"C'è chi crede in dio o nel denaro. Io credo nel cinema, nel suo potere. L'ho scoperto da ragazzino, mi ha aiutato a fuggire da una realtà in cui ero infelice. È una delle forme d'arte più alte che l'uomo ha concepito. Credo nel suo futuro."
(John Carpenter)

lunedì 26 luglio 2010

La terribile storia di Haeckel

La terribile storia di Haeckel

XIX secolo. Un uomo, Edward Ralston, giunge a casa della signora Carnation, che ha fama di saper resuscitare i morti, per chiederle di ricongiungerlo alla sua amata moglie, scomparsa da poco. La donna gli impone di ascoltare prima il racconto riguardante Ernst Haeckel, giovane studente di medicina convinto di poter trovare il modo di rianimare i cadaveri, secondo le dottrine un tempo enunciate dal dottor Frankenstein. Dopo aver fallito la sua dimostrazione con il professore di medicina, Haeckel si era interessanto alle pratiche di negromanzia del misterioso dottor Montesquino, da lui pure considerato un ciarlatano. Quindi era tornato a casa per assistere il padre morente e, lungo la strada, si era fermato a casa di tal Walter Wolfram, uomo anziano che viveva con la giovane e bella moglie Elise. La donna però nascondeva un segreto terribile, sintesi dell’amore che travalica la vita e supera la morte.

Varie anime attraversano questo dodicesimo episodio della prima stagione di Masters of Horror, ravvisabili anche nelle molteplici personalità che si affacciano dietro la sua realizzazione. Basato su una breve storia di Clive Barker (pubblicata successivamente alla lavorazione del film), adattata per lo schermo da Mick Garris, La terribile storia di Haeckel era stata inizialmente pensata per Roger Corman, che dovette rifiutare l’offerta a causa di alcuni problemi di salute. La scelta successiva si era concentrata quindi su George Romero, anch’egli però costretto a rinunciare a causa dei contingenti impegni con La terra dei morti viventi (il regista è comunque citato in una didascalia iniziale) e infine a realizzare il tutto è stato John McNaughton, reso celebre da Harry: pioggia di sangue e in effetti figura anomala di cineasta indipendente che aveva più volte flirtato con il genere (era fra i registi designati per il mai realizzato prequel di Nightmare), salvo poi essere storicizzato soprattutto come un tagliente cantore di quella zona di confine sospesa fra amore e dannazione che conduce alla morte (pensiamo ai notevoli Crocevia per l’inferno e Sex Crimes).
 
In ragione di questa travagliata gestazione, non stupisce notare come l’episodio sia fra quelli che più ribollono di influenze apparentemente difformi, stazionando a metà strada fra l’omaggio al gotico di matrice, per l’appunto, cormaniana, e una cifra grottesca vicina agli EC Comics, chiave di lettura peraltro per molti classici del new horror (pensiamo ai debiti palesi che lo stesso Romero ha più volte dichiarato nei confronti di quei mitici fumetti). Su questa struttura si impianta una storia di dannazione che esplora l’ossessione amorosa come inevitabile approdo di un’umanità alla perenne ricerca della vita eterna.
 
La ricerca in questione si articola a sua volta su due fronti: come prolungamento del rapporto sentimentale (vivere per continuare a restare al fianco della persona amata) e come puro artificio che pone sullo stesso piano scienza e spettacolo. Nonostante il titolo tributi a Haeckel il ruolo di protagonista, in realtà la sua figura è puramente strumentale rispetto alle opposte direttive messe in campo dal racconto e sospesa fra emozioni differenti (l’ignoranza dell’amore e l’entusiasmo dello scienziato). Haeckel sogna quindi il possesso del segreto che l’umanità brama, ma è allo stesso tempo spaventato e inorridito dalle conseguenze che la possibilità di far rivivere i corpi porta con sé, e che trovano nello scioccante finale la sua affermazione. Peraltro il racconto non fa mistero di come il protagonista affronti la sua impresa non avendo in mente uno scopo preciso che non sia l’autoreferenziale piacere del superamento della frontiera. Non è per amore (che muove invece gli altri personaggi ad avvalersi della negromanzia), né per aiutare il padre morente che egli persegue il suo scopo, le cui reali motivazioni si perdono piuttosto nell’emulazione di un modello lontano (il tedesco dottor Frankenstein).
 
Ciononostante la cognizione della posta in gioco arriva proprio laddove Haeckel scopre l’istinto amoroso, apparentandosi così con gli altri personaggi: qui McNaughton gioca le sue carte preferite, che sono poi le stesse care a Barker e a Garris, mostrando l’altra faccia dell’amore come egoismo e soddisfazione dei propri piaceri carnali. In effetti, l’aspetto scioccante del finale non è dato soltanto dall’impatto violento della situazione necrofila, quanto dalla capacità di ricondurre il rapporto sentimentale a pura soddisfazione dell’istinto sessuale, che porta a superare e abolire il sacro e l’umano in nome di una sorta di reificazione della vita nella morte (il neonato mostruoso). Questa inedita componente carnografica (dove risulta più evidente la mano di Clive Barker) riscrive dunque l’egoismo e il sostanziale sprezzo della vita (ricondotta ad artificio da riprodurre con i doni della scienza o della magia) che da sempre è traccia portante del gotico à la Frankenstein: McNaughton fonde osceno erotismo con una cifra grottesca che esalta l’assurdità della situazione, producendo un racconto meno tagliente di quelli a cui ci ha abituato nel tempo, decisamente più enfatico e passionale. Riesce in questo modo a trovare comunque la quadratura di una storia a tratti poco convincente nelle sue varie direzioni e stabilisce con lo spettatore un gioco di prospettive molto interessante, che trova nell’accumulo del post finale la sua degna conclusione.

