"C'è chi crede in dio o nel denaro. Io credo nel cinema, nel suo potere. L'ho scoperto da ragazzino, mi ha aiutato a fuggire da una realtà in cui ero infelice. È una delle forme d'arte più alte che l'uomo ha concepito. Credo nel suo futuro."
(John Carpenter)

venerdì 26 febbraio 2010

The Abyss

The Abyss

Un incidente a un sottomarino nucleare americano spinge il governo a chiedere la collaborazione degli operai della stazione petrolifera sottomarina Deepcore: coadiuvati da una squadra di SEAL capitanata dal Tenente Coffey, gli operai, guidati da Bud Brigman, dovranno esplorare il relitto, accertarsi se esistano superstiti, che non ci sia fuoriuscita di materiale radioattivo e, soprattutto, che il relitto, carico di testate nucleari, non cada in mani sovietiche. L’operazione è resa complicata dall’approssimarsi di un uragano, dalle tensioni fra Bud e l’ex moglie Lindsey e dal comportamento di Coffey, che manifesta instabilità emotiva a causa della pressione dell’ambiente sottomarino. Mentre nel mondo la tensione fra i blocchi sale alle stelle, la stazione resta isolata nel profondo degli abissi, dove gli uomini scoprono che l’incidente è stato causato da una razza aliena. Coffey decide di sterminarla, mentre Bud e Lindsey cercano di fermarlo.

C’è sempre una resurrezione, nel cinema di James Cameron, una rinascita propedeutica a quel re-imparare a vedere che connota i suoi più recenti capolavori: nel caso di The Abyss il momento in questione è particolarmente pregnante della poetica dell’autore, poiché non è correlato soltanto alla profondità tematica del testo, ma anche e soprattutto al legame con lo spettatore. Cameron chiede a chi assiste alla scena, dolorosa, intensa, fisicamente devastante, scientificamente anche poco verosimile di credere. Credere che la forza dell’amore, e insieme quella del cinema, riescano a compiere il miracolo di ridare vita a un corpo ormai spento, in virtù della tenacia che il personaggio ha sempre manifestato e della fiducia che il suo congiunto prova. E’ una scena chiave, importante per stabilire un prima e un dopo, ma soprattutto per marcare quello scarto che dalla profonda sovrastrutturazione tecnologica del film permetta di approdare a un finale appassionato nel suo lirismo, senza tirare in ballo facili accuse di retorica.

Tutto parte in fondo da un dialogo fra Bud e Lindsey in cui lei invita il suo uomo a imparare a “guardare con occhi migliori”, per non allinearsi alla visione ossesiva di un Coffey che di fronte alla prospettiva di avere un autentico incontro ravvicinato del terzo tipo vede soltanto un nemico da abbattere, magari una parafrasi dell’Unione Sovietica, paranoia peraltro fondativa di tanto cinema fantastico degli anni Cinquanta, con il quale Cameron entra evidentemente in contrasto. D’altronde è abbastanza evidente come The Abyss si allinei in questo senso alla corrente positivista che negli anni Ottanta aveva già visto transitare sugli schermi lo spielberghiano E.T. e il carpenteriano Starman. Ma gli alieni in questo caso sono un simulacro, una sorta di specchio riflettente, la cui trasparenza serve soltanto agli umani per capire come l’altro non sia necessariamente un nemico, ma una possibilità per imparare a non ripetere i propri errori.

Ecco dunque che il guardare cui si riferisce Lindsey è duplice: da un lato è tentare di superare le rigide dicotomie imposte dalla Guerra Fredda che, all’esterno della stazione sottomarina, consuma quello che potrebbe essere il suo atto terminale (e distruttivo); dall’altro è riscoprire il mare come autentico terreno di coltura della vita, imparandone i segreti che rivelano porzioni di realtà sconosciute, nuove storie e nuove possibilità (e in questo il film anticipa molti temi di Titanic).

La pellicola, d’altra parte, allinea il processo di conoscenza della nuova visione a quello dell’autentico ritorno alle condizioni primarie dell’essere umano. The Abyss non a caso è un film di emozioni forti, intense, non razionali, primarie, che vanno dalla rabbia, all’empatia (Lindsey coglie subito la natura positiva degli alieni pur non avendo prove a riguardo), sino alla meraviglia espressa da un estremamente tenero e gigantesco Ed Harris, che si emoziona nel vedere il proprio viso riprodotto dal tentacolo d’acqua. L’attore dona così al suo Bud Brigman una sensibilità che non mette mai a repentaglio la sua caratura di eroe, ma anzi lo eleva fra i personaggi più carismatici e umani dell’universo cameroniano. Gli è perfetto contraltare una Mary Elizabeth Mastrantonio coriacea come tutte le eroine care al regista canadese, ma anche capace di lasciar emergere attimi di fragilità inaspettata e per questo ancora più emozionante.

The Abyss è in fondo non tanto un film di fantascienza, quanto una storia in cui una coppia ritrova il sentimento che l’aveva unita e che è base della coesione sociale minata dall’ambizione e dal sospetto reciproco (quello che ha prodotto la divisione del mondo in blocchi). La fiducia che i due protagonisti devono lasciar riemergere nel loro rapporto è pertanto quella che rende la visione matura e che va cercata al principio dell’evoluzione umana, laddove il rapporto con l’acqua era profondo, primordiale. Per questo, la discesa di Bud nel fondo dell’oceano ha un valore altamente simbolico: si tratta di riprodurre una situazione amniotica, in cui il corpo si riabitui all’acqua e ridiventi letteralmente bambino (riemerge in questo la matrice spielberghiana dell’opera).

Particolare da non trascurare è il fatto che questo processo di recupero della propria identità umana iniziale passa inevitabilmente per un autentico tour de force tecnologico, cui i personaggi e l’intero film devono sottoporsi (la lavorazione non a caso è stata particolarmente travagliata), manovrando macchinari di ultima generazione, ancora una volta in un rapporto duale che vede il progresso come possibile fonte di guai (la bomba atomica) o come strumento di evoluzione (il liquido ossigenato mediante il quale Bud può effettuare la discesa). Un film da recuperare nell’edizione estesa da 164 minuti che delinea l’affresco autoriale in modo più preciso rispetto al montaggio cinematografico.

