"C'è chi crede in dio o nel denaro. Io credo nel cinema, nel suo potere. L'ho scoperto da ragazzino, mi ha aiutato a fuggire da una realtà in cui ero infelice. È una delle forme d'arte più alte che l'uomo ha concepito. Credo nel suo futuro."
(John Carpenter)

martedì 28 settembre 2010

Halloween: dietro la maschera di Michael Myers

Halloween: dietro la maschera di Michael Myers

E’ in uscita il mio primo libro, un saggio sulla saga di Halloween scritto a quattro mani con Massimo Causo. E’ un progetto coltivato da tempo e che ha finito per trovare la migliore forma possibile, quando la saga ha avuto il suo rilancio e conta oggi ben dieci titoli.

L’intento è stato quello di realizzare un saggio critico che non dia giudizi, ma tenti soprattutto di analizzare i flussi di una serie molto popolare, analizzandone i temi e le sue mutazioni, lungo l’arco di tempo che va dal 1978 di Halloween – La notte delle streghe (di John Carpenter) al 2009 di Halloween II (di Rob Zombie). Ci saremo riusciti? Il responso sta naturalmente al lettore.

Intanto segnalo che il saggio, di 112 pagine con un inserito fotografico a colori, è pubblicato da Le Mani, ad ogni film è dedicato un capitolo e nella seconda parte sono presenti alcuni materiali sulla serie e curiosità.

Di seguito propongo l’indice.

INDICE

Halloween: Dentro e fuori gli schemi
Le babysitter e l’Uomo Nero
Halloween – La notte delle streghe
Halloween II – Il signore della morte
Halloween III – Il signore della notte
Halloween 4 – Il ritorno di Michael Myers
Halloween 5 – The Revenge of Michael Myers
Halloween 6 – La maledizione di Michael Myers
Halloween: 20 anni dopo
Halloween: La resurrezione
Halloween: The Beginning
Halloween II

MATERIALI
Genealogia di Halloween
“The Halloween Franchise” – Classifica degli incassi in America
“The Shape” – Tutti gli interpreti di Michael Myers
Filmografia
Bibliografia
Indice dei nomi e dei film

Massimo Causo e Davide Di Giorgio
Halloween. Dietro la maschera di Michael Myers
Le Mani Editore, Recco 2010, pp. 112, € 14,00

sabato 25 settembre 2010

Inception

Inception

Dom Cobb è un “estrattore”, specializzato nel rubare informazioni attingendo direttamente dal subconscio delle sue vittime. Per fare questo agisce nel mondo del sogno, creando ambienti fittizi in cui inserire la sua preda, in modo da costringerla a consegnare le sue verità. Nel mondo reale, però, le cose non gli vanno bene: Cobb è infatti ricercato per la morte della moglie e perciò non può far ritorno negli Stati Uniti, dove vivono i due figli. Ora però una missione commissionatagli da potente uomo d’affari giapponese Saito (che ha contatti nell’ufficio immigrazione) potrebbe aiutarlo a risolvere il problema. Si tratta di innestare un ricordo fittizio, convincendo il giovane Robert Fischer a smembrare la società ereditata dal padre appena morto. La missione è complicata, implica la creazione di tre universi del sogno concatenati. Inoltre Fischer è stato addestrato a resistere alle intrusioni nel subconscio. E i sensi di colpa di Cobb per la morte della moglie creano delle interferenze…

Spesso sono i particolari, i piccoli gesti, a contenere le principali rivelazioni, soprattutto quando il film di per sé è costruito in modo tale da indurre l’attenzione altrove. Robert Fischer vede Dom Cobb passargli accanto al ritiro bagagli dell’aeroporto e lo guarda, come a chiedersi dove e se i due si sono già incontrati. Pochi momenti prima Cobb rivive un sogno già attraversato nell’incipit del film e ricorda, anticipandole, le battute dell’interlocutore… Christopher Nolan ripete esattamente gli atteggiamenti del suo protagonista: invita a non mescolare realtà e memoria, ma poi viola (volutamente) la regola disseminando elementi che portino lo spettatore a provare quel senso di déja vu, quella sensazione di essere già stato in quei mondi.