La terribile storia di Haeckel
(Haeckel’s Tale)
Regia: John McNaughton
Sceneggiatura: Mick Garris, da un racconto di Clive Barker
Origine: Usa, 2005
Durata: 57'


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venerdì 23 luglio 2010

Solomon Kane

Solomon Kane

XVII secolo. Pirata e spadaccino spietato, Solomon Kane scopre che la sua anima è bramata dal Mietitore in base a un patto stipulato a sua insaputa. Decide pertanto di redimersi e ritirarsi in un convento, dal quale viene però scacciato dopo un anno. Di nuovo in viaggio, Solomon si imbatte nei Crowthorn, una famiglia di pellegrini diretti verso il Nuovo Mondo: ma il gruppo cade vittima dell’imboscata tesa dagli sgherri di Malachia, tiranno delle terre inglesi che sta schiavizzando le popolazioni. Solomon decide quindi di liberare Meredith, la figlia dei Crowthorn scampata al massacro della famiglia e portata al castello di Malachia. Per far questo deve riabbracciare la violenza che aveva giurato di non praticare più e impugnare nuovamente la spada. La missione gli chiarirà i segreti della sua famiglia e del patto con il Mietitore.

Il cinema popolare inglese attraversa da alcuni anni una fase tanto interessante quanto poco considerata, soprattutto in un confronto a distanza con le più blasonate realtà francesi o spagnole. Prodotti curati nella forma e accattivanti nella resa visiva, realizzati da nomi degni di essere seguiti, fanno oggi della terra d’oltremanica un mercato che opera nella continuità con quella tradizione un po’ smarrita nel corso degli anni Ottanta e Novanta e che oggi torna a noi in una forma moderna, capace di guardare al cinema hollywoodiano con meritato senso di superiorità. D’altronde, osservando un film come Solomon Kane, non stupisce trovare fra i crediti un nome come quello di Samuel Hadida, già produttore per Christophe Gans, Tony Scott e Roger Avary: una figura insomma attenta ai mutamenti del cinema spettacolare odierno, in quella zona intermedia che sta fra autorialità, indipendenza creativa e grandeur visiva. A lui il compito di tirare le fila di un progetto dalla gestazione molto lunga (i primi annunci risalgono al 2001), su un personaggio culto di Robert E. Howard (il creatore di Conan il barbaro), affidato all’interessante mano di Michael J. Bassett, fattosi notare nell’ultimo decennio con l’interessante horror Deathwatch (apologo antibellicista che trasfigurava l’orrore della guerra nella rivolta dell’ambiente circostante una trincea), cui era poi seguito Wilderness.

Basset si approccia alla materia fornita dai racconti originali lavorando sulla stessa, senza appiattirsi sulla fonte, confezionando quello che si può definire un prequel delle storie howardiane, in modo da creare un background che permetta di istillare nell’anima puritana dell’eroe spadaccino una conflittualità riconducibile a matrici shakespeariane, con tanto di tormenti personali che trovano la loro quadratura in un rapporto familiare complesso. La splendida caratterizzazione di James Purefoy colora inoltre la figura di Solomon Kane, originariamente dipinto come uomo diafano e dunque altero rispetto al mondo che lo circonda, di una fisicità che però è cosa ben diversa dal piglio muscolare dell’heroic fantasy alla John Milius (e qui vengono a cadere molti sterili paragoni mossi proprio con il capolavoro Conan il barbaro).

Solomon infatti iscrive sul suo corpo tormentato il dramma di una storia che è percorso di costruzione della propria identità, una traccia che Basset elabora partendo da una matericità del set dal gusto tipicamente vintage. La fotografia di Dan Laustsen riverbera infatti una tonalità quasi monocromatica, che è la stessa della terra, spogliata e martoriata tanto dagli elementi quanto dalle scorribande dei nemici di turno. La scelta riflette un ritratto sociale in disfacimento che sembra discendere direttamente da quella cifra oscura che aveva fatto grande gli horror della Hammer Film. Lo scenario è infatti piuttosto dark, con distese fangose, boschi avvolti dalla nebbia e minacciose figure mascherate che praticano impiccagioni e crocifissioni, in una sorta di rovesciamento medievale di quella prospettiva di salvezza e redenzione incarnata dalla figura dei pellegrini. In effetti non sembra esserci possibilità di rinascita in una terra dove si viene scacciati dai conventi e dove i preti offrono la carne dei viandanti in sacrificio alle creature mostruose che nascondono nei sotterranei delle proprie chiese.

In questo coacervo di contraddizioni, Solomon è l’elemento di sintesi, la figura che differisce ma al contempo è in continuità con lo spazio circostante: la sua storia di distruzione, infatti, lo rende affine a quei nemici che dimostra di saper affrontare con il vigore dei suoi fendenti di spada, ma il suo eroismo, seppur animato da una certa qual cifra opportunistica di chi intende esclusivamente salvare la propria anima, lo pone ugualmente fra i pochi personaggi altruisti in una realtà basata principalmente sull’egoismo e sulla sopraffazione. Solomon, quindi, incarna la contraddizione della sua Inghilterra, suggerendo che non può esistere eroismo senza che esso discenda a sua volta da quel Male profondamente connaturato all’animo umano, secondo una visione coerente con le precedenti opere di Bassett, e solo una dolorosa ricerca del proprio equilibrio può fornire un punto di fuga.

