"C'è chi crede in dio o nel denaro. Io credo nel cinema, nel suo potere. L'ho scoperto da ragazzino, mi ha aiutato a fuggire da una realtà in cui ero infelice. È una delle forme d'arte più alte che l'uomo ha concepito. Credo nel suo futuro."
(John Carpenter)

giovedì 4 marzo 2010

Invictus

Invictus

Nelson Mandela, primo presidente nero del Sudafrica dopo 27 anni di prigionia, si fa carico della riappacificazione in un paese profondamente diviso fra la minoranza bianca che ha detenuto a lungo il potere e quella nera che vede in lui il baluardo per rovesciare i rapporti di forza. Profondamente determinato a riunire il popolo sotto un’unica bandiera, Mandela intravede nel campionato mondiale di rugby, che si terrà proprio in Sudafrica, l’occasione ideale per i suoi scopi. La squadra locale però è sfavorita e reduce da prove non esaltanti che lasciano temere il peggio, ma Mandela crede nelle potenzialità del gruppo, che ha in Francois Pienaar il suo capitano.

Si ricomincia insomma da dove ci eravamo lasciati, dal corpo di Clint a terra, in posizione cristologica, per dare forma a un sacrificio in grado di riappacificare le etnie del territorio circostante. La sfida è ancora quella, lasciarsi alle spalle le rivendicazioni di parte per fondare un ordine nuovo, basato sulla comunanza dell’identità e, anzi, sulla scoperta del multiculturalismo quale chiave per comprendere la ricchezza comune. L’imperativo è imparare a conoscere l’altro, come ha fatto il Mandela di un mimetico Morgan Freeman nei suoi 27 anni di prigionia, durante i quali ha imparato ad osservare i suoi carcerieri, ha letto i libri che formano il sostrato culturale dei bianchi (i cosidetti "afrikaner") e quindi ha lentamente abbattuto gli steccati che l’odio o il desiderio di vendetta avrebbero potuto innalzare fra lui e gli altri.

Il problema naturalmente è far sì che tale filosofia diventi guida per una nazione: l’aspirazione alla grandezza non è quindi soltanto quella di chi ha una prospettiva di Stato, ma quella che guarda allo Stato come al riflesso di un’umanità molteplice ma unita nel suo essere parte del reale. La Storia di Mandela diventa quindi trasfigurazione utopistica che mette in scacco le facili accuse di agiografia, poiché a Clint Eastwood l’uomo interessa come componente di una mitologia che non si incarna nel passato ma diventa modello per il presente, quello che attualmente ha così bisogno di valori a cui ispirarsi e che deve comprendere come il pericolo non sia negli altri e la ricchezza sia invece nella propria determinazione. Emerge ancora una volta la componente fordiana incentrata sulla palingenesi come (ri)fondazione di una comunità: ma con una differenza stavolta sostanziale, che dice del rapporto critico che Clint instaura con la tradizione cinematografica. Stavolta non esistono più una verità e una leggenda scisse, come non è più tempo di singoli gruppi contrapposti a una ragion di stato disumana e vile.

Ecco dunque che il film agisce su due livelli: da un lato il Mandela uomo, dall’altro il capo di Stato. In entrambi i casi la figura è oscurata da difficoltà nei rapporti personali (si pensi alla figura della figlia, sempre seminale nel cinema eastwoodiano) o politici, in una realtà che sembra presentare minacce inaspettate, dove anche gli elementi del quotidiano (un camion che consegna giornali, un aereo) appaiono come potenziali strumenti d’offesa. Identica è la condizione di Pienaar, capitano sfiduciato ma non domo di una squadra apparentemente orientata alla sconfitta: il campione è infatti anch’egli in una condizione a metà, frustrato sportivamente ma anche non aiutato nella vita di tutti i giorni da una realtà che si profila come ostile ai bianchi e da una famiglia conservatrice che considera Mandela un esempio negativo.

La ricostruzione globale passa dunque necessariamente per quella personale, attraverso questi esempi paradigmatici, e con un bisogno di comprensione reciproca che, come sempre nel cinema eastwoodiano, diventa gesto fisico: ecco dunque la sequenza fondamentale (non a caso autentico punto di svolta del racconto, sebbene così apparentemente dimessa) in cui Pienaar varca la soglia della cella in cui Mandela era rimasto rinchiuso per quasi trent’anni. Le sue mani misurano lo spazio fisico aprendosi a quella posizione cristologica fatalmente eastwoodiana che diventa quindi un autentico atto di sovrapposizione, in cui si consuma la comprensione dell’altro. La sequenza è importante anche per il gioco figurativo di evocazioni fantastiche che ha in Pienaar l'osservatore privilegiato: il campione infatti “vede” letteralmente Mandela mentre consuma i suoi anni nello spazio angusto della cella e si spacca le mani nei lavori forzati, pur restando intimamente invincibile grazie a quella poesia scritta dall’inglese (bianco quindi) William Ernest Henley e diventata la sua direttrice. Lo sguardo quindi si fonde inestricabilmente al gesto fisico, ma allo stesso tempo il gesto non piega la mente, in un gioco di rimandi incrociati che disegna la geografia del percorso umano secondo l’etica eastwoodiana.

Su questo atto realmente fondativo può dunque avere il via l’autentica fase di ricostruzione, dove Mandela e Pienaar diventano complici, completandosi reciprocamente: l’uno perché ha trovato la persona in grado di mettere in pratica la sua visione articolandola nel corpo unico della squadra, l’altro perché ha compreso la direttrice impartita da quel presidente che vede al di là delle semplici dicotomie e che vuole lasciare un segno profondo nella coscienza comune.

Invictus – L’invincibile
(id.)
Regia: Clint Eastwood
Sceneggiatura: Anthony Peckham, dal libro Ama il tuo nemico, di John Carlin
Origine: Usa, 2009
Durata: 133’

Intervista a Morgan Freeman
Morgan Freeman e Matt Damon sul film
Video intervista al vero Francois Pienaar (in inglese)
Sito ufficiale italiano
Sito ufficiale americano
Recensione di Sentieri Selvaggi
Nelson Mandela su Wikipedia
La poesia Invictus di William Ernest Henley

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