The Abyss
(id.)
Regia e sceneggiatura: James Cameron
Origine: Usa, 1989
Durata: 164’ (versione estesa)

Intervista a James Cameron sul film (in inglese)
Visita al set di The Abyss (in inglese)
Pagina di Wikipedia su The Abyss
Trailer di The Abyss

Collegati:
Titanic
Avatar
AVATAR Day

lunedì 22 febbraio 2010

Pontypool

Pontypool

Pontypool è una tranquilla cittadina dell’Ontario dove Grant Mazzy ha trovato lavoro come speaker radiofonico: è molto bravo, ha la voce giusta, anche se tende a volte a esagerare, afferma di “non voler fare prigionieri” attirandosi così i rimproveri della produttrice. Il mondo intanto sta cambiando: giungono notizie frammentarie su misteriosi attacchi di massa da parte di gente impazzita e lentamente si inizia a fare strada l’ipotesi che forse sia in atto un’epidemia. E ben presto si scoprirà che il male si propaga attraverso le parole…

La voce è il corpo di Pontypool: non solo perché il virus che la storia pone in essere si propaga attraverso le parole, ma anche e soprattutto perché è la voce di Stephen McHattie a dettare principalmente il ritmo del racconto. E’ una voce calda, profonda, ha carattere e sa mescolare l’impostazione necessaria per il lavoro da speaker con una certa naturalezza colloquiale, che trasmette sicurezza ed empatia con lo spettatore. E’ una voce che per questo va preservata, quasi “staccata” dalla persona cui appartiene, che vorrebbe usarla per uscire dagli schemi canonici di un rigido palinsesto radiofonico, prendersi delle soddisfazioni e che, ci viene lasciato intuire, forse in passato ha anche causato qualche problema al nostro, che ora si aggrappa a quel lavoro dopo averne persi altri.

Nel fare dunque della voce dell’attore il principale fulcro del film, Bruce McDonald adotta però una prospettiva inconsueta, rendendoci partecipi di ciò che accade dietro il vetro dello studio radiofonico: non siamo quindi soltanto ascoltatori, ma anche spettatori dell’uomo dietro il microfono, partecipi delle sue ambizioni e della sua sorpresa, ma anche complici del suo universo fittizio. Il mondo di Grant, infatti, nasconde delle false verità: il collegamento con l’elicottero del servizio meteorologico ad esempio è finto, perché l’inviato gira la contea in auto e il rumore d’elica in sottofondo è preregistrato. L’isolamento dello speaker all’interno della cabina rappresenta dunque un limite che il film tenterà varie volte di valicare, sia fisicamente (ad esempio quando la ragazza che svolge il ruolo di fonico verrà posseduta e si scaglierà con violenza contro il vetro), sia idealmente attraverso il male propagato dalle parole. Tutto questo lo apprendiamo progressivamente, attraverso una serie di situazioni e dialoghi che permettono al film di rivelare i vari dettagli di una storia che, per la sua intera durata, continuiamo stabilmente a seguire fra le quattro mura dello studio radiofonico, in ossequio alla regola del low-budget movie.

Nell’attesa del precipitare degli eventi, quindi, il film prosegue attraverso un crescendo che segue le tipiche dinamiche progressive dell’assedio: i primi sintomi del male dilagante arrivano come voci incontrollate nell’etere, cui poi seguono una serie di riscontri (sempre auditivi) attraverso telefonate o comunicazioni. Qui il film gioca le carte del thriller ma anche quelle dell’omaggio alla celebre Guerra dei mondi di Orson Welles, dimostrando come in fondo i meccanismi di propagazione del panico siano universali e sempre reiterabili, e cercando sempre di mantenere la parola al centro del racconto.

Nella seconda parte, però, il tono cambia, e la tendenza generale è quella, pur non abbandonando totalmente le meccaniche del puro racconto di genere, di compiere una riflessione sulla insensatezza intrinseca della parola in quanto veicolo del caos. Ecco dunque le spiegazioni del caso intrecciarsi con le manifestazioni della follia attraverso la ripetizione involontaria di singole parole che, come agenti del morbo, si installano nel cervello dell’infetto conducendolo a una eterna coazione a ripetere fino al decadimento fisico. I modi per fermare il male sono due: abbandonandosi al puro istinto distruttivo (come fanno, per l’appunto, gli infetti) oppure – e qui l’ironia si fa decisamente pungente – evitando l’uso della lingua inglese. I protagonisti si vedono quindi costretti dapprima a parlare in francese e poi a creare una ulteriore lingua (che per molti aspetti è una non lingua) attraverso il cambiamento di senso delle parole.

Il film cerca quindi di dare seguito a questo flusso di idee, non preoccupandosi di mantenere una autentica coerenza espressiva, tanto che lo spettatore è mantenuto in uno stato d’animo a metà strada fra l’orrore e il divertimento, per la bizzarria della storia, ma anche per le interessanti implicazioni che la stessa offre. E’ interessante soprattutto il tentativo di non accontentarsi della semplice validità dell’idea: il film, infatti, non pone in essere una situazione per poi sfruttarla semplicemente in senso spettacolare, ma porta avanti una riflessione che permette l’approdo a un finale (incastonato fra i titoli di coda) all’insegna del puro nonsense. La dinamica, insomma, è la stessa che regola i giochi di parole o i paradossi verbali (e non a caso il film si apre proprio su uno di questi, che si diverte a scomporre più volte il titolo): dare forma a una sovrapposizione/scambio di senso. Bella sfida da rendere a livello cinematografico, senza dubbio.

Presentato all’edizione 2009 del Torino Film Festival, il film non ha ancora una distribuzione italiana: considerata l’importanza che la voce dell’attore Stephen McHattie riveste nell’economia del racconto, si consiglia in ogni caso di provvedere a visionare il lungometraggio nella versione originale, senza attenderne una doppiata.

Pontypool
Regia: Bruce McDonald
Sceneggiatura: Tony Burgess, dal suo romanzo Pontypool Changes Everything
Origine: Canada, 2008
Durata: 96’

Sito ufficiale di Pontypool
Intervista a Bruce McDonald (in inglese)
Intervista a Tony Burgess (in inglese)
Videointervista a Stephen McHattie (in inglese)
Pontypool su Wikipedia inglese
Trailer di Pontypool

venerdì 19 febbraio 2010

Panico sulla montagna

Panico sulla montagna

Mentre attraversa una superstrada di montagna, Ellen sbanda per evitare una vettura ferma sulla carreggiata. Subito dopo la ragazza viene aggredita dal mostruoso criminale Moonface, che riesce a rapirla e a portarla nella sua baracca, dove strappa gli occhi alle vittime per farne delle macabre composizioni. In flashback vediamo poi il passato di Ellen, alle prese con Bruce, un marito fanatico che tenta di insegnarle con la forza le tecniche di sopravvivenza in condizioni estreme, tanto da portare il matrimonio alla fine. Ma ora, di fronte al pericolo rappresentato da Moonface, quegli insegnamenti si rivelano provvidenziali.