Non a caso la sua investitura a personaggio, propedeutica alla rinascita che avverrà mediante crocifissione, avviene proprio per effetto di quella già citata figura “di mezzo” rappresentata dai pellegrini, viandanti diretti verso una nuova terra dove ricominciare a vivere. Sono loro a fornirgli anche la nuova iconica veste, che rievoca tante figure dell’avventura più o meno passata, da Zorro a Robin Hood passando per il “V” di Alan Moore e David Lloyd, con il momento della vestizione sottolineato da un ralenty evocativo. Tutte caratteristiche che ribadiscono la sua natura liminare, sospesa fra scenari differenti. Perché, in fondo, Bassett fa di Solomon un continuo territorio di sperimentazione, dove le uniche certezze allo spettatore sono date dall’aderenza affettuosa a una concezione dell’avventura molto classica, priva cioè degli inutili esibizionismi digitali di un cinema hollywoodiano stretto fra aride logiche industriali e pessime rivisitazioni dei classici.

In questo modo l’avventura procede in modo lineare, soltanto affrettata da un montaggio che con tutta probabilità sacrifica alcuni momenti di raccordo per esigenze di durata (si spera in una Director’s Cut), ma mantiene gli elementi necessari per una buona storia: personaggi ben definiti, una progressione convincente, un senso del magico capace di fare della cifra “stregonesca” una metafora delle bestialità e delle velleità proprie dell’animo umano quando tende all’errore.

Solomon Kane
(id.)
Regia e sceneggiatura: Michael J. Bassett (personaggio creato da Robert E. Howard)
Origine: Uk/Francia/Repubblica Ceca, 2009
Durata: 104’

lunedì 19 luglio 2010

Pulgasari

Pulgasari

XIV secolo. La popolazione contadina è oppressa dalla tirannia del governatore e alcuni ribelli, capeggiati dal giovane Inde, decidono di partire per le montagne dove organizzare la resistenza. Un editto però ordina l’esproprio di tutto il ferro a disposizione del popolo per la fabbricazione di armi, compito che viene affidato all’anziano padre della giovane Ami, di cui Inde è innamorato. Ma l’uomo però si rifiuta di obbedire e lasciare la popolazione senza attrezzi e per questo viene imprigionato fino alla morte: prima di spirare, l’uomo affida le sue preghiere a un pugno di riso che assume la forza del mostro Pulgasari. Goloso di ferro, il mostro cresce a dismisura fino a diventare l’arma definitiva dei ribelli contro il tiranno e favorisce così la caduta del regime.

Qualsiasi considerazione si voglia tentare su un film come Pulgasari non può prescindere dall’incredibile storia alle sue spalle, che ha visto il regista Shin Sang-ok e la moglie (e attrice) Choi Eun-hee (interprete di Ami) rapiti nel 1978 dal regime nordcoreano per conto di Kim Jong Il, all’epoca ministro della propaganda del partito comunista, convinto di dover portare avanti i suoi compiti attraverso il cinema. Frustrato infatti dalla mancanza di registi capaci di realizzare i suoi voleri, Kim decise di “importarne” uno dal Sud: rinchiuso in una prigione dorata, ma anche sottoposto a vessazioni dopo un tentativo di fuga, Shin Sang-ok realizzò alcuni film prima di riuscire a riguadagnare la libertà. Pulgasari è considerato il suo capolavoro e rappresenta un ibrido estremamente curioso di influenze diverse.
 
Parte kaiju-eiga, parte affresco storico intinto nelle direttive del cinema di propaganda, il film rovescia l’assunto giapponese del “cinema di mostri” nipponico, rendendo la creatura eponima non propagazione della natura violata, ma estensione del desiderio di libertà del popolo oppresso da un regime (chiara metafora del capitalismo inviso all’ideologia comunista). Shin tratta però Pulgasari con voluta ambiguità, rendendolo allo stesso tempo amabile e temibile, secondo un dualismo che è comunque insito nella stessa matrice giapponese del genere, in cui le categorizzazioni di “buono” e “cattivo” sono alquanto sfumate: non a caso il film utilizza comunque professionalità del kaiju eiga vero e proprio, in particolare affidando la caratterizzazione del mostro ai celebri Ma-chan (che già aveva impersonato in patria Minilla, buffo figlio di Godzilla, negli anni sessanta) e Kenpachiro Satsuma, che in quegli anni “indossava” la tuta gommata dello stesso Godzilla. Gli effetti speciali sono inoltre curati da Teruyoshi Nakano, altro nome celebre del cinema fantastico giapponese, la cui bravura si può osservare nelle scene di distruzione ai danni di curatissime miniature.
 
Si attua in questo modo un curioso cortocircuito di senso, dovuto alla derivazione coreana di un genere giapponese, peraltro già mutuato dai monster-movie americani (il primo Godzilla, infatti, nasce dopo il successo di King Kong e Il risveglio del dinosauro).
 
Shin è bravo a risolvere questa apparente contraddizione cercando proprio un tono difforme che renda Pulgasari un lavoro composito, spesso in bilico fra ironia e dramma. Il mostro nasce dunque come una buffa creatura, volta ad attirare l’attenzione e la simpatia dello spettatore, che ne può in questo modo accettare con maggiore naturalezza la caratura di “eroe” al servizio della causa di liberazione. L’aspetto estremamente rotondeggiante del cucciolo cede perciò il passo a un colosso dotato di corna e aspetto massiccio, sorta di ibridazione fra Godzilla e il Daimajin (non a caso altra figura che accorre in aiuto del popolo oppresso), che non ha caratterizzazione che non sia il semplice procedere imperterrito, sospinto dal desiderio di un popolo che pure affronta una serie di difficoltà nel nutrirlo. Si tratta pertanto di una creatura che, in ossequio alla matrice propagandista del progetto, esiste in quanto attuatrice di una dinamica che prescinda da una precisa caratterizzazione caratteriale, elemento seminale invece delle pellicole nipponiche.
 
