Kurenai no Buta)
Regia e sceneggiatura: Hayao Miyazaki
Origine: Giappone, 1992
Durata: 94’

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Trailer italiano

venerdì 19 novembre 2010

Due o tre cose che so di... Saw

Due o tre cose che so di… Saw

Ho già affrontato la saga di Saw – L’enigmista, ma torno volentieri “sul luogo del delitto” in occasione dell’uscita di quello che è presentato come il capitolo finale. In realtà esiste una regola non scritta dell’horror in base alla quale le serie non dovrebbero mai avere un finale: presentare un capitolo come tale serve infatti soltanto a rilanciare il franchise economicamente (perché il pubblico è attirato dalla promessa di vedere “come va a finire”); oppure, se si preferisce, possiamo rievocare quanto teorizzato magistralmente da Wes Craven nel suo Nightmare: Nuovo incubo: uccidere il mostro (o portare semplicemente a termine le sue gesta) significa rinunciare a rappresentare il Male e dunque a contingentarlo in una visione definita, lasciando quindi spazio all’ignoto e alla riproduzione del demone sotto altra forma.

Ad ogni modo, che si continui o meno nei prossimi anni, è interessante tornare sulla saga per analizzare le torsioni che la stessa ha prodotto nel corso degli ultimi film, quando l’eredità dell’Enigmista è stata raccolta da nuovi adepti che ne hanno portato avanti le gesta. In prima battuta è infatti assolutamente evidente come si sia venuta abbastanza a spezzare l’unicità iconica del villain, classicamente intesa, portando la saga verso territori affrontati con maggiore radicalità soltanto dalla serie di Final Destination. Ciò che infatti diventa preminente è il meccanismo delle uccisioni, che sopravanza l’identità di chi commette le stesse. Superata l’epoca dei boogeyman mascherati, l’horror del nuovo millennio sembra arrivare a una sorta di completa autosufficienza per cui smette di aver bisogno del mostro come figura sulla quale proiettare la sua cifra più perturbante. Il che naturalmente apre la porta anche a considerazioni tutt’altro che banali o peregrine sul ritrarsi di un genere che funziona in quanto meccanismo e non in quanto racconto che veicola sensazioni primarie. Non è un caso che l’ultimo Saw 3D sia anche il film che meno vanta la presenza sullo schermo del protagonista Tobin Bell, cui il manifesto dedica una simbolica statua, a rimarcarne la natura non tanto iconica, quanto archetipica.

La pellicola da questo punto di vista è tanto un arrivo quanto una sintesi di un percorso che la saga aveva soltanto lasciato intravedere: l’horror si cartoonizza, complice l’esigenza spettacolare imposta dalla stereoscopia che pretende arti lanciati verso le schermo e amenità del genere, e perde quindi quella cifra più buia e allucinata che avevano i capitoli precedenti, in particolare quelli firmati da Darren Lynn Bousman. Non avvertiamo il dolore dei personaggi, ma siamo invece immersi in un meccanismo che, non senza malizia, ragiona sulla rappresentazione della morte piuttosto che sulle implicazioni che essa porta con sé. Si raggiunge in questo modo una sorta di astrazione, che finisce via via per pervadere il racconto nei suoi gangli, attraverso questa continua produzione di false piste, ritorni sui luoghi del delitto e scoperte di nuove prospettive da cui inquadrare la storyline principale. E’ la logica del meccanismo seriale televisivo applicato al cinema, dove la sperimentazione e il frantumare la linearità della storia diventa l’unico metodo concepibile per un pubblico che pretende di essere sorpreso e stimolato in modo parossistico. Un approccio che, per converso, produce un cinema in continuo rimescolamento e basato sull’auto-cannibalizzazione dei propri momenti topici, continuamente analizzati, riproposti ed esibiti.

E’ un aspetto molto interessante di una saga che quindi dimostra di essere perfettamente addentro al proprio tempo. E che riscrive la storia del torture porn recente, da proiezione di un immaginario di sofferenze, filiato dagli orrori di guerre e sopraffazioni fisiche, fino alla sua rielaborazione in chiave pop, tipica dell’approccio industriale al genere. Non siamo dunque lontano da quel processo di demistificazione tipico delle derive che negli anni Trenta portavano i Mostri Universal a diventare ridicole macchiette nei vari cross-over, ma condotto stavolta con più controllo e autocoscienza del percorso che si sta seguendo, in modo da evitare un rinnegarsi profondo dei presupposti.