Una delle caratteristiche più interessanti di Masters of Horror è la struttura composita della serie, che permette a ogni film non solo di riverberare temi e situazioni già codificate, creando un fitto reticolo di rimandi e citazioni, ma anche di creare o rinnovare interessanti sinergie fra universi autoriali differenti. Nel caso specifico Don Coscarelli torna infatti a lavorare su un testo del grande scrittore texano Joe R. Lansdale (nel caso specifico un racconto pubblicato nell’antologia Maneggiare con cura) dopo i fasti del capolavoro Bubba Ho-Tep, e ottiene l’onere di inaugurare la serie (il film è infatti il pilota della prima stagione).

Questione di sinergie, dunque, ma anche e prima di tutto di identità, quella che manca alla protagonista Ellen che, nell’arco della storia, si ritrova ad attraversare una lunga serie di ruoli che la vedono dapprima mogliettina innamorata del suo uomo, poi vittima del suo fanatismo, quindi fuggiasca dal crudele Moonface e infine rinata come prototipo di donna guerriera, ideale incarnazione del modello sognato proprio dal marito. Coscarelli e Lansdale lavorano proprio sul concetto di stereotipizzazione che nell’horror è sempre stato modulato con intelligenza, riflettendo sulla figura della donna-guerriero, codificata da molta fantascienza anni Ottanta e Novanta (per certi aspetti possiamo pensare ad Aliens) come approdo di un’umanità prigioniera della propria ossessività. Trovare la propria identità coincide quindi paradossalmente con la perdita del proprio sistema di valori e di umanità, in uno spericolato rivolgimento delle parti che il finale sintetizza a meraviglia e che concretizza la preferenza di Lansdale per storie dagli esiti inaspettati.

In questo senso Panico sulla montagna è un film che per un versante sfrutta dinamiche alquanto tipiche, con la lotta fra Ellen e Moonface che può essere tranquillamente vista come una parafrasi del rapporto fra la donna e il marito. Affrontare il mostro significa per Ellen comprendere fino in fondo i limiti della relazione che si è lasciata alle spalle, e l’eredità che l’uomo ha impresso nelle sue azioni. La struttura narrativa quindi si concretizza in una dialettica serrata fra passato e presente, con i flashback che non hanno soltanto il ruolo di fornire un mero contrappunto ritmico alle scene di fuga e lotta con Moonface, ma che invece rappresentano una sorta di percorso guida che modula criticamente l’evoluzione compiuta dalla protagonista.

Ma c’è di più: c’è lo sguardo attento di Coscarelli, che ha sempre prediletto punti di vista trasversali e innovativi per illustrare la follia su cui si regge il mondo. Sebbene per arrivare a comprendere l’intero disegno sia necessario giungere fino alla conclusione della storia, il regista dissemina una serie di indizi, nascosti soprattutto nei dialoghi, per far comprendere la prospettiva a lui cara.

L’universo di Moonface, dunque, è una traslazione della follia di Bruce poiché estrinseca quella volontà misantropica che aveva portato l’uomo a isolarsi dal resto del mondo coltivando in modo ossessivo il culto della lotta e delle tecniche di difesa (e per certi versi avvera la sua profezia di un “peggio” che attende il nostro mondo). L’adesione finale di Ellen a questo sistema di disvalori inevitabilmente la riconduce non alla salvezza, ma alla semplice preservazione della propria integrità fisica, che però non coincide con quella interiore. In un tale quadro di disgregazione sociale l’unico personaggio che quindi finisce davvero per risaltare come positivo è il folle Buddy, l’uomo che condivide la prigionia di Ellen e che non a caso ha le fattezze iconiche dell’attore più rappresentativo del cinema di Coscarelli, Angus Scrimm, il “Tall Man” della saga di Phantasm.

Creato espressamente per questa versione e assente nel racconto cartaceo, Buddy, fra le pieghe di un agire che appare dissennato e che sembra ossequiare i caratteri borderline del sottogenere survivalism (pensiamo ad esempio al Cuoco di Non aprite quella porta), è invece il personaggio più lucido della storia: è lui non a caso a spiegare a Ellen chi sia il maniaco che la perseguita; è ancora lui a estrinsecare il sottotesto simbolico insito nell’enucleazione degli occhi; ed è sempre lui a fornire alla ragazza i consigli giusti per liberarsi dalle manette che la tengono prigioniera, permettendole quindi di mettere in atto la propria rappresaglia contro Moonface. In un mondo in cui la follia ha vinto, dunque, il folle finisce per essere l’unico normale, riverberando quella poetica già alla base dei precedenti lavori del regista, da Bubba Ho-Tep dove due pazienti di un ospizio salvano il mondo dal mostro, fino allo stesso Phantasm, dove l’eroe è un bambino affetto da un ossessivo terrore per il guardiano del cimitero. Un film da confrontare idealmente con certi spunti presenti nel cinema di Wes Craven, altro cantore di eroine forti (le trappole di Ellen possono far venire in mente quelle della Nancy di Nightmare), ma anche di storie con prospettive inedite, dove a volte è il matto (il “Fool” de La casa nera ad esempio) a preservare in sé la parte migliore del mondo.

Panico sulla montagna
(Incident On and Off a Mountain Road)
Regia: Don Coscarelli
Sceneggiatura: Don Coscarelli e Stephen Romano (da un racconto di Joe R. Lansdale)
Origine: Usa, 2005
Durata: 51’

Trailer di Panico sulla montagna

Collegati:
Masters of Horror
Pro-Life: Il seme del Male
Deer Woman: Leggenda assassina
Imprint: Sulle tracce del terrore
Valerie on the Stair: La bestia

giovedì 18 febbraio 2010

Strange Days

Strange Days

1999. In una Los Angeles degradata, la fine del secolo potrebbe coincidere con quella del mondo: il rapper Jeriko One è stato infatti assassinato, privando la comunità nera di un leader carismatico, che si opponeva agli abusi perpetrati dalle forze di polizia. In questo clima pre-apocalittico si muove Lenny Nero, spacciatore della nuova droga hi-tech, lo SQUID, che permette di rivivere ricordi registrati direttamente dalla corteccia cerebrale altrui. Lenny ha un solo principio: non commercia in Black-Jack, i ricordi incentrati su omicidi, ma si ritrova suo malgrado al centro di un doppio intrigo, che vede un serial killer scorazzare indisturbato e minacciare Faith, la donna che Lenny ama, non ricambiato. Non è tutto: il centro dell’intrigo ruota infatti intorno a un video che mostrerebbe i fatti reali dietro l’assassinio di Jeriko One. Lenny trova aiuto nella vecchia amica Mace, coraggiosa e silenziosamente innamorata di lui.