Qui sta la geniale ambiguità cui si faceva accenno in precedenza perché, nei fatti, Pulgasari attua le stesse dinamiche del regime, costringendo gli operai a privarsi del ferro con cui lavorare la terra o cuocere il cibo e, addirittura, la sua vita discende direttamente dal sangue versato dalla giovane Ami, che nel finale attuerà anche un sacrificio rituale per fermare l’insaziabile appetito del mostro, diventato quindi a tutti gli effetti una minaccia dopo la caduta del regime. Shin sembra perciò suggerire che l’aberrazione non discenda di per sé dalla propria natura, quanto dalla prospettiva in cui la stessa è inquadrata, che porta a tracciare la linea di demarcazione fra protezione e distruzione. Allo stesso tempo, il regista sembra riflettere nelle dinamiche del suo film una precisa consapevolezza circa le storture prodotte da un’ideologia che si ritiene giusta, ma che diventa suo malgrado causa di ulteriori sventure: la rivoluzione come causa di violenza, quindi, in una spirale che trova solo nell’innocenza e nell’altruismo disinteressato una possibile via d’uscita.
 
Spettacolare nella resa visiva, grazie alle imponenti scene di massa, ma consapevole della goffaggine tipica dei mostri in “tuta di gomma”, Pulgasari resta perciò un esperimento al limite, la cui visione risulta preclusa ai più esclusivamente a causa della scarsa circolazione in Occidente (sono comunque reperibili varie versioni sottotitolate in inglese o italiano).
 
Nel 1996 Shin ha scritto una versione americana della storia, Galgameth, vista anche in Italia, dove si accentua l’aspetto fiabesco della storia e la caratura giocosa del mostro che crea empatia con il pubblico più giovane: un film che è diventato per questo un classico degli appuntamenti televisivi statunitensi.

Pulgasari
(id.)
Regia: Shin Sang-ok
Sceneggiatura: Kim Se Ryun
Origine: Corea del Nord/Giappone, 1985
Durata: 95’

giovedì 15 luglio 2010

Poliziotti fuori: Due sbirri a piede libero

Poliziotti fuori: Due sbirri a piede libero

Il detective Jimmy Monroe non se la passa bene: sospeso dal servizio insieme al collega e amico Paul Hodges per aver fatto scappare uno spacciatore, deve trovare i soldi per pagare il matrimonio dell’amatissima figlia Ava. Non si tratta soltanto di non deludere lei, ma anche di evitare che la festa sia pagata dall’odioso Roy, il nuovo marito della sua ex moglie! Così Jimmy decide di vendere la sua rarissima figurina di Andy Pafko del 1952 per racimolare il denaro necessario, ma questa gli viene sfortunatamente rubata. Il ritrovamento della preziosa figurina porta i due sbirri a intrecciare le loro strade con quella del pericoloso criminale Poh Boy e dello sfacciato rapinatore Dave. Inoltre, come se non bastasse, Paul è anche ossessionato dall’idea che sua moglie lo tradisca…

Rivelatosi all’inizio degli anni Novanta, Kevin Smith è ancora oggi una figura anomala nel panorama cinematografico, poiché capace di fare propria quella cifra indipendente che esula dal contesto economico/produttivo nel quale i suoi lavori germinano. Al punto che anche il suo tanto chiacchierato esordio nel cinema mainstream appare invece coerente con le istanze tematiche e stilistiche che hanno sempre contraddistinto le sue pellicole. Smith è infatti un autentico prodotto di una temperie di influenze difformi che nella cinefilia trova una valvola di sfogo non esaustiva della complessità della sua arte. In questo senso il parallelo che viene spesso mosso è con Quentin Tarantino, principalmente a base dell’autentica natura cinefaga di una concezione del film come ricettacolo di elementi della cultura popolare assimilati, reinventati ed esibiti con piglio metanarrativo: il film, insomma, esiste come riflesso delle citazioni che lo producono e che innesca per questo un meccanismo di riconoscibilità con il suo pubblico.
 
Nel caso di Smith questa dinamica è portata però alle estreme conseguenze e rifugge la matrice comunque classica di Tarantino che, pur nella sua forte cifra cinefila, guarda a un impianto strutturale più tradizionale (non scevro da influenze letterarie, si veda la divisione in “capitoli” delle sue opere più recenti): al contrario il regista di Clerks mette lo spettatore di fronte alla complessità di un intreccio che esiste unicamente in quanto riflesso di un linguaggio transmediale, che assimila e tritura cinema, fumetto, musica e cartoon. Diversamente da Tarantino, che è dunque capace di affrancarsi dai modelli dai quali pure attinge, e di essere goduto in maniera anche assolutamente “superficiale”, non si può assistere a un film di Kevin Smith senza conoscere e condividere quel sistema di riferimenti di volta in volta messo in piedi.
 
Ecco dunque che Poliziotti fuori, prima ancora di essere una divertente commedia basata sul classico meccanismo del buddy-buddy movie, è soprattutto una riflessione intelligente sui mutamenti interni al genere del poliziesco, secondo quella direttiva che, partendo da 48 ore di Walter Hill, passando poi per i vari Arma letale di Richard Donner e il Beverly Hills Cop con/di Eddie Murphy, ha portato il genere ad assimilare le dinamiche narrative della commedia e anche della soap opera (e, in misura più ampia, del racconto seriale).
 