Nel bene e nel male è un aspetto da tener presente. Soprattutto se poi chiama in causa meccanismi tipici della cultura dello spettacolo: la sensazione che si prova durante il film è che sceneggiatori e autori abbiano infatti riflettuto – forse anche inconsapevolmente - sulle implicazioni collegate all’esibizione della violenza nel nostro presente. Si staglia pertanto come uno straordinario momento rifondativo il prologo in cui l’Enigmista attua una delle sue trappole in pieno giorno, davanti a un pubblico di ignari passanti. Il pensiero può correre al magistrale Tenebre di Dario Argento, ma qui il senso è diverso: non teorizzare l’onnipresenza del Male, che si esibisce in spazi aperti, quanto riflettere sui meccanismi propri dello spettacolo del dolore, resi celebri da format quali i Reality Show. Due ragazzi e una ragazza: un triangolo amoroso basato su ruoli definiti, in cui i due devono uccidersi a vicenda per salvare la bella. La quale naturalmente cercherà di convincere l’uno o l’altro a sacrificarsi per lei. Siamo pienamente addentro ai meccanismi che affliggono il piccolo schermo, dentro quella scopofilia dal sapore pornografico, qui riflessa nel pubblico che, pur atterrito, osserva gli eventi senza staccare mai lo sguardo, anzi fotografando e filmando l’evento con i telefonini. Probabilmente questa sequenza è uno dei momenti più alti e intelligenti della saga e finisce per diventare ossequio e, al contempo auto-sabotaggio del concept stesso. Se, infatti, l’Enigmista esibisce sempre una sorta di purezza della verità, è pur vero che agisce in un modo che al cinema horror serve in quanto meccanismo spettacolare basato proprio sull’esibizione della violenza. Pensiamo dunque anche ai corpi violanti continuamente dalle trappole, a volte anche desiderabili, come accade con quello di Jill (l’attrice Betsy Russell), che giocano scientemente con le aspettative e i sogni dello spettatore, offeso dalla loro violazione, ma anche compiaciuto dalla loro messinscena.

In tutto questo stanno i segreti e i motivi di interesse di una saga che è riuscita a espandere l’idea iniziale lungo l’arco narrativo di ben sette film e che, va ribadito, forse è più interessante che riuscita, ma può in ogni caso essere tranquillamente ascritta fra le principali del nuovo decennio.

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mercoledì 17 novembre 2010

Goldrake di nuovo in tv!

Goldrake di nuovo in tv!

E esplosa come una classica bomba la notizia del ritorno in tv di Ufo Robot Goldrake, previsto su Italia 1 alle 13.40 dal 9 gennaio (la fonte è il blog di Antonio Genna, che ha diffuso i palinsesti Mediaset di inizio 2011). Si tratta di un evento lungamente atteso, che pone fine ad anni di speculazioni, polemiche e accuse fra detentori dei diritti e appassionati.


Il fatto che la serie che, in buona sostanza, ha dato inizio all’invasione di serie animate giapponesi in Italia fosse anche quella che da più tempo mancava dai nostri teleschermi era uno di quegli assurdi paradossi tipici del nostro Paese, dove la ricerca del perché e del percome finisce sempre per distrarre dagli aspetti più sani e intelligenti della passione, ovvero la condivisione e il rispetto della memoria. In questo senso il fatto che Goldrake fosse diventata materia per pochi ha favorito la nascita di settarismi che spesso poco avevano a che vedere con la sostanza del racconto e avevano reso lo stesso lettera morta. Che ora potrà tornare invece a essere viva, per il pubblico di ieri e, magari, per quello di oggi che vorrà conoscere questo eroe metallico dal sapore vintage, mai rispolverato nemmeno per i tanti remake di classici del passato, e per questo rimasto unico.

L’operazione che dunque si va profilando è quella del recupero di una scheggia d’immaginario popolare e della sua ricontestualizzazione in uno scenario inedito o lungamente dimenticato, quello della televisione generalista nazionale (non dunque un network locale), esattamente come accadde 32 anni fa con l’allora secondo canale Rai. Naturalmente questo porta con sé una grossa incognita: quella del pubblico che Goldrake dovrà naturalmente conquistarsi, pur con il peso che la produzione si porta sul groppone, peraltro in una fascia oraria da sempre abituata agli ascolti esorbitanti di campioni come Dragon Ball, Detective Conan e One Piece. Ma queste sono speculazioni (legittime) che si dovranno fare in seguito. Intanto resta il piacere per una televisione che sembra guardare con rispetto a un prodotto dimenticato. E’ decisamente una buona notizia.
 