Non si tratta di banale citazionismo, non di quello che perlomeno intendiamo tradizionalmente: i rimandi sono chiaramente rivolti ad altri film, da Shining a Blade Runner a Coma profondo, solo per citare tre esempi, ma non sono inseriti nel corpo del racconto per diventare un codice che innesti semplicemente la riconoscibilità cinefila allo scopo di farsi narrazione, come accade ad esempio nel cinema di Quentin Tarantino. Sono schegge di immaginario che penetrano il tessuto compatto della storia per stimolare tensioni verso un altrove, che sia memoria condivisa, allo stesso modo in cui è condiviso il sogno dei protagonisti.

Pure la scelta del cast non è affatto casuale, ma tiene conto di questa dinamica del rimando. Leonardo Di Caprio viene direttamente da Shutter Island, dove era ugualmente coinvolto in un’indagine fra sogno e realtà alternative; Marion Cotillard è la Edith Piaf di La vie en Rose, chiamata in causa dall’uso della canzone Je ne regrette rien… Il corpo degli attori è un segno di memoria che si innesta nel corpo del film/sogno creando ulteriori derive, secondo una logica concentrica che si allarga, pur restando perfettamente circoscritta all’interno del complesso meccanismo narrativo messo in piedi, esattamente come accade ai protagonisti che stazionano in più mondi contemporaneamente.

Di più, Inception riesce a trarre forza proprio dal suo essere tassello fondamentale nel percorso cinematografico degli attori: il film è tanto del regista quanto dei suoi interpreti, cui non a caso è demandata fiducia per dare consistenza a figure che altrimenti diventerebbero semplici pedine dell’ingranaggio-storia e che riescono perciò a rendere credibile il dramma umano fra Cobb e la defunta moglie. Ecco dunque che Leonardo Di Caprio è tanto elemento del film, che evoca il ricordo nello spettatore (come spiegato in precedenza), quanto attore-autore che continua a definire un percorso di realtà e personalità alternative all’interno della storia del cinema, da Prova a prendermi, a Departed, al già citato Shutter Island, via via fino a Titanic, dove costituiva l’autentica possibilità alternativa per la protagonista Rose, che grazie a lui riusciva a cambiare identità e destino. Un aspetto di cui il film consapevolmente si giova.

In questo modo Inception riesce a riflettere nella condizione dello spettatore quella dei protagonisti, coinvolti in un gioco di rimandi fra realtà e memorie alternative: letteralmente a entrare in risonanza con chi guarda. Il film resta pertanto entità autonoma, che però fa appello a una tradizione cinematografica di cui si pone come epigono: il sogno condiviso e gli ambienti ribaltati della saga di Nightmare, i corpi legati e sospesi come nel già citato Coma profondo, ma soprattutto l’andirivieni fra realtà parallele che influiscono sul destino come in Matrix (richiamato visivamente dalle lotte in spazi dove le regole fisiche sono sovvertite). Ed è un rifarsi che, quindi, non diventa soltanto tematico, ma anche visivo, grazie a una struttura a rompicapo che è sì geometrica nella teorizzazione delle regole che sorreggono il racconto, ma è anche porosa quel tanto che basta da permetterci di “vedere” dietro ogni immagine un precedente.

Nolan riesce così a creare una sorta di punto di intersezione fra istanze cinematografiche e autoriali differenti, che si fanno elemento condiviso. Come a dire che il cinema in fondo altro non è che un enorme sogno nel quale siamo tutti chiamati in causa. Su questa base si costruisce poi la storia vera e propria, mescolando thriller, azione, sentimento e un pizzico di fantascienza. Tutti generi che apportano al risultato finale elementi di riconoscibilità e permettono alla struttura di essere condivisa, ma che allo stesso tempo danno al film una specificità propria, in quanto punto d’incontro di istanze difformi.