A rivederlo oggi Strange Days risalta ancora più forte come un grido d’allarme solitario nel caos: presago probabilmente delle potenzialità e dei rischi insiti in un cinema ancorato a visioni del passato e che cerca il suo baricentro nel già visto, il film si spinge oltre. Animato anzi da una grande visione morale, il lavoro di Kathryn Bigelow si concretizza in un energico tentativo di mettere ordine nel magma umano e morale che pure rappresenta. Non a caso la regista tira in ballo il noir come genere di riferimento, quello che si incaricava di dare forma alle zone d’ombra dell’animo umano e che pure, nella sua disperazione mascherata da nichilismo, nascondeva l’intenzione di denunciare la degradazione imperante. D’altronde il noir è uno dei generi fondativi del cinema americano, al pari di quel western che pure è lontanamente possibile vedere in filigrana, soprattutto in rapporto alla matrice carpenteriana del film, che fa di Strange Days al contempo un epigono strutturalmente più elaborato di 1997: Fuga da New York, ma anche un immediato anticipatore della “fine della visione” teorizzata dal terminale Fuga da Los Angeles.

Non un film tecnofobico, però, perché, in ossequio all’altra grande matrice fornita dallo sceneggiatore James Cameron, Strange Days intrattiene un rapporto duale con la realtà che mette in scena, la teme ma al contempo la osserva, la attraversa in ossequio a un’idea di cinema che è prima di tutto fondazione di un universo e che rende il film il più grandioso della Bigelow. Di suo la regista ci mette proprio quel suo sguardo acuto che la porta sempre a chiedersi le motivazioni che spingono i suoi personaggi nelle loro azioni, in un rapporto dialettico con le immagini che è sempre immancabilmente critico e per questo politico. E inoltre ci mette il suo straordinario talento visivo e tutta la sua energia, quella capacità di dare forma a un perenne movimento delle immagini che permettono al film di non perdere un colpo nonostante la non breve durata e che rende la visione, la nostra visione, un autentico tour-de-force emotivo: il risultato conferisce alle immagini una nervosità che sembra premere continuamente sui bordi dello schermo, in perenne equilibrio sull’abisso e che trova nella rappresentazione acrobatica delle soggettive il suo apice. Il rapporto duale con lo spazio e la realtà rappresentata, peraltro, è il medesimo che il protagonista Lenny intrattiene con lo SQUID, di cui è veicolo ma anche consumatore, perché egli stesso ne è artefice (spiegando ai clienti come “inquadrare” i ricordi per permettere ai filmati di ottenere la forza maggiore).

Lenny, anzi, della droga tecnologica rappresenta l’autentica direttrice programmatica poiché la realtà che attraversa è come determinata dalla sua stessa attitudine a rinchiudersi costantemente in un passato che si crede di poter reiterare attraverso l’appropriazione del punto di vista. In effetti l’innovazione teorica più grande che il film mette in scena sta tutta nell’esplicitare l’esproprio del punto di vista già messo in pratica da certo cinema horror (pensiamo ancora a John Carpenter e alle straordinarie soggettive di Halloween), immettendo il rapporto distorto fra osservatore e soggettiva all’interno del racconto. Lo SQUID, così, diventa la riduzione del punto di vista a oggetto di largo consumo e indice di una visualità che ha perso ogni sua direttrice poiché chi vede non è più chi realmente commette l’azione e il ricordo non è una scheggia di passato sepolta nella memoria, ma un’eterna reiterazione di un tempo azzerato nel suo scorrere. In questo senso Kathryn Bigelow non accetta compromessi e va fino in fondo, mostrando le applicazioni della nuova droga in tutti i modi possibili: la confusione dei punti di vista diventa sempre più elaborata quando le vittime delle violenze sono costrette ad assistere dal punto di vista del loro carnefice cortocircuitando definitivamente i ruoli. Il film in questo caso gioca le sue carte più forti, concretizzandosi attraverso una struttura proteiforme, dove le visioni si accavallano e persino i ricordi “veri” (ad esempio il flashback di Mace che illustra il suo turbolento rapporto con l’ex marito) vengono riprodotti come se fossero scheggie di memoria registrate sullo SQUID, mentre le personalità guida (come il rapper Jeriko One) vengono freddamente eliminate e la verità frettolosamente nascosta.

In questa realtà così codificata sono però i sentimenti a dare corpo a una rete di rapporti davvero capaci di sovvertire il caos e restituire al mondo un suo ordine: come Jenny e Caleb ne Il buio si avvicina, l’amore contiene infatti in sé l’antidoto all’oscuro avanzare della distruzione. Ma pure, per comprendere questo sentimento è necessaria una presa di coscienza forte, che permetta a Lenny di smettere di inseguire un passato con Faith ormai concluso e alla stessa Mace di accettare il legame profondo con il protagonista. Mace (la grande Angela Bassett) da questo punto di vista è il vero personaggio di sintesi del film, che unisce in sé la forza delle eroine cameroniane con la fragilità profondamente umana (e che fa necessariamente rima con ricchezza interiore) delle figure del cinema di Kathryn Bigelow, dove i personaggi, pur nel loro muoversi a forte velocità, quasi alla ricerca del proprio limite, sono in ogni caso dotati di una capacità di “sentire il reale” non comune.

Il finale chiude quindi la vicenda con una nota di speranza che però la regista ha la sapienza di mettere in scena come un momento quasi distaccato dal resto, un gesto di volontà, ma anche una possibile realtà alternativa: sta in fondo allo spettatore decidere se sia tutto vero o solo un ennesimo scampolo di visione sfuggita alla caotica realtà.

