"C'è chi crede in dio o nel denaro. Io credo nel cinema, nel suo potere. L'ho scoperto da ragazzino, mi ha aiutato a fuggire da una realtà in cui ero infelice. È una delle forme d'arte più alte che l'uomo ha concepito. Credo nel suo futuro."
(John Carpenter)

martedì 22 giugno 2010

Addio a Corso Salani

Addio a Corso Salani

Ho sempre avuto un certo timore nello scrivere di Corso Salani e del suo cinema. Perché sapevo che qualsiasi inesattezza, qualsiasi parere non condiviso lui non me l’avrebbe perdonato: era fatto così d’altronde, sempre con quell’aria apparentemente svagata, ma in realtà attento ed estremamente preciso verso ciò che riguardava il cinema, il farne e lo scriverne. Molti ricordi si affollano nella mente a così pochi giorni dalla sua improvvisa scomparsa, ma quello che mi torna più forte è proprio la sua ironia: che non era, beninteso, soltanto quel fare divertito che bene o male riesci sempre a rintracciare nelle persone che impari a conoscere, magari un retaggio di quella matrice toscana sempre viva in lui. No, per Corso l’ironia era davvero un modo di essere, al punto che “perseguitare” amichevolmente i critici che scrivevano delle sue opere, tallonarli e metterli all’angolo su un dettaglio, un particolare, una frase o un pensiero era in fondo un suo modo per renderli partecipi del suo universo e per demistificare la pratica seriosa dell’analisi filmica.
 
Contraddizione? Non più di quella insita in un uomo dall’aspetto apparentemente così austero ma in realtà capace di grandissima umanità: d’altra parte era forse stato proprio quell’aspetto a trarmi in inganno quando ancora mi capitava di incrociarlo per festival e di avvertire nei suoi confronti un senso di soggezione, poi superato dalla frequentazione e dalle sue puntuali partecipazioni al Taranto Film Festival, di cui era un po’ il personaggio simbolo: difficile infatti trovare un altro cineasta così, sempre curioso e instancabile, con una forte matrice toscana ma poi in realtà apolide, che riusciva a girare i suoi lavori nei luoghi più impensabili, dall’Europa dell’Est al Sud America e che non a caso spesso intitolava i suoi lavori con nomi che rimandavano a luoghi, da Occidente all’ultimo progetto dei Confini d’Europa.
 
Non era stato forse anche questo a sorprendere i ragazzi che nel 2003 avevano partecipato a un convegno organizzato dal Centro Studi Cinematografici Puglia e svoltosi proprio a Taranto? E’ stata quella volta che ho imparato a conoscerlo meglio e a divertirmi nell’osservarlo mentre spiegava le forme, da lui definite a volte anche “banditesche”, di preparazione dei suoi film, che sembravano all’improvviso sfaldarsi di fronte alla realtà di un risultato finale che nulla dava del lavoro svolto in fretta e in grandissima economia di mezzi.
 
Qui c’è forse il punto focale della sua figura di autore: Corso Salani era un regista indipendente per scelta, ma totalmente opposto all’idea che comunemente associamo a questa figura, che nel nostro immaginario di cinefili è quella del “guerrilla style”, del “mordi e fuggi”, dell’improvvisazione perenne e della lotta continua con produttori e budget. Al contrario da lui non avresti mai sentito una sola parola di lamentela. Pratica rara nel cinema italiano, al lamento preferiva il lavoro, magari come attore in pellicole altrui, quelle per cui oggi è maggiormente ricordato.
 
A proposito di indipendenza, una volta mi capitò di chiedergli se per realizzare i carrelli avesse mai usato una di quelle soluzioni “avventurose” tipiche del nostro cinema popolare più povero, fosse un carrello della spesa o una sedia a rotelle. Il suo diniego fu tanto sincero quanto fulminante. Così come qualsiasi domanda sulla preparazione rivelava come dietro ogni sua opera ci fosse un intenso lavoro di scrittura e pianificazione, esattamente opposto a quello che ci si aspetterebbe dai modi “banditeschi” che pure raccontava. A ripensarci ancora oggi continuo a chiedermelo: qual era il segreto di questo cinema povero eppure capace di non farsi mancare nulla e di apparire ricchissimo? Come era possibile unire una ferrea pianificazione con una capacità così forte di estrapolare un particolare ed elevarlo a momento significante di un’opera? Flashback: C’è un posto in Italia. Corso è al seguito di Nichi Vendola per realizzare una sorta di backstage sulla sua campagna elettorale e si trova in un locale dove l’allora pretendente alla poltrona di Presidente della Regione Puglia parla con alcune donne che espongono i loro problemi. L’occhio della macchina da presa è fisso su un volto, una delle tante donne presenti in sala, il dibattito è ricacciato sullo sfondo, prevale la curiosità umana per quel volto, la sua espressività, la sua veracità e quella bellezza che non è frutto di trucchi e imbellettamenti, ma è data unicamente dalla verità dei suoi gesti. Un’osservazione sfacciata ma sincera nel suo pudore, quando la macchina da presa stacca nel momento in cui la donna si accorge di essere ripresa.
 
D’altronde l’elemento femminile era l’altra grande verità del suo cinema: c’è un lavoro del 2003, Corrispondenze private, in cui Corso mostra il suo lavoro di casting (che l’avrebbe portato poi a selezionare Paloma Calle, protagonista del successivo Palabras). Corso non lo considerava un suo film significativo, ma il suo ritmo episodico, la schiettezza e il reiterarsi di alcuni tormentoni lo rendevano irresistibile, al punto che lui si sorprese nel notare che lo ricordassi così bene.
 
“Bisogna costruire personaggi che diventino persone reali” diceva, ma il rapporto è sempre stato a direzioni intrecciate: i suoi personaggi sono reali proprio perché riflettono le caratteristiche proprie delle sue attrici, c’è un costante lavoro di comunicazione fra la donna e il personaggio e fra la realtà circostante e le storie raccontate nei suoi film.
 
In fondo non si potrebbe pensare diversamente per un cineasta che, dichiaratamente, partiva sempre da situazioni del quotidiano, un’immagine, una sensazione su cui poi si innalzava naturalmente la storia. Non a caso in lui coesisteva sempre la dimensione lirica della narrazione con quella estremamente più concreta del documentario, eppure i suoi film non sono né l’una né l’altra cosa. Ora forse riesco a trovare la risposta a quella domanda che mi sono fatto tante volte: in realtà Corso non era contraddittorio, si limitava a riassumere in sé le forze opposte che permettono alla macchina-cinema di diventare riflesso della vita in tutte le sue sfaccettature. Peccato che l’abbiamo capito in pochi.

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