Si tratta dunque di riconsiderare, recuperare e ricontestualizzare quel tipo di storie che unisce al gusto della detection una attenzione non comune alle dinamiche interpersonali, secondo una formula capace di rendere i legami vicini al modello familiare, quasi come sorta di ironico contrappasso al machismo di un genere che, prima degli Ottanta, aveva puntato tutto su una iconografia stolida e basata su una divisione estremamente netta dei personaggi (il duro, la bella, il gangster).
 
Per questo i protagonisti di Poliziotti fuori sono innanzitutto dei corpi filmici, in grado di riverberare un passato che è cinematografico e che è addentro al genere: l’esempio diventa scoperto considerando la figura iconica del grande Bruce Willis (eroe dei vari Die-Hard), meno nella figura di Tracy Morgan, attore del Saturday Night Live, che riverbera l’importanza della matrice cabarettistica degli ormai proverbiali battibecchi della “strana coppia” di turno. Un eroe e un comico dunque, come anche un bianco e un nero, lungo una storia che porterà i due a divertire il pubblico con progressivi sovvertimenti dei ruoli predefiniti: il bambino-ladro, Dave il ladro/parkour che attira le simpatie del pubblico (lo Sean William Scott di American Pie), fino al criminale di turno che appare come il vero padrone della città, e conduce i suoi affari in una chiesa cattolica, ben lontana dall’iconografia black denunciata dal suo aspetto fisico.
 
Il gioco è dunque più mimetico del solito, e investe la narrazione su un piano secondario, dove ogni personaggio esiste in quanto sintesi e sovrapposizione di elementi tra loro differenti: non a caso accade spesso che i ruoli vengano a identificarsi e in questo senso la figura più “teorica” è proprio quella di Dave, che riesce a “impadronirsi” dei dialoghi dell’interlocutore con la stessa naturalezza con cui scivola fra gli elementi architettonici della case in cui ruba - la spassosissima scena in cui lo vediamo entrare in una casa per fare i suoi bisogni sembra quasi una irriverente risposta al Ferro 3 di Kim Ki-duk!
 
Pur nella sua progressione scanzonata, insomma, Poliziotti fuori denuncia quindi la problematicità di un sottogenere riflesso di una realtà complessa, dove d’altra parte matrice di tutto è la salvaguardia dell’affettività padre-figlia e marito-moglie: come dire che in fondo, anche se parliamo di cinema, l’obiettivo comunque è sempre la vita.

Poliziotti fuori – Due sbirri a piede libero
(Cop Out)
Regia: Kevin Smith
Sceneggiatura: Robb & Mark Cullen
Origine: Usa, 2010
Durata: 105’

lunedì 12 luglio 2010

Diary of the Dead: Le cronache dei morti viventi

Diary of the Dead: Le cronache dei morti viventi

I morti sono tornati in vita attaccando i vivi e il mondo precipita repentinamente nel caos: Jason Creed, studente di cinema intento a realizzare un film horror come saggio di fine corso, decide quindi di documentare con la sua telecamera il viaggio che compirà insieme al suo gruppo di amici per tornare a casa. L’esperienza è caratterizzata da tensioni all’interno del gruppo, ma soprattutto dal costante pericolo insito in un paese lacerato da conflitti e dal costante pericolo degli attacchi, da parte dei vivi e dei morti. Quello che noi vediamo è un documentario montato da Debra, fidanzata di Jason, come monito per un’umanità smarrita.

Presente sin dal primo capitolo della Dead Saga, il ruolo dei mass-media nell’immaginario globale diventa centrale nel quinto film, pensato per una distribuzione straight-to-video e che poi ha comunque goduto di una limitata uscita in sala (in Italia è arrivato, con forte ritardo, in un solo cinema di Roma): non si tratta comunque di riprodurre lo stile verité del Real Cinema, dove già altri titoli hanno fatto meglio (basti pensare allo sconvolgente [REC]), quanto di dare forma a un discorso più vicino a quello del Redacted di Brian De Palma, con la giustapposizione di fonti differenti che restituiscano sia il (non)senso del Caos di un mondo dominato da un esubero di informazioni più o meno veritiere, sia l’idea della documentazione di un evento nel suo farsi. Per questo motivo stavolta la saga rompe la consueta linearità narrativa, che aveva comunque situato i quattro film precedenti in una ideale (seppur fittizia) continuity, e torna all’origine del contagio, all’inizio dello sfaldamento del tessuto sociale conseguente la resurrezione dei morti.

E’ un ritorno che il film descrive attraverso una fedele ricognizione degli elementi topici della saga e dei suoi luoghi, in un percorso circolare che infine vedrà sovrapporsi i piani narrativi fino a rendere Diary of the Dead come una sorta di ideale prequel de La notte dei morti viventi, con i protagonisti asserragliati in una casa in mezzo al nulla, circondati dai non morti che tentano di entrare. Già questa decisione chiarisce dunque gli intenti di un progetto che sta nel presente ma guarda al passato, e si presenta come un montaggio di outtakes, dove la documentazione del reale è affidata a non professionisti, lungo un percorso che, a conti fatti, vedrà le categorizzazioni rovesciarsi.