Strange Days
(id.)
Regia: Katryn Bigelow
Sceneggiatura: James Cameron e Jay Cocks (da una storia di James Cameron)
Origine: Usa, 1995
Durata: 139’

Intervista a Kathryn Bigelow del 1996
Sito dedicato al film (in inglese)
Strange Days su Wikipedia
Trailer di Strange Days

Collegato:
The Hurt Locker

mercoledì 17 febbraio 2010

Valerie on the Stairs: La bestia

Valerie on the Stairs: La bestia

Rob Hanisey viene accolto nella Highberger House, un albergo destinato agli scrittori in cerca di successo, dove pensa di dedicarsi alla stesura del suo romanzo dopo essersi lasciato alle spalle una storia d’amore finita male. Il lavoro viene però costantemente interrotto da strani rumori che serpeggiano nelle pareti, finché Rob non ha anche la visione di una bellissima ragazza, Valerie, che dalla cima delle scale invoca il suo aiuto perché sia liberata da un mostro che la tiene prigioniera. Ben presto Rob scopre che l’origine di Valerie e della creatura è nascosta in un racconto che alcuni inquilini dell’albergo stanno scrivendo.

Mick Garris, autentica mente del progetto Masters of Horror, mette in scena con questo episodio (ottavo della seconda serie) un racconto di Clive Barker, dimostrando una inedita capacità di sintesi fra le visioni del collega inglese e le proprie. Chiunque abbia letto racconti come Figlio della celluloide, infatti, conosce bene la tensione barkeriana a veicolare l’energia repressa, scaturita dagli immaginari artistici, nella concretezza della carne, dando forma a un universo che unisca citazioni cinematografiche, letterarie o pittoriche con un erotismo esplicito, qui sintetizzato dallo splendido corpo di Valerie (la bellissima Clare Grant). Allo stesso modo è sufficiente leggere un racconto come Una vita nel cinema, scritto da Garris e pubblicato in varie antologie uscite anche in Italia, per rendersi conto di come pure il regista americano sia sensibile alle sensazioni collegate ai tormenti e alle frustrazioni della creatività negata (senza considerare che Chocolate, l'episodio da lui diretto per la stagione 1 dei Masters of Horror è pure incentrato sul tema dell'ossessione amorosa): da notare a tal proposito che, nel racconto sopra citato, Garris enuncia la sua idea di cinema, collegata agli universi di alcuni celebri registi horror, componendo quello che a posteriori si rivela essere un autentico manifesto programmatico della serie Masters of Horror.

La comune visione fra Garris e Barker permette dunque al film di offrirsi attraverso un approccio stratificato, che mette subito in conto possibili derivazioni dalla splendida serie di Rod Serling Ai confini della realtà (citata esplicitamente), per poi dedicarsi al rapporto fra immaginazione e realtà, spostando progressivamente l’ago della bilancia fra i due estremi. La storia diventa quindi in breve tempo una riflessione sugli archetipi classici della tensione attraverso la posa in essere di personaggi identificati da precisi cliché e da visi perfettamente iconici (il redivivo Christopher Lloyd, il tenebroso Tony Todd nella parte del mostro) fino ai due ruoli più significativi: quello di Valerie, classico esempio di bellissima donna in pericolo, e il mostro, derivato esplicitamente dall’universo dei B-movie, come minaccia archetipica da sconfiggere per raggiungere il successo.

Il corpo di Valerie (“un corpo fatto per l’amore”, viene specificato) diventa quindi l’obiettivo da raggiungere e risulta conteso dalle due parti in causa: da un lato lo scrittore fallito che non riesce a trovare l’ispirazione perché ancora afflitto dai traumi della relazione finita bruscamente; dall’altro il mostro che, pur non negando una esplicita attrazione sessuale per la ragazza, sembra principalmente preoccupato di legittimare la propria esistenza in quanto essere di carne, che si accanisce sulla carne (brandendo lascivamente Valerie e facendo a pezzi i suoi creatori in un tripudio di effetti splatter) per ottenere una legittimazione nel piano del reale.

Garris segue bene il canovaccio, di concerto con il direttore della fotografia Jon Joffin, ridisegnando gli spazi dell’albergo in modo da annullarne i confini e favorire le intrusioni fantastiche delle creature immaginarie, dando corpo alle fantasie del protagonista (che sogna di fare l’amore con Valerie) e, memore della lezione di Hellraiser, ambienta la parte conclusiva del racconto in un pittoresco Inferno costellato di cadaveri in macabre composizioni artistiche. Con il prosieguo della narrazione, inoltre, si esplicita anche l’intento metanarrativo che, oltre a dare corpo alle frustrazioni collegate al lavoro della scrittura e a rivelare i meccanismi della stessa, si preoccupa di riflettere sul labile potere fra creatore e sua creazione, istillando gradualmente il dubbio che l’intera vicenda non sia altro che la conclusione di una storia già scritta e di cui vediamo in atto l’estrema messinscena.

La natura stessa del protagonista, che scrive il suo romanzo con un automatismo derivante da non si sa bene quale fonte, viene progressivamente a vacillare insieme ai suoi ricordi, forse anch’essi parte della gigantesca messinscena in atto, e si innesta così un movimento opposto a quello iniziale: dalla carne si torna pertanto lentamente alla carta, in un progressivo disfacimento del corpo che trova nella visionaria (e inventiva) sequenza finale il suo apice.

La conclusione, ironica, ma che Garris mantiene comunque su una linea seria per non spezzare la tensione sino a quel momento accumulata, apre ovviamente la porta all’interrogativo maggiore: quanto un autore è davvero artefice delle proprie opere, e quanto invece ne è vittima? Di sicuro si tratta di una interessante dichiarazione d’amore per l’arte, che sembra meritarsi una sorta di autosufficienza rispetto al reale, e che in questo modo afferma la sua purezza rispetto alle ambizioni di parte.

La bestia
(Valerie on the Stairs)
Regia: Mick Garris
Sceneggiatura: Mick Garris, da un racconto di Clive Barker
Origine: Usa, 2006
Durata: 57’

Trailer di Valerie on the Stairs

Collegati:
Masters of Horror
Pro-Life: Il seme del Male
Deer Woman: Leggenda assassina
Imprint: Sulle tracce del terrore

martedì 16 febbraio 2010

Titanic

Titanic

Il cacciatore di tesori Brock Lovett raggiunge il relitto del Titanic nella speranza di ritrovare un prezioso e dimenticato diamante, il “Cuore dell’Oceano”. La spedizione, che ottiene risonanza internazionale, gli permette di entrare in contatto con Rose DeWitt Bukater, la donna che, ormai centenaria, è fra i sopravvissuti del naufragio e cui era stato regalato il gioiello dal ricco ma meschino fidanzato Cal. Rose racconta quindi gli eventi di quel lontano 1912, la sua volontà di non accettare quel fidanzamento imposto dalle disastrose condizioni economiche della pur prestigiosa famiglia e l’incontro con Jack Dawson, un giovane artista senza fissa dimora che aveva vinto il biglietto per il viaggio in una partita di poker. Fra i due giovani era sbocciato un amore contrastato dalle circostanze, ma che si era rivelato importante per condurre Rose alla salvezza.