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La sigla di Goldrake dal secondo canale Rai (1978)

sabato 13 novembre 2010

Lo strano mondo di Dino De Laurentiis

Lo strano mondo di Dino De Laurentiis

E’ uno strano mondo, come ci ricordava David Lynch nel capolavoro Velluto Blu, film che Dino De Laurentiis aveva prodotto. Già, perché per anni ho fatto il torto di associare il nome del produttore italiano a film come King Kong (quello di John Guillermin) o Brivido di Stephen King e a una certa tendenza alla grandeur e al cattivo gusto tipici di quella subcultura italica che, una volta raggiunto il successo (soprattutto se all’estero) deve sempre coprirsi di ostentazione. Non che il ragionamento fosse del tutto sbagliato, per quanto oggi quei film si riguardino con molta simpatia: pensiamo anche agli estenuanti progetti su Hannibal Lecter, una autentica rincorsa al peggio! D’altronde lo diceva anche Mario Bava ai tempi di Diabolik: la De Laurentiis è come un ministero. Il che voleva dire che a volte si odia, sa essere ingiusta, ma il suo ruolo è centrale, importante e indispensabile.

Accadde però che nel 2001 L’Academy Awards volle conferire a Dino De Laurentiis l’Oscar alla carriera. Evento poi bissato dal Leone d’Oro di Venezia nel 2003. In quelle occasioni i riflettori si accesero nuovamente su di lui e favorirono considerazioni più ampie sulla sua carriera e sul suo operato, tanto che iniziarono a spuntare i titoli più significativi del suo ricco carnet e altre importanti caratteristiche: la capacità di intercettare e comprendere prima di altri il talento di registi come Michael Mann (con il magnifico Manhunter); la bravura nel cogliere il segno dei tempi attraverso pellicole di grande spessore filmico e coraggio tematico come I tre giorni del Condor e Serpico; la sapienza di non abbandonare Lynch dopo il flop di Dune, ma di confermargli la fiducia permettendogli di girare il già citato Velluto Blu; addirittura il rischio di far “risorgere” il grandissimo Michael Cimino dopo il disastro economico dei Cancelli del cielo regalandoci il bellissimo L’anno del Dragone; e poi la sagacia imprenditoriale di chi coglie i segni di un successo in divenire, capace per questo di dare vita a saghe di grande successo popolare come Halloween (De Laurentiis fu coinvolto nella produzione del secondo e del terzo capitolo) o La casa (anche qui il secondo capitolo e poi il mitico L’armata delle tenebre); il tutto procedendo fino a quel dimenticato gioiello che è Breakdown – La trappola, che ci aveva fatto ben sperare per il suo regista Jonathan Mostow, poi abbastanza acquietatosi (anche se l’ultimo Il mondo dei replicanti ha i suoi estimatori).

Francamente è questo il De Laurentiis che preferisco ricordare, più di quello oggi rievocato per i successi più lontani e storicizzati, come La grande guerra o La strada: capolavori, sia chiaro, non è una questione di “preferenze” qualitative, ma di cercare invece di comprendere e circoscrivere con più chiarezza un percorso storico che non si ferma alla stagione più bella del cinema italiano, ma è stata capace di andare oltre.

Diversamente infatti staremmo qui a scrivere semplicemente di un sopravvissuto, una figura fuori tempo massimo dai connotati quasi romantici. Al limite un ennesimo emblema al mito del self-made-man che, partito come venditore della pasta prodotta nella ditta di famiglia, era poi assurto a gloria internazionale: invece possiamo guardare con rispetto a un produttore che ha saputo determinare un grande cinema e influire sull’immaginario degli ultimi decenni. D’altronde è questo ciò che ci interessa, la virtuosità di figure che hanno saputo farsi veicolo di cinema, definire carriere e creare percorsi immaginifici: d’altra parte se abbiamo avuto un E.T. lo dobbiamo anche a lui, che permise a Carlo Rambaldi di ottenere visibilità internazionale proprio con quel King Kong che citavo in apertura. E il cerchio, in questo modo, si completa.

giovedì 11 novembre 2010

Quando chiama uno sconosciuto

Quando chiama uno sconosciuto

Jill Johnson sta lavorando come babysitter presso la casa del Dr. Mandrakis, quando riceve una telefonata: una inquietante voce maschile la invita a controllare i bambini, che dovrebbero essere a riposare nella loro stanza da letto al piano di sopra. Spaventata dalle continue telefonate, Jill si rivolge alla polizia, che individua il molestatore nella stessa casa! L’uomo, Curt Duncan viene quindi rinchiuso in prigione per l’omicidio a sangue freddo dei due bambini, ma evade dopo sette anni. Sulle sue tracce si pone John Clifford, il poliziotto che lo aveva arrestato in passato e che ora è un investigatore privato. Duncan infine torna ad accanirsi contro Jill, ormai diventata madre di due bambini.