Il gioco è quello di creare un difficile punto di equilibrio (paradosso?) fra una verità e il suo opposto, per cui il mosaico diventa elemento unico, la realtà diventa sogno, la materialità del set (il film è girato con un apporto estremamente ridotto di computer grafica) serve a mettere in scena un universo fantastico, gli spazi sono delimitati ma devono apparire infiniti, la complessità esibita del plot si accompagna a un ossequio di dinamiche di genere molto immediate.

Inception
(id.)
Regia e sceneggiatura: Christopher Nolan
Origine: Usa, 2010
Durata: 142’

The Cobol Job: il prequel a fumetti

lunedì 20 settembre 2010

Sergio Di Stefano: Ne resterà soltanto uno!

Sergio Di Stefano: Ne resterà soltanto uno!

Ne resterà soltanto uno” è la frase-simbolo di Highlander – L’ultimo immortale, cult-movie di Russel Mulcahy datato 1986. A pronunciarla era un allora in auge Christopher Lambert, ma per gli spettatori italiani la voce è da sempre quella di Sergio Di Stefano, doppiatore dell’attore anche in altre pellicole (2013 – La fortezza, Nirvana i primi che mi vengono in mente). La scelta proprio di questo titolo nella sua sterminata filmografia da doppiatore non è casuale: come il personaggio di Connor MacLeod, anche Di Stefano ha sempre dato la sensazione di una presenza “immortale”, poiché trasversale alle epoche, uno di quegli elementi da sempre presenti nella memoria cinematografica, attivo già dalla fine degli anni Sessanta: uno dei suoi ruoli più “antichi” a questo proposito è ne La notte dei morti viventi di Romero, in cui doppiava il giovane Tom (l’attore Keith Wayne).

E poi da lì una carriera proseguita attraverso i decenni, passando per Jeff Bridges, John Malkovich, William Hurt, Alec Baldwin, in tutti i generi e i registri, fino a dare voce persino al malvagio Freddy Krueger negli ultimi capitoli della saga di Nightmare (il sesto e il settimo). Sergio Di Stefano c’era. Sempre. Una voce familiare al pubblico di ieri e a quello di oggi, magari attraverso il suo ultimo successo, il doppiaggio di Hugh Laurie nell’acclamata serie tv Dr. House. Non famosa come quella di Oreste Lionello, ma ugualmente conosciuta, in un panorama sempre più frastagliato, ma che negli ultimi anni ha visto sparire molti fra i suoi nomi migliori (Roberto Del Giudice, Glauco Onorato e altri).

E’ una strana sensazione quella che si prova quando a sparire non è un volto, ma una voce: si avverte quasi come una sorta di scorrettezza, un colpo basso perché ad andare via non è l’autorialità incarnata in un corpo che diventa naturalmente icona e quindi segno spesso tematico nei contorti percorsi del cinema, definito e completo nel suo percorso professionale: no, a sparire è un suono familiare che è tutt’uno con l’immagine ma, per le dinamiche proprie del doppiaggio, anche segnale autonomo, incompleto ma allo stesso tempo autosufficiente. Uno strumento su cui l’immagine si poggia, che sparisce letteralmente fra le pieghe del viso dell’attore, ma che con il tempo diventa riconoscibile in sé e quindi familiare, coccolato.

Nel caso di Sergio Di Stefano, poi, un altro elemento rende queste sensazioni ancora più intense, e la notizia ancora più sconvolgente: quella voce che negli anni non era cambiata granché, non accusava il peso delle 71 primavere dell’attore e non a caso spesso veniva anche abbinata a figure più giovani, anche di un paio di decadi. Un vero esempio di voce “immortale”, capace nella sua eleganza di ben figurare al di là della sua età biologica. Non sono molti i doppiatori che possono vantare queste credenziali: versatilità rispetto al ruolo e capacità di restare inalterate nel tempo.