Ecco dunque che l’assalto dei militari che derubano i protagonisti appare tanto un omaggio alla cifra antimilitarista de Il giorno degli zombi, quanto un’adesione di Romero a un punto di vista che rifiuta le figure costituite dell’autorità per tracciare inattese solidarietà fra studenti spiantati, professori alcolizzati e una gang di colore che ha preso il potere in una zona del paese. La ricerca della verità non ha senso se non è finalizzata a una nuova impostazione degli equilibri che ci dica della complessità di quel tessuto umano che si è andato sfaldando con l’insorgere dell’Apocalisse.

Per questo motivo diventa interessante constatare come la traccia portante della documentazione, che i dialoghi spingono volutamente in primo piano, in maniera spesso forzata e didascalica, sia invece minoritaria rispetto a un progetto più complesso che mina a ridefinire i rapporti di forza e a giocare con le aspettative dello spettatore. Ecco dunque che Jason, sebbene presenza oggettivizzante dell’orrore con la sua telecamera che documenta i fatti, è, nella sostanza, un non-personaggio che non riesce mai a essere fondamentale e utile ai compagni, rinchiuso com’è nell’illusione di poter determinare la realtà ed essere utile soltanto dietro l’obiettivo. La sua presenza in perenne fuoricampo (poiché dietro la camera) non lo fa coincidere con la figura del narratore, concretizzata invece dalla fidanzata Debra (l’ottima Michelle Morgan), che più di ogni altro non condivide l’idea del video-diario, ma pure alla fine si convincerà dell’idea di portarlo a termine.

Romero porta avanti questo progressivo slittamento/scollamento dei ruoli predefiniti attraverso una lenta sovrapposizione del piano del reale con quello della fiction, che di fatto renda evidente la natura fittizia dell’immagine. Non a caso Debra avvisa lo spettatore di aver introdotto della musica nel filmato di Jessie per renderlo “più spaventoso” e quindi più efficace, in un immaginario che non è capace di prendere coscienza dei fatti senza la mediazione dell’artificio cinematografico, unica forma di narrazione possibile per Romero nel caos delle immagini impazzite. Il film dunque procede nella progressiva presa di coscienza del proprio essere finzione, arrivando a sovrapporre il piano della documentazione con quello della creazione amatoriale, attraverso la scena migliore del film, in cui Jason si ritrova suo malgrado testimone del concretizzarsi della scena madre del progetto che aveva imbastito come saggio di fine corso: la bella inseguita dalla mummia non è soltanto la consacrazione della confusione dei piani narrativi, ma costituisce anche la sovrapposizione fra il film romeriano e la tradizione classica dell’orrore che comunque Diary of the Dead porta avanti e che sembra l’unica chiave di volta possibile per reimparare a leggere il reale: anche per questo il regista insiste sulla deambulazione lenta dei non morti, in opposizione a certo moderno e serioso cinema che ha smarrito il gusto della metafora e concepisce il morto vivente come mera icona pop, la cui fenomenologia è slegata dal contesto in cui la stessa si inserisce.

Se quindi, i morti viventi guidati da Big Daddy ne La terra dei morti viventi già marcavano la distanza fra una realtà di vivi ipnotizzati dalla rimozione del problema, Diary of the Dead (che nasce non a caso in continuità tematica al film precedente ma anche in contrapposizione allo stesso per libertà d’azione, ristrettezza delle risorse ed essenzialità narrativa) espande il discorso investendo direttamente l’atto della creazione cinematografica e il senso della narrazione di genere, ponendosi l’obiettivo ambizioso di recuperare un rapporto più onesto fra l’esigenza spettacolare del cinema e la sua capacità di usare la trasfigurazione fantastica per stare comunque nella sfera dell’umano. Perché alla fine la dicotomia della saga è sempre la stessa: loro/noi che diventa noi/noi. Cambia soltanto la prospettiva dalla quale inquadrare questo problematico rapporto, all'interno di una saga che non a caso continua a portare avanti l'idea di ricostruzione dello sguardo.

Diary of the Dead – Le cronache dei morti viventi
(Diary of the Dead)
Regia e sceneggiatura: George A. Romero
Origine: Usa, 2007
Durata: 95’


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sabato 10 luglio 2010

Toy Story 3: La grande fuga

Toy Story 3: La grande fuga

Andy è ormai cresciuto e si appresta a trasferirsi al college. Per Woody, Buzz e gli altri giocattoli è quindi arrivato il momento di fare i conti con il futuro, con la possibilità cioè che Andy li dia in beneficenza oppure li consegni al comodo silenzio della soffitta di casa. In effetti il volere del ragazzo sarebbe proprio questo, ma un equivoco fa sì che la madre porti l’intero carico all’asilo di Sunny Side. Inizialmente il posto sembra un piccolo paradiso, ma ben presto Buzz e compagni scopriranno i metodi spietati con cui l’orsacchiotto Lotso domina i giocattoli. Woody è l’unica speranza per salvare il gruppo!

 
Ricorre una inevitabile idea di circolarità nell’undicesimo capolavoro Pixar, che marca nel modo migliore i 15 anni di attività di questo strepitoso marchio: è un’idea insita tanto nel ritorno a quella mitologia pop su cui era iniziata l’avventura, quanto nell’approccio che tenta di ripercorrere i temi topici della saga pur portando la stessa verso nuove derive. D’altronde già l’incredibile cortometraggio che introduce alla proiezione è programmatico di come si lavora in casa Pixar: l’innovazione sperimentale delle invenzioni di Chuck Jones (fra le ispirazioni il leggendario corto Duck Amuck del 1953) e l’essenzialità propria dell’immortale Linea di Osvaldo Cavandoli si ritrovano mescolate in un lavoro capace di esaltare e dare senso alla tridimensionalità offerta dalla visione stereoscopica. La sovrapposizione/fusione dei due piani narrativi (primo piano e sfondo) crea infatti la sinergia utile a dare carattere alle due figure protagoniste, che “vivono” attraverso le scene ritratte negli spazi delimitati dai loro corpi, ma vengono a loro volta esaltate e “guidate” dagli stessi. Come dire, la possibilità di unire passato e presente in una forma perfettamente adeguata all’oggi e totalmente autosufficiente rispetto ai modelli che pure evoca: Quando il giorno incontra la notte, per l’appunto (rigorosamente da appuntare il nome del regista: Teddy Newton).
 