Esiste uno strano filone di pellicole tangenti più generi, che in decenni come i Settanta ha generato titoli curiosi, quasi sempre imperfetti e per questo affascinanti. Il caso di Quando chiama uno sconosciuto è poi amplificato dall’irreperibilità del titolo, da tempo scomparso dalle programmazioni tv e mai editato in DVD nel nostro paese, la cui eco persiste soprattutto in virtù del ricordo generato dal potentissimo prologo (poi ripreso e superato soltanto da quello di Scream). A un livello immediato è abbastanza evidente come più in là di quei venti minuti il film fatichi a procedere e come la narrazione sia sostanzialmente spezzata in tre tronconi: non a caso il titolo si riferisce soprattutto ai fatti del primo blocco, con la babysitter sola in casa e minacciata dalle telefonate.

Non va inoltre trascurato come questa parte (ambientata nella tipica villetta da borgo di periferia) sia quella che, più delle successive, sembra rifarsi a dinamiche consolidate del genere thriller/horror contemporaneo, sia per l’idea della babysitter minacciata dal maniaco (che ci rimanda a L’allucinante notte di una babysitter o, ancor più, ad Halloween, che era uscito solo un anno prima), sia per la dinamica della telefonata minacciosa che costituisce un topos dello slasher (basti pensare a Black Christmas, che di tutte queste pellicole è un po’ l’ispiratore, per poi andare indietro fino all’episodio Il telefono de I tre volti della paura e ai capolavori di Dario Argento).

Ma in realtà Quando chiama uno sconosciuto non è affatto uno slasher ed è anche possibile che il regista Fred Walton non conoscesse affatto i modelli: la fonte dichiarata è infatti una leggenda metropolitana che si rifà alle classiche dinamiche da storie dell’uncino e non a caso il film è stilisticamente molto diverso dalle pellicole con assassini all’arma bianca: violenza pressoché assente, costruzione della tensione che si estrinseca attraverso un lavoro sui dettagli, sugli spazi e sugli oggetti e la decisione di offrire piena visibilità all’assassino subito dopo il prologo. Il meccanismo gioca pertanto con le aspettative dello spettatore e finisce per distanziarsi (e quindi per decostruire) molte dinamiche dell’horror coevo: una volta scoperto e smascherato, infatti, Curt Duncan smette di essere una figura inquietante la cui presenza permea gli spazi della casa vuota, e diventa invece una specie di homeless in una rigenerata ambientazione metropolitana. Un uomo solo, che viene malmenato dagli avventori di un bar ed è costretto a fuggire da un detective che lo vuole morto a ogni costo, al punto da guadagnarsi quasi la pietà dello spettatore. Tutto questo salvo poi ritrovare la sua caratura di villain chiudendo il percorso che lo voleva opposto alla babysitter Jill Johnson.

Quando cioè lo “straniero” del titolo originale (che in italiano diventa un più minaccioso “sconosciuto”) smette il ruolo dell’antagonista, si rivela per ciò che è, un immigrato inglese che appare continuamente fuori sincrono rispetto alla realtà circostante e quindi è come se il suo tornare ad accanirsi contro Jill nel terzo atto costituisca quasi un suo tentativo di ritrovare la propria ragione d’essere in quanto personaggio. E’ in questa oscillazione fra icona del terrore e disagio umano che il film gioca le sue carte più spiazzanti, che ridefiniscono i contorni del racconto di genere lasciando stazionare il film contemporaneamente al di dentro e al di fuori dei confini noti allo spettatore. Non a caso la parte centrale è anche quella in cui le contaminazioni appaiono più assurde: figuranti che sembrano usciti da un film blaxploitation, approcci amorosi negati che sembrano usciti da un dramma esistenziale… Walton sembra divertirsi a provarle tutte, e non è chiaro quanto sia frutto di un tentativo di spiazzare e quanto invece dell’incertezza su come procedere.