Ne sanno qualcosa gli appassionati di animazione giapponese, per i quali Di Stefano era la voce irosa e graffiante del duro Hayato Jin di Getter Robot the Last Day, ma anche quella fredda e decisa di Capitan Harlock, leggendario pirata spaziale creato da Leiji Matsumoto (in Harlock Saga). Ma su tutti va prediletto un ruolo in particolare, quello di Dario di Persia in Alexander, sintesi della sua arte a contatto con un’immagine disegnata: la splendida serie animata nippo-coreana ha infatti regalato all’attore un ruolo straordinariamente vibrante pur nella freddezza ostentata da questo sovrano che si oppone al regno di conquiste di Alessandro il Grande di Macedonia. Con poche intonazioni Di Stefano colora il personaggio di una profondità mitica indimenticabile. E mi piace pensare che l’idea di essere ricordato per una figura così “minore” nella sua sterminata carriera sia il modo più lieve e affettuoso di salutarlo.

Non sono molte le immagini che circolano di una voce così familiare, le poche lo ritraggono come una persona dall’aspetto elegante e gentile, in linea con la professionalità che lo ha sempre contraddistinto. D’altronde anche la sua scomparsa avviene in silenzio, si dice per un malore improvviso durante una telefonata, in un momento dunque intimo e lontano da microfoni e leggii. Un’autentica voce nell’ombra, grande come le sue interpretazioni ma discreta: a prescindere da cosa si pensi della pratica del doppiaggio mancherà a tutti, non potrà essere altrimenti.



venerdì 17 settembre 2010

Le implacabili lame di Rondine d’Oro

Le implacabili lame di Rondine d’Oro

Il maestro Chang, figlio del governatore, viene rapito da alcuni banditi che chiedono la liberazione del loro capo, rinchiuso in prigione in attesa che gli venga comminata la pena di morte. La giovane Rondine d’Oro, sorella di Chang, attraversa la regione travestita da uomo per incontrare i banditi, guidati dal feroce Tigre Faccia di Giada: a loro propone di consegnarsi in cambio di una pena più clemente. Inaspettatamente a fare da ago della bilancia fra i due fronti contrapposti è un ubriacone, Fan Ta Pei, da tutti noto come Gatto Brillo, che conosce bene le arti marziali ed è collegato ai fatti da un particolare: il tempio dove si sono rifugiati i banditi appartiene al monaco Liao Kung, l’uomo con il quale Fan Ta Pei aveva studiato e che poi aveva ucciso il loro maestro. Ora Liao vuole recuperare lo scettro della scuola che Fan Ta Pei aveva portato via e messo al sicuro e per questo lo sta cercando.

L’autentico momento di rifondazione del wuxiapian si ha nel 1966, quando King Hu dirige, sotto l’egida dei fratelli Shaw, questo film, spesso indicato con il titolo internazionale Come Drink With Me. Girato a colori e in formato panoramico (due elementi che diventeranno un marchio di fabbrica dello studio), Le implacabili lame di Rondine d’Oro rilancia il genere codificando alcuni suoi elementi topici e tracciando una via che l’uscita del successivo Mantieni l’odio per la tua vendetta di Chang Che contribuirà ulteriormente a definire. Certo, quello fra King e Chang è un autentico dualismo sul quale il genere si innesterà, poiché tanto il secondo è sanguigno e concentrato sul lirismo melodrammatico di vicende che ruotano intorno all’onore e a un immaginario coniugato rigorosamente al maschile, tanto il primo vede nel wuxia un perenne territorio di sperimentazione visiva e tematica, fatto che rende già questo film affine eppure diverso alla ricca produzione del filone. Non a caso, all’indomani del successo conseguito, King Hu abbandonerà gli Shaw Brothers per intraprendere un percorso personale all’interno del genere, giungendo via via a quell’astrazione che si può ammirare nel suo conclamato capolavoro A Touch of Zen (che in Italia è purtroppo passato soltanto in tv su Rai3 grazie a Fuori Orario).