D’altronde anche i giocattoli di Toy Story vivono su questo doppio registro di creature “senzienti” che però trovano la loro ragione d’essere soprattutto nella sinergia con un umano che crei per loro avventure spericolate, immaginando ruoli e commistioni di generi sui quali l’intero film si fonda. E questo vale tanto per l’avventura principale (quella che vede Woody e compagni intenti a salvarsi dalle grinfie dell’orso Lotso) quanto per la divertentissima parentesi introduttiva in cui ciascuno di essi recita il proprio ruolo all’interno di quello che si rivela null’altro che la trasfigurazione dell’universo fantastico di Andy.
 
Ecco dunque che, nel settare questo scenario, Toy Story 3 si preoccupa poi di superarlo. Non si tratta più soltanto di trovare il punto di equilibrio fra il passatismo del cowboy di pezza e la modernità incarnata dal bambolotto meccanico dell’astronauta, quanto di lottare contro un tempo che ridefinisce i ruoli e costringe a un abbandono che è evoluzione. La separazione da Andy, l’idea di essere rimpiazzati o abbandonati (già presente nei primi due capitoli) è qui rielaborata come momento di riflessione attraverso il quale i nostri giocattoli devono ritrovare se stessi. Qui il film pone in essere una interessante dicotomia fra la regressione quasi uterina nell’alveo rassicurante della soffitta e una ricollocazione in uno spazio che presuppone nuovi padroni, diversi da quello “storico” che ha tracciato il suo nome su ogni giocattolo. Coerentemente Woody finisce ancora una volta per incarnare lo stoicismo di chi crede in un non-tempo dove il legame giocattolo/padrone non sarà mai interrotto e si scontra con una realtà decisamente più dura.
 
Il punto di vista di Woody, infatti, non è corretto poiché, pur rimarcando un progetto palingenetico che trova la sua ragione d’essere in un rapporto non episodico con i bambini (terribili) dell’asilo, non tiene conto dell’inevitabile necessità di doversi ricollocare in un nuovo luogo e in un nuovo tempo. L’avventura diventa quindi un percorso iniziatico che, seppur scritto sulla pelle di tutti i giocattoli, coinvolge in prima persona proprio Woody, non a caso “scentrato” rispetto al gruppo, “salvato” sia dalla soffitta che dall’asilo e subito accolto da una nuova padroncina. Woody è l’unico del gruppo a non accettare fin dall’inizio l’idea di doversi separare da Andy e perciò deve trovare ancora una volta il punto di equilibrio fra due esigenze opposte, esattamente come accadeva 15 anni prima nel Toy Story originale.
 
La maturità insita nel progetto riflette una ideale morte e rinascita di ogni giocattolo che deve passare per un’autentica distruzione/rifondazione di sé prima di poter ottenere l’agognata ricollocazione: qui il film gioca le sue carte più stupefacenti, attraverso toni cupissimi e derive quasi horror che lasciano capire come il progetto sia pensato non soltanto per quel pubblico di giovanissimi che ha imparato a conoscere i personaggi in questi anni, ma anche e soprattutto per chi è cresciuto insieme a loro e ora è più conscio delle amarezze della vita e della necessità di superarle preservando gli affetti. Si raggiunge così una incredibile ricchezza dell’insieme, che rende questo film un’autentica sorpresa ad ogni snodo narrativo!
 
Il percorso dei giocattoli diventa quindi un tentativo di reimparare a vedere il mondo sotto una prospettiva diversa, inquadrata anche mediate un umorismo “scorretto” (qualcuno non a caso ha chiamato in causa l’irriverente Joe Dante di Small Soldiers) che rovescia l’iconografia amena dell’asilo in una sorta di prigione e i più teneri orsetti e bambolotti in aguzzini spietati figli però di traumi radicati nel tempo.
Capolavoro assoluto e, insieme ad Avatar, il film dell’anno!

 
Toy Story 3 – La grande fuga
(Toy Story 3)
Regia: Lee Unkrich
Sceneggiatura: Michael Arndt (soggetto di John Lasseter, Andrew Stanton e Lee Unkrich)
Origine: Usa, 2010
Durata: 102’

Cortometraggio allegato:
Quando il giorno incontra la notte
(Night & Day)
Regia e sceneggiatura: Teddy Newton
Origine: Usa, 2010
Durata: 6’


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giovedì 8 luglio 2010

Lupin Bebop

Lupin Bebop

Da parecchi giorni lo spazio “Visioni dalla Rete” propone un interessante esempio di commistione tra universi apparentemente tra loro differenti: con un attento lavoro di montaggio, infatti, l’artefice del video (ignoro se sia lo stesso utente di YouTube che lo ha postato) ha “adattato” la sigla di apertura dell’anime Cowboy Bebop (1998) all’universo animato che fa capo al celeberrimo Lupin III, in particolare quello delle prime due serie animate (1971 e 1978) e di alcuni special tv più recenti.