Un commento a parte lo merita invece l’interessante fotografia dai colori saturi di Donald Peterman che, stante la regia un po’ televisiva di Walton, riesce a oscillare fra una fisicità capace di rendere il tutto molto realistico e sprazzi di visionarietà che riecheggiano la follia del killer. Siamo, in definitiva, a metà strada fra quel filone dei serial killer che riescono ad elevare la propria natura a livello archetipico (come accade appunto con lo slasher) e quelli più elaborati che invece lavorano sulla figura dell’assassino come propaggine di uno sfasamento rispetto alla realtà che quindi si fa rifrazione di una situazione sociale allo sbando (pensiamo al bellissimo Lo strangolatore di Boston, di Richard Fleischer), dove non a caso l’ambientazione metropolitana ha spesso un ruolo fondamentale. In questo senso la pellicola si allinea in modo abbastanza preciso a quella tendenza cinematografica che nei Settanta descriveva la geografia metropolitana come giungla capace di riflettere gli stati d’animo, i timori e le incertezze del presente attraverso la descrizione degli oggetti e dei luoghi, prima ancora che delle psicologie dei personaggi.

Gli spazi descritti dal film sembrano quindi un labirinto che i personaggi attraversano però come se ne conoscessero i passaggi segreti, in un caos di traiettorie che imprigiona fatalmente tutti gli attori, sempre contemporaneamente dentro e fuori l’alveo che credono sicuro. E’ questa dinamica fra proprio e altrui, fra uno spazio conosciuto e uno ignoto che riesce a produrre una tensione viva e molto interessante, in un continuo gioco di aspettative negate e prospettive al rovescio: la minaccia è dentro casa quando si crede fuori, dentro la stanza quando sembra provenire da dietro la porta, fuori dal dormitorio quando sembra ormai caduta in trappola, fino a diventare sfuggente rispetto a se stessa, per i motivi già spiegati. Ne scaturisce una storia capace di risultare oscura e inquietante al di là del fatto narrato, per come fa appello a timori e dinamiche inconsce.

La pellicola ha avuto un sequel televisivo nel 1993 con lo stesso cast e regista (Lo sconosciuto alla porta) e un come al solito superfluo remake nel 2006 (Chiamata da uno sconosciuto).

Quando chiama uno sconosciuto
(When a Stranger Calls)
Regia: Fred Walton
Sceneggiatura: Steve Feke, Fred Walton
Origine: Usa, 1979
Durata: 90’

martedì 9 novembre 2010

The Dead Walk!

The Dead Walk!

L’arrivo sulle televisioni di tutto il mondo di una serie come The Walking Dead favorisce alcune riflessioni collaterali, prima di entrare nello specifico del magnifico fumetto originario e della serie stessa che, soltanto a basarsi sulla visione delle prime due puntate, già merita di essere ascritta fra i capolavori del piccolo schermo.

Che fosse un successo annunciato peraltro poteva sembrare un dato scontato ad alcuni, ma a ben vedere così non è, soprattutto nella misura in cui il mercato odierno è proiettato eccessivamente verso eventi studiati a tavolino e pertanto realizzati in modo da risultare accattivanti presso il maggior pubblico possibile. Che nel caso specifico è quello del fumetto, quello dei telefilm e, naturalmente, quello occasionale (che abbia naturalmente interesse in un serial horror). Ciò che pertanto colpisce durante la visione è la natura magnificamente autentica di un format che non cerca di essere accattivante. Non ammicca, non ironizza, non si pone in modo pedissequo rispetto alla fonte.

Quest’ultimo dato naturalmente rappresenta uno degli elementi più interessanti, e pone la serie sulla scia di quelle opere (poche) che, anziché guardare al modello con timore reverenziale, cercano di affrontarlo con giusto spirito critico, muovendo la canonica domanda: qual è il senso di ciò che sto raccontando? E’ cioè il voler semplicemente dare una consistenza realistica alle immagini che finora siamo stati abituati a vedere sulla pagina, oppure è trarre dalla fonte una lezione narrativa e contenutistica che permetta di raccontare una grande storia? Nel primo caso, naturalmente, si ottengono film come Watchmen, che rifiutano qualsivoglia confronto con il modello, visto solo come un enorme disegno da riprodurre sotto altra (e accattivante) forma. Nel secondo invece abbiamo registi come Frank Darabont (developer della serie tv) che, fattosi le ossa sulle trasposizioni da Stephen King, ridefinisce i confini della “riduzione” classicamente intesa. Le eventuali lamentele dei fans in questo senso possono essere rispedite tranquillamente al mittente e restare confinate nelle chiacchiere di poco conto (anche se va aggiunto che finora i pareri positivi sono pressoché unanimi, segno che la qualità alla fine paga per tutti!).