“You have a gift, Jack. You do: you see people”
“I see you”

C’è una circolarità che spesso ritorna nei film di James Cameron ed è quella che iscrive in un momento iniziale quello che poi sarà il finale: nel caso specifico la tragedia del Titanic è annunciata già dagli eventi storici che rendono noti i fatti e che il film in ogni caso si premura di spiegare dettagliatamente attraverso una simulazione al computer fornita da uno degli assistenti di Brock Lovett. Non c’è sorpresa, come non ci sono dubbi sulla storia d’amore cui andremo ad assistere nelle tre ore di visione: ciò che infatti interessa, ancora una volta, è imparare a vedere ciò che è lampante ma che non è mai stato visto davvero.

Ecco dunque che il film si configura stabilmente come un continuo sabotaggio ai danni delle convinzioni errate di un micro-universo sintetizzato dallo stesso Titanic: siamo infatti ancora di fronte a un cascame di quel mondo tecnologico che Cameron ammira nella sua possanza e nelle possibilità che offre, ma che allo stesso tempo teme nelle sue implicazioni. L’amore che travalica le classi sociali fra Rose e Jack, quindi, diventa al contempo una incredibile possibilità offerta da un viaggio che vede tutti insieme poveri e ricchi, ma anche una dimostrazione del feroce classismo pure insito in una società al massimo del suo fulgore tecnologico, ma ancora incapace di coniugare il progresso nel senso di un reale benessere collettivo e che non esita a mostrare anzi il suo lato più avido e spietato (ad esempio negando la salvezza ai naufraghi delle classi inferiori).

Il personaggio di Rose, in particolare, è costretto quindi ad attraversare un percorso che, da donna fragile e capricciosa, le permetta di configurarsi come nuova eroina cameroniana, capace di affrontare con coraggio le avversità in nome di ciò che vuole e non del destino impostole dagli eventi e dalla famiglia. Rose appare infatti inizialmente vittima tanto del vanesio e superficiale fidanzato Cal, quanto della madre che la sfrutta per ottenere quella ricollocazione sociale negatale dai disastri finanziari in cui l’ha precipitata il marito. L’incontro con Jack è dunque propedeutico a quella simbolica rinascita che la ragazza attuerà nel finale lottando per la propria sopravvivenza e adottando infine il cognome dell’amato, a marcare la distanza con la vita precedente. Un percorso scandito da attraversamenti fisici dei “livelli” della nave, in una contaminazione fra classi superiori e inferiori che travalichi quelle apparenze che pure permettono a Jack di non sfigurare durante il pranzo nella sala principale e che sia fatta di gesti concreti, siano essi un ballo o un “volgare” atto di sputare. Il tutto sfocia da un lato nella splendida sequenza del ritratto, dove il gioco di sguardi riflette un erotismo velato, capace di ricollocare l’atto della visione nella concretezza della carne e della riproduzione artistica con cui Cameron riscrive gli ordini sociali; e dall’altro in quella, altrettanto straordinaria, del “volo” sulla prua della nave dove il desiderio di liberazione fisica viene reso metaforicamente con l’immaginario librarsi sulle acque dell’oceano.

Cameron gioca dunque la sua partita su più livelli, cercando di non deludere le aspettative di un pubblico che si aspetta un grande evento spettacolare e una trascinante storia d’amore, ma non perde mai di vista la possibilità di fare, del rapporto fra i due, un paradigma di una situazione più grande. Non a caso Jake o Rose sono sempre presenti laddove accadono eventi importanti (ad esempio è la ragazza a notare la scarsità di scialuppe e ad apprendere, prima della maggioranza dei passeggeri, che la nave è destinata ad affondare) e attraversano il Titanic in tutti i suoi diversi comparti, dal ponte fino alla sala macchine: il regista osa anche molto istillando il dubbio che addirittura possano essere i due giovani protagonisti gli involontari artefici del disastro, poiché il loro amoreggiare disturba i marinai sulla coffa, ritardando dunque la visione dell’iceberg con cui il transatlantico entra in collisione. In effetti ciò che il film mette in scena è un autentico rivolgimento del mondo, che poggia su una attentissima documentazione degli eventi reali, ma poi sfocia tranquillamente nel puro cinema attraverso la concezione muscolare cara all’autore. Quando infatti vediamo Rose dimenarsi nell’acqua per salvare l’amato, e affrontare insieme a lui un Cal armato di pistola è alquanto indubbio che siamo ormai all’interno di un melodramma puramente cinematografico, dove ciò che conta non è soltanto la ricostruzione (pure prodigiosa) di un disastro, ma la messinscena di una collisione di forze depositarie di visioni del mondo differenti.

Il tutto dunque confluisce nell’ultima parte del film, dove l’affondamento raggiunge i suoi vertici di enfasi drammatica, con la messinscena dello scafo spezzato (rappresentata al cinema per la prima volta) che davvero risulta, oltre che straordinariamente potente, anche crudamente paradigmatica della disfatta di un sogno tecnologico effimero perché basato unicamente sullo sfoggio di potenza, in barba a qualsiasi precauzione (si veda il capitano che non ordina di rallentare nonostante sia messo al corrente della presenza di iceberg). Ancora oggi, nonostante i 13 anni di distanza dalla realizzazione, queste sequenze da sole bastano al film per svettare oltre le semplici catalogazioni di disaster movie o di mero dramma sentimentale.

Titanic alla fine è invece un film che segna il tentativo di riappropriarsi del sogno attraverso la presa di coscienza di un errore che pure non mina alle fondamenta la bellezza di un universo pensato per segnare un passo verso una migliore realizzazione umana. Per questo l’ultima circolarità che la storia mette in scena è quella che vede Rose tornare sul luogo del disastro per riconsegnare alle acque il Cuore dell’Oceano. E’ come se tutta la sua vita altro non fosse stata che una parentesi (non a caso mantenuta fuori dalla narrazione) in cui lei ha onorato la promessa fatta a Jack di attraversare intensamente ogni giorno: a questo punto resta soltanto l’atto del restituire quel gioiello diventato inconsapevolmente pegno del giuramento e motore della storia. Una vicenda dunque finisce, mentre un’altra visione umana si profila all’orizzonte, destinata a sbocciare fra la vegetazione di Pandora, nel capolavoro Avatar.