Apparentemente si tratta di un fenomeno non nuovo nel campo dei montaggi realizzati da appassionati: anzi, è interessante notare come i video collegati nella pagina YouTube del video ne propongano uno simile dove stavolta la sigla di Cowboy Bebop è “adattata” a un altro e più recente anime-fenomeno come Neon Genesis Evangelion (potete raggiungere quest’altro video direttamente dai link in calce).

E’ dunque probabile che il lavoro soggiaccia a una logica inerziale di mera sovrapposizione di universi, ma resta il dato di fatto di un “gioco” intelligente nella misura in cui esplicita un legame di derivazione che da sempre unisce Cowboy Bebop a Lupin III. Chi ha analizzato compiutamente la serie capolavoro di Shin’ichiro Watanabe sa che essa deve qualcosa alle avventure del ladro animato, sebbene apparentemente sia ben altro prodotto. Senza scendere nei dettagli di una serie che probabilmente si recupererà in futuro, è interessante anche in questo caso notare come la sovrapposizione dei due universi serva a esplicitare una coincidenza di logiche espressive fra le due serie, non percepibile immediatamente: è come, insomma, se il montaggio delle sequenze di Lupin III all’interno dello schema visivo della sigla di Cowboy Bebop serva soprattutto a indicare allo spettatore ciò che normalmente egli non sarebbe capace di cogliere con immediatezza, ovvero la vicinanza delle due serie.

Ma perché proprio la sigla? Nel caso di Cowboy Bebop l’opening rappresenta un momento estremamente importante, che si va a collocare all’interno del complesso schema che la serie stessa pone in essere: più che un racconto, infatti, la storia del cacciatore di taglie Spike Spiegel è un caleidoscopio di elementi variegati che, offrendosi allo spettatore, crea un sistema di riferimenti (interno ed esterno al racconto) molto complesso. La sigla serve dunque come chiave d’accesso a questo universo, attraverso la presentazione di quegli elementi iconici di base che marcheranno la cifra espressiva generale (riconducibile alle forme del noir) di volta in volta ossequiata o sovvertita dai vari episodi. Serve, insomma, a tarare il punto di partenza di un viaggio all’interno di un macrogenere che toccherà di volta in volta più stili e tipologie del racconto giocando con la commistione di generi e linguaggi e le aspettative dello spettatore, secondo una logica che anche in questo caso riesce a mascherare la sua sostanza attraverso la capacità di apparire altro. Ovvero un noir in chiave spaziale.

Ecco dunque che la sigla jazzata presenta gli elementi più marcatamente riconoscibili: l’eroe solitario, pronto all’azione, ma che non disdegna di poter assaporare il fumo di una sigaretta prima di intraprendere la sua corsa; misteriose figure femminili, di cui magari vediamo solo le gambe in tacchi a spillo; il feticismo nei confronti della pistola (fondamentale in un genere di per sé freudiano come il noir); e poi, come a rompere (e quindi a ricostruire) il sistema di complesse figure geometriche disegnato da quegli elementi, i mezzi fantascientifici, che definiscono il passaggio a un genere che è anche altro, e che ricomprende elementi di kung fu, armamenti pesanti e un occhio meccanico che, pur nella stilizzazione cromatica prediletta dai realizzatori, rimanda all’Hal9000 di 2001: Odissea nello spazio, testo base per la fantascienza moderna. Infine i comprimari, fisicamente così diversi dall’eroe e pertanto identificabili secondo una logica della spartizione dei ruoli da sempre congeniale all’avventura.

Si tratta, in sostanza, di un lavoro di scomposizione del racconto che viene ricondotto al suo precipitato iconico, e nel contempo di una sua opera di stilizzazione visiva che dà vita a forme geometriche ed eleganti, capaci di restituire un’atmosfera che travalichi la mera narrazione e risulti coerente con gli stati d’animo evocati dalle musiche (il brano, Tank, è composto dalla grandissima Yoko Kanno, autrice della colonna sonora della serie).

Lo stesso discorso risulta quindi applicato a Lupin e altrettanto funzionale: ma, e qui riposa il vero elemento vincente dell’operazione, la funzionalità non è data solo dall’adattabilità dello schema agli elementi iconici che contraddistinguono la saga di Lupin, quanto dall’operazione di mimesi che il video viene a instaurare con l’opening de Le nuove avventure di Lupin III, sigla della seconda serie del ladro. Andandola a rivedere ci si può infatti rendere conto di come già lì fosse presente un lavoro di presentazione/scomposizione degli elementi che dava vita a un sistema di figure geometriche in grado di rendere l’idea del portato teorico insito nell’operazione.

La saldatura che quindi si viene a creare è doppia: fra gli universi di Cowboy Bebop e Lupin III e fra le rispettive sigle, un connubio perfetto di due universi definiti, accomunati da elementi simili eppure perfettamente distinti. In fondo ricreare (come ha fatto Shin’ichiro Watanabe) vuol dire rifare, ma anche rielaborare al punto da ottenere qualcosa di diverso.

Cowboy Bebop - sigla
Brano: “Tank”, composto da Yoko Kanno ed eseguito da Seatbelts
Direzione dell’animazione: Masami Goto, Toshihiro Kawamoto
Animatori: Isamu Imakake, Kazuhiro Soeta, Masami Goto, Takahiro Komori

Le nuove avventure di Lupin III (Shin Rupan Sansei) – prima sigla
Brano: “Theme from Lupin III (Non-vocal)” di Yuji Ohno
Versione italiana: “Le nuove avventure di Lupin III” di orchestra Castellina-Pasi


Collegato:
Lupin III: Green vs Red