Il fatto che sotto il riflettore ci sia poi una storia di morti viventi crea un divertente corto circuito sensoriale, poiché, nello specifico, il fulcro di questo discorso è se rivitalizzare il racconto originale o farne una sua zombificazione, ovvero una reiterazione meccanica di gesti ed esistenze già vissute altrove. E' un discorso che si può naturalmente applicare in generale al processo di trasposizione, che nei fatti è una "rianimazione"  propedeutica a una rinascita o a una zombificazione del testo originale, a seconda di quale sia il criterio adottato. The Walking Dead sembra aver scelto quello della rinascita e così facendo pare aprirci a un nuovo ricorso storico, in cui potremo finalmente vedere accantonata la coolness di chi credeva che raccontare di zombi altro non dovesse essere che mostrare gente che corre inseguita da cadaveri centometristi, e si potrà recuperare invece la cifra umana alla base del mito romeriano.

Ecco dunque che non appare casuale la scelta di attuare una deviazione dal racconto originale nella seconda puntata proprio per raccontare di alcuni superstiti barricati in un centro commerciale, in quella che è chiaramente un'eco di Zombi: è una sorta di quadratura del cerchio, dove la rielaborazione svela se stessa e il suo intento di non inventare nulla, ma di aggregarsi invece a una tradizione preesistente. La citazione stessa diventa quindi elemento attivo della narrazione, e non facile ammiccamento, e chiama anzi in causa la voglia di avere altri punti di riferimento, che si rintracciano ad esempio nel corpo iconico del grande Michael Rooker (indimenticato interprete di Henry: pioggia di sangue). Penso che nessuno si stupirebbe se a un tratto nelle strade di Atlanta vedessimo un giornale con la celebre scritta “The Dead Walk!” che apriva Il giorno degli zombi. Sarebbe una citazione sicuramente più pertinente di quella che compare nel finale del primo Resident Evil. Anderson lì pagava un tributo rispettoso che però era soltanto formale, pop, il classico pungolare lo spettatore con la punta del gomito per far capire che si sta parlando la stessa lingua. Niente di male, beninteso, come ho già scritto, ma è ovvio che qui altre sono le dinamiche pretese.

Stavolta infatti il segno è pretesto per un richiamo che guardi alla sostanza umana del racconto, come accade quando Rick Grimes osserva con tenerezza un cadavere che si trascina nell’erba di un parco e la scena si colora di un lirismo che è profondamente romeriano. In quel momento capisci che il brivido che senti correre su per la schiena non è soltanto quello dell’appassionato che si sente a proprio agio nel mondo che già conosce, ma anche quello dell’uomo che capisce l’amarezza della riflessione per una società che è implosa senza lasciare scampo.

Tutto questo pone secondariamente il problema di un progetto che nel transitare attraverso forme espressive diverse deve tenere presente la totalità degli influssi che può venire a chiamare in causa. Se Robert Kirkman ha realizzato il suo fumetto quando magari il tema era ancora relativamente fresco per il mercato cartaceo, infatti, lo stesso non può succedere portando la storia su schermo, dove l’affollamento di cadaveri ambulanti data almeno quarant’anni di storia. Certo, è lo schermo piccolo, non il grande, dove solo di recente le maglie censorie e la voglia di osare si sono allargate al punto da permetterci di affondare nel grottesco e nelle “Guts” che titolano la puntata 2. Ma è altrettanto vero che chi oggi assiste a questa vicenda probabilmente ha almeno sentito nominare Zombi, Resident Evil e compagnia bella e quindi non si può prescindere dal rischio di risultare obsoleti in partenza. L’autenticità e la capacità progettuale di ampio respiro sono dunque le uniche carte da giocare per ottenere un risultato che resista alla prova della visione.