Titanic
(id.)
Regia e sceneggiatura: James Cameron
Origine: Usa, 1997
Durata: 187’

Sito ufficiale americano
Lunga intervista del 1999 a James Cameron (in inglese)
Pagina di Wikipedia Italia di Titanic
Trailer italiano di Titanic
Trailer americano di Titanic
Sito dedicato al transatlantico Titanic
Sito della “Titanic Historical Society” (in inglese)
Titanic il sequel (divertentissima parodia Mtv Movie Awards – in inglese)

Collegati:

Avatar
AVATAR Day

lunedì 15 febbraio 2010

L'uomo lupo

L’uomo lupo

Dopo la morte del fratello, Larry Talbot decide di tornare alla casa paterna, che aveva abbandonato anni prima fuggendo all’estero. Accolto con favore dalla comunità locale, Larry si invaghisce della bella Gwen: è con lei la sera in cui, dopo essersi fatto leggere la mano da alcuni zingari, viene attaccato da una belva che gli lascia una cicatrice a forma di stella sul petto. Da quel momento Larry ricade sotto l’influsso di una maledizione che lo porta, nelle notti di luna piena, a trasformarsi in una belva assassina.

Even a man who is pure in heart
and says his prayers by night
may become a wolf when the wolfbane blooms
and the autumn moon is bright

In attesa di assistere alla rivisitazione di Joe Johnston con protagonista Benicio Del Toro, riscopriamo volentieri L’uomo lupo originale che, seppur non possa vantare la progenitura del genere licantropico, sicuramente è il film-matrice per tutte le variazioni venute in seguito. Realizzato in un’epoca in cui già la Universal veleggiava verso quella deriva seriale che avrebbe poi prodotto la stagione dei cross-over e dei remake, L’uomo lupo appare come un perfetto film “di mezzo”, ormai distante dal periodo d’oro in cui gli horror della casa potevano vantare il mecenatismo di Carl Laemmle Jr. e artisti come James Whale avevano lo spazio necessario per veicolare la propria visione artistica in esempi di genere straordinariamente complessi e sfaccettati.

Nonostante il chiaro intento commerciale, volto a creare una nuova icona e a sfruttare opportunisticamente il richiamo e la capacità trasformistica dei Chaney, L’uomo lupo si distingue in ogni caso come esempio di un possibile horror capace di coniugare qualità ed esigenze spettacolari, tanto che, rivisto oggi, spiace che sia rimasto un esempio isolato e non sia stato lasciato libero di costituire un autentico modello per i suoi mediocri sequel. Si distingue in particolare l’ottima sceneggiatura di Curt Siodmak il quale, oltre a stabilire una serie di cliché che diventeranno da questo momento in poi regola inderogabile per ogni pellicola licantropica che si rispetti (a iniziare dall’utilizzo dell’argento come arma per distruggere il mostro), riesce a riflettere nei sottotesti del film il disagio del vivere tipico di un mondo che si andava affacciando al disastro della seconda guerra mondiale.

Siodmak, non a caso fuggito dall’Europa, istilla quindi nel suo Larry Talbot una inadeguatezza rispetto all’ambiente circostante che fin dalle prime battute lo connota come un “diverso”: la regia di Waggner gli sta dietro, spiegando il difficile rapporto tra padre e figlio principalmente attraverso i gesti imbarazzati e i silenzi fra i due, mentre il tentativo di corteggiare la bella di turno si stabilizza su uno strano triangolo amoroso destinato progressivamente a spingere Larry nel ruolo del terzo incomodo. La maledizione che dunque colpisce lo sventurato protagonista diventa non già il simbolo di un inaspettato destino, ma una consacrazione del suo essere outsider: la connotazione stevensoniana del male che si estrinseca con la mutazione fisica, chiaramente riflette anche l’incertezza di un periodo in cui l’intelligenza, il benessere sociale (la famiglia di Larry sembra chiaramente appartenere all’alta borghesia) e gli interessi che vanno al di là della sfera terrena (come l’astronomia) non si rivelano sufficienti a contenere le spinte bestiali che stanno contemporaneamente sorgendo nell’entroterra europeo (lo stesso degli esperimenti di Frankenstein peraltro).

Un altro aspetto interessante del film, poi, sta nella sua inedita visualità, anch’essa a metà strada fra la modernità delle automobili usate dai protagonisti e l’arcaica forza delle maledizioni di cui solo gli zingari riescono ad essere contemporaneamente veicolo e interpreti: il bel personaggio di Maleva, interpretato magistralmente dalla grandissima attrice russa Maria Ouspenskaya, diventa così l’autentica sintesi delle varie anime che serpeggiano nel racconto e reca i segni della sofferenza che la dannazione reca con sé e della solidarietà che emerge fra i reietti. L’uomo lupo di Lon Chaney jr. diventa pertanto una creatura che somma la malinconia del Frankenstein di Boris Karloff con la bestialità del Dracula di Lugosi, attore dal quale non a caso Talbot eredita il contagio. Il personaggio si muove in ambienti nebbiosi resi splendidamente dalla fotografia di Joseph Valentine e che aprono squarci fiabeschi nella realtà razionalista del racconto (in cui gli attacchi del mostro scatenano le indagini delle autorità), dove è possibile in pochi passi transitare dalla concretezza della magione familiare al pericolo dei boschi dove si nasconde la minaccia e dove il lupo manifesta la sua bestialità, lasciandoci liberi di pensare a una possibile trasfigurazione della fiaba di Cappuccetto Rosso.

In virtù di questi aspetti, la visione del film regala sensazioni multiformi e l’orrore insito nella mostruosa caratterizzazione del Chaney truccato da Jack Pierce, si stempera in una forte fascinazione per la composizione visiva, dove gli esterni risultano ben più importanti degli interni, a rovesciare la formula prediletta invece dalle storie di Dracula e Frankenstein con i loro castelli decadenti e i laboratori carichi di macchinari, espressione di un curioso barocchismo tecnologico.