Non è un mistero dopotutto che si sia in epoca di transmedialità e se questa pratica di lanciare una storia su più fronti ci ha insegnato qualcosa è che il gioco funziona laddove riesce a differenziare il prodotto a seconda dell’ambito in cui esso si pone. Ecco dunque che se “The Walking Dead serie tv” continuerà a mantenere gli standard alti delle prime due puntate, potrà forse essere anche una sorta di revisione critica delle vicende già vissute sulla pagina disegnata, una visione parallela su quei fatti, in grado di coniare nuove fette di immaginario, né più né meno di come ha fatto la versione cinematografica di Resident Evil rispetto a quella videoludica. Ma con una capacità di tenere il polso delle emozioni ben maggiore. E magari tutto questo fornirà nuova linfa al metodo con cui si traspongono le storie su schermo, che non sia più soltanto quello di accontentare il lato più "nerd" dei fans che vogliono unicamente rivedere le vicende già conosciute sulla carta.

Proseguiamo dunque la lettura e la visione: questa settimana esce in fumetteria per Saldapress il volume 7 del fumetto, nell’ambito di una serializzazione-stillicidio che va avanti da anni, mentre la trasmissione televisiva procede al ritmo di una puntata ogni lunedì. Ritmi lenti, ma si sa: agli zombi non piace correre.

sabato 30 ottobre 2010

Il resto di Halloween

Il resto di Halloween

Ci siamo, domani si celebra l’annuale “notte delle streghe”! Quest’anno l’appuntamento per il sottoscritto è reso più ghiotto dall’uscita del libro sulla saga e dalla sua presentazione romana.

Per celebrare l’evento multiplo pubblico questa immagine che è fra le poche cose rimaste fuori dal libro: si tratta di una celebre (e ironica) foto di scena del primo film che mostra un “impossibile” bacio fra Michael Myers e Laurie Strode. Un fuoriscena poi citato in Halloween: La resurrezione, quando il bacio finalmente si concretizza “on camera” prima che Laurie esca definitivamente di scena dalla saga.


Buon Halloween a tutti!


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venerdì 29 ottobre 2010

"The Ward" al Torino Film Festival!!!

“The Ward” al Torino Film Festival!!!

E’ diventato un vero giallo quello di The Ward, l’ultimo attesissimo film di John Carpenter: poche notizie, zero trailer, le voci di corridoio che lo volevano alla Mostra di Venezia clamorosamente smentite… ma che fine ha fatto? E soprattutto quando lo si vedrà in Italia?

Bene, finalmente lo sappiamo: il film sarà presentato al prossimo Torino Film Festival, all'interno della sezione “Rapporto confidenziale”, che l’anno scorso aveva presentato tutti i film di Nicolas Winding Refn e che quest’anno è invece dedicata all’horror. Naturalmente The Ward diventa immediatamente il titolo di punta e uno dei Must-See dell’intero festival!

La fonte è “La rivista del cinema”, pubblicata dal Museo di Torino, dove un box (a pagina 5) firmato dalla coordinatrice del festival Emanuela Martini offre la ghiotta rivelazione.

Da sempre attento ai registi di culto e alle tendenze più stimolanti degli ultimi decenni di cinema, il Torino Film Festival 2010 si riconferma dunque un appuntamento immancabile, che quest’anno si svolgerà dal 26 novembre al 4 dicembre. Ci sarà modo di tornare sull’argomento, intanto va un sincero complimento ai realizzatori per il loro lavoro!


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giovedì 28 ottobre 2010

Ritorno al futuro

Ritorno al futuro

1985. Il giovane Marty McFly vive una disordinata esistenza, fra ambizioni musicali frustrate e una famiglia disfunzionale in cui il padre George è vessato dal capoufficio Biff e la madre vive di rimpianti cercando conforto nell’alcool. Poi c’è il dottor “Doc” Brown, di cui Marty è amico e che lo coinvolge sempre in strampalati esperimenti: ora per esempio ha inventato una macchina del tempo, con la quale Marty si ritrova nel 1955. Qui il ragazzo incontra… suo padre George, ancora uno studente ma già vessato da Biff. E come se non bastasse, Marty impedisce inavvertitamente il primo incontro dei suoi genitori. Gli eventi precipitano: oltre a dover trovare il modo per tornare nel 1985, Marty deve fare in modo che suo padre e sua madre si innamorino o la sua stessa esistenza ne risentirà. Particolare non trascurabile: sua madre, invece di innamorarsi di George, ora ha una cotta per lui…

Il ritorno nelle sale di Ritorno al futuro, in occasione dell’uscita Blu-Ray e del 25mo anniversario della realizzazione, permette al pubblico di ieri e di oggi di tornare a confrontarsi con quello che è ormai diventato un autentico cult generazionale in grado di superare davvero le barriere del tempo. La cosa non stupisce: è infatti chiaro ad ogni visione come il regista Robert Zemeckis e lo sceneggiatore Bob Gale siano stati capaci di realizzare un’opera che guarda al di là del proprio presente, immergendo le vicende dello scapestrato Marty McFly in un più grandioso disegno che ci parla della Storia stessa. Ciò che infatti ancora oggi colpisce non è soltanto la perfezione del meccanismo narrativo e il divertimento trasmesso dalle gag, ma l’acutezza di uno sguardo che, similmente a quanto lo stesso Zemeckis tornerà a fare in Forrest Gump, rilegge la storia contemporanea alla luce degli eventi che hanno determinato la stessa nel passato. E lo fa attraverso la prospettiva fornita da un apparente “perdente” che si rivela però migliore delle persone che lo circondano.

In questo approccio naturalmente è agevole vedere in controluce non soltanto un certo piglio alla Frank Capra, da sempre rimarcato nei lavori che hanno analizzato l’opera del regista, quanto l’egida del produttore Steven Spielberg, che marca Ritorno al futuro nel segno di quel positivismo attraverso il quale la New Hollywood degli anni Settanta-Ottanta pretendeva di riappropriarsi del suo tempo, e di forgiare il suo immaginario, ponendosi nel centro dello stesso.

Ecco dunque che il ritratto dei fifties veicolato dalla storia rifugge totalmente ogni cifra nostalgica, ponendosi in perfetta controtendenza a quegli “Happy Days” celebrati dalle varie operazioni dell’epoca. Non è un caso isolato: basterà pensare anche al di poco precedente Christine carpenteriano per rendersi conto di come fosse in atto un autentico sommovimento dell’immaginario, che invitava a non vivere sulle spalle del passato ma a usare lo stesso per una revisione critica dello ieri e dell’oggi, insieme a un aggiornamento degli stilemi narrativi.

Ritorno al futuro, non a caso, è un film retrò nei suoi presupposti, visto come chiama in causa le dinamiche della fantascienza classica con le invasioni aliene, gli scienziati pazzi e il viaggio nel tempo, sembra una scheggia impazzita di un George Pal che al sense of wonder ha opposto il tono slapstick e uno sguardo più acido e irriverente. Così gli anni Cinquanta spesso dipinti come una sorta di golden age americana diventano invece il terreno di coltura dei drammi del presente, dove giovani inetti e incapaci di osare determinano famiglie disfunzionali, in cui l’unico momento di vicinanza è dato dal pasto davanti al televisore; dove le madri di domani sono giovani donne represse che si abbandonano al primo ragazzo che capita. In tutto sembra mancare una consapevolezza del proprio ruolo e della propria esistenza, fatto che determina una sorta di abbandono al flusso degli eventi. Ad aggiustare tutto non può che essere un ragazzo del presente, di quella generazione che pretende la centralità nel nuovo immaginario.

Zemeckis e Gale però sono bravi a non scadere nella facile condanna a tutto campo del passato. Il fulcro del loro discorso non è la critica generazionale (tema pure presente nel film), quanto il cambio di prospettiva funzionale a un ripensamento del sé sia per i protagonisti di ieri, quanto per quelli di oggi. Ecco dunque che l’esperienza negli anni Cinquanta e il confronto con i genitori serve a Marty per superare anche le proprie paure, il timore di cantare davanti al pubblico e di fare le scelte che ritiene più opportune per la propria vita: un tema che il regista e lo sceneggiatore continueranno a sviluppare anche nei due bellissimi seguiti realizzati back-to-back fra il 1989 e il 1990.

Cosa resta oggi di questa splendida lezione di cinema? Innanzitutto un’idea di spettacolo che, pur basandosi sull’accumulo di toni e situazioni riesce a mantenere sempre in primo piano i personaggi e le loro dinamiche interpersonali. Gli effetti speciali rappresentano infatti un elemento che poco aggiunge alla storia (e questa scelta paga oggi che il comparto tecnico rischierebbe obsoleto). E inoltre la grande lezione morale di una fiducia nel domani che non può prescindere da una comprensione critica del passato. Per certi versi Ritorno al futuro non è invecchiato perché è perfettamente consapevole di dove viene e dove è diretto: è questa, in fondo, la sua forza più grande.

Ritorno al futuro
(Back to the Future)
Regia: Robert Zemeckis
Sceneggiatura: Robert Zemeckis & Bob Gale
Origine: Usa, 1985
Durata: 116’