L’uomo lupo
(The Wolf Man)
Regia: George Waggner
Sceneggiatura: Curt Siodmak
Origine: Usa, 1941
Durata: 71’

L’uomo lupo su Wikipedia
Larry Talbot su Wikipedia
Recensione di ClassicHorror.com (in inglese)
Intervista del 1970 a Curt Siodmak (in inglese)
Poster italiano de L’uomo lupo
Trailer originale de L’uomo lupo
Universal Monster Legacy dal sito del remake

domenica 14 febbraio 2010

Paranormal Activity

Paranormal Activity

Micah e Kate vivono insieme in una bella villetta a due piani, ma devono affrontare un problema di natura paranormale: lei è infatti perseguitata ciclicamente e sin dall’infanzia da una non meglio precisata entità che un sensitivo individua in un demone. Per far fronte al problema e comprendere meglio la natura del fenomeno, Micah decide di filmare la vita quotidiana della coppia, ivi comprese le notti durante le quali l’entità si manifesta con maggiore frequenza. Il sensitivo comunque lo mette in guardia dal tentare di sfidare il demone, ma Micah sembra interessato maggiormente a dimostrare di poter proteggere la sua ragazza…

Uno degli aspetti più singolari (e, volendo, contraddittori) dell’horror riguarda il fatto che un qualsiasi mutamento del linguaggio, a ben guardare, già presuppone in sé un’aderenza a topoi sepolti nella tradizione: le dinamiche del terrore in fondo sono basiche e fanno leva su sentimenti primari, per cui anche la loro narrazione, pur nel rinnovamento estetico delle storie, appare sempre come un eterno ritorno al già visto. Paranormal Activity è dunque un ennesimo percorso che si viene ad aprire nel filone qui già denominato come “Real Cinema”, ovvero del “finto filmato amatoriale” (diverso quindi dalla definizione di “Mockumentary” che sarebbe più corretto riferire ai “finti documentari”, stile Incident at Loch Ness); ma allo stesso tempo è anche una ricapitolazione di temi e stilemi narrativi (e tematici) noti. In effetti il film di Oren Peli, diventato un caso cinematografico più che altro in virtù del gran battage pubblicitario che gli è sorto intorno, può essere visto principalmente come un tentativo di ricapitolazione del già fatto, senza cercare un’originalità che non sia un tentativo alquanto blando di distinguersi o di affrancarsi dai modelli, in modo quindi discreto, lavorando soltanto sulle sfumature. Anzi, da questo punto di vista è interessante notare come siano più le differenze con i classici del Real Cinema che con quelli dell’horror più “tradizionale”.

Ecco dunque reiterarsi l’idea dell’entità invasiva, che può ricordare il bel Entity di Sidney J. Furie o il Poltergeist di Tobe Hooper (e Steven Spielberg, non a caso grande supporter di questo film): e quando poi vediamo i due protagonisti intenti a esplorare la soffitta il pensiero corre non casuale all’Esorcista, o in senso lato al più recente [REC]2 per il tentativo di moltiplicare lo spazio utilizzando la scena come elemento attivo ed espressivo del meccanismo di riproduzione dell’orrore. In un confronto diretto con il Real Cinema, però, non si può non notare come venga a mancare un elemento fondamentale, ovvero l’identificazione totale dell’occhio della macchina da presa con lo sguardo del protagonista-cameraman: ciò avviene solo in parte, durante le sequenze diurne (e alcune “esplorative”, in notturna) in cui i personaggi sono legati ai rispettivi ruoli e conversano, spesso anche trasmettendo la sensazione di perdere tempo, di essere quasi spettatori essi stessi di eventi che non capiscono, ma con cui si divertono a instaurare dinamiche futili, come la sfida o addirittura la detection. Nel momento invece in cui la mdp si “stacca” per diventare camera fissa, Paranormal Activity diventa letteralmente un altro film, recupera la fissità del punto di vista utilizzando espressivamente l’ambiente unico della camera da letto secondo una dinamica estremamente radicale e che immerge nel cinema degli esordi, dove sono i piccoli spostamenti a fare la differenza e dove il trucco, in antitesi all’armamentario tecnologico messo in campo, diventa palese rappresentazione illusionistica (come le orme nel talco, che quasi sembrano quelle dell’Uomo Invisibile di James Whale).

I protagonisti pure perdono la loro sovrastrutturazione verbale per diventare mero strumento di azione orrifica, urlando, spostandosi o a volte anche solo restando fermi, in preda a un moto totalmente illogico che quindi apre il film a possibilità interessanti, prima fra tutti quella su cui in effetti si gioca ampia parte della “partita” con il demone e che vede Kate contemporaneamente nel ruolo della vittima, ma forse anche del veicolo del male (è lei non a caso il tramite con la forza paranormale).

Su tutto domina poi una prospettiva low budget estremamente forte, che impedisce al film di sfoggiare sequenze davvero spaventose (contrariamente a quanto promettono gli strilli pubblicitari): in effetti più che a un film “che fa paura” siamo di fronte a un esercizio di tensione basato su un meccanismo iterativo e refrattario a qualsiasi possibile mitopoiesi. In questo senso Paranormal Activity non è soltanto un film che si iscrive in una fortunata tradizione a basso costo, ma è anche l’antitesi del meccanismo commerciale in cui pure si è ritrovato suo malgrado inserito. Non a caso, diversamente da quel Blair Witch Project cui è spesso associato e che pure rappresentava un tentativo molto forte di asciugare il genere dalla sua componente più evocativa, qui non esiste assolutamente alcuna mitologia pregressa (veicolata attraverso il viral marketing) e l’ambientazione stessa diventa quella di un normalissimo villino suburbano con tanto di splendida piscina. Il finale imposto dalla produzione e che esplicita maggiormente la componente soprannaturale appare pertanto alquanto forzato di fronte all’asciuttezza quasi “giapponese” dell’originale, ma per fortuna non disperde totalmente la forza espressiva del fuoricampo, rappresentato dalla porta-squarcio, aperta verso le infinite possibilità che le varie notti tentano di suscitare e con cui cercano di giocare interessando lo spettatore più curioso. Un film non per tutti, ma da rivedere a mente fredda, magari lontano dall’isteria scatenata dalla pubblicità.

Paranormal Activity
(id.)
Regia e sceneggiatura: Oren Peli
Origine: Usa, 2007
Durata: 86’

Intervista al regista e al produttore esecutivo
Sito ufficiale americano
Sito italiano
Wikipedia inglese con informazioni su produzione e versioni alternative
Trailer italiano di Paranormal Activity
Trailer americano HD di Paranormal Activity
Altra mia recensione su Sentieri Selvaggi
Interessante recensione (negativa) di Elvezio Sciallis