Ecco dunque che gli elementi di continuità con la corrente “istituzionale” incarnata dalla prolifica produzione di Chang Che si possono rintracciare soprattutto nella cognizione di identità che vede il film mettere in scena un regolamento di conti per interposta persona: tutti i contendenti, sia Rondine d’Oro che Tigre Faccia di Giada che Fan Ta Pei combattono infatti per rimediare a una ingiustizia che ha colpito i loro parenti o maestri, in ossequio a una logica dell’onore di parte che costringe gli allievi a proseguire le missioni dei loro predecessori. In questo si ravvisa anche l’elemento più vicino a quel cinema di samurai giapponese che le fonti citano come un modello vicino e fondamentale nel ridefinire il wuxiapian e che nello stesso periodo otteneva molto successo (pensiamo a certe opere di Kato Tai). Diversamente da quanto accadrà in seguito (ad esempio già nel citato Mantieni l’odio per la tua vendetta), però, King non lascia esplodere il materiale incandescente che ha per le mani e rifiuta di inseguire il dramma, per fare anzi delle forze contrapposte in campo un archetipo che lo aiuti a portare avanti il gioco di confusione come metafora dello scardinamento di regole cui il suo film è orientato.

Pertanto ecco che i personaggi stessi mascherano la propria vera natura, immergendo l’intera storia in un balletto di inganni evidente nel dualismo uomo/donna di Rondine d’Oro e ubriacone/guerriero di Fan Ta Pei. Quest’ultimo, in particolare, veicola le azioni della donna attraverso gesti apparentemente futili, compie irruzioni improvvise in camera da letto che si rivelano tentativi sagaci di salvarla dagli agguati dei banditi e attraverso il suo canto le fornisce indizi sul nascondiglio dei nemici. La ragazza, invece, innesca con lo spettatore il gioco di fascinazione/inquietudine tipico di un personaggio dalla confusa identità sessuale, che traccia coordinate inedite nel genere: il fatto stesso che la storia la veda oscillare dal ruolo di protagonista (nella prima parte) a quello di comprimario (nella seconda) sembra quasi suggerire la consapevolezza di King, che in un unico film già riassume quella che sarà la parabola del genere. Già nel sequel Golden Swallow girato due anni dopo, infatti, Rondine d’Oro perderà lo status di figura principale (e non a caso troveremo Chang Cheh alla regia).

Tutte le forze in campo diventano così segni che King utilizza per mettere in scena uno schema visivo ancora basato sul confronto fisico (si vedano i copiosi schizzi di sangue durante le battaglie) ma che già tende all’astratto, attraverso un montaggio che spesso sembra più celare i colpi che mostrarli, mentre le coreografie tendono naturalmente al ballo più che alla lotta. Non a caso la protagonista Cheng Pei Pei (più di recente vista ne La tigre e il Dragone di Ang Lee) aveva un passato da ballerina e mette a frutto questa esperienza attraverso movimenti aggraziati anche laddove lo scontro dovrebbe rivelarsi più irruento: impagabile a questo proposito il suo rotear di spade per allontanare da sé i nemici disposti in cerchio, una figura che diventa simbolo del film e del genere tutto.

King in questo modo codifica uno dei concetti più significativi del wuxia, ovvero la sostanziale irrealtà degli elementi di messinscena, che appaiono come meri strumenti da agitare alla bisogna, e aprono la porta a un afflato a dir poco fantastico, con oggetti pesanti sollevati senza fatica, corpi che volano sui tetti e mani che sprigionano raggi energetici. Su tutto emerge l’estrema precisione dell’autore nella messinscena, che utilizza il formato Shawscope in senso assolutamente attivo: il margine dell’inquadratura è infatti un autentico personaggio che guida le figure in campo e le distribuisce secondo una logica che è al contempo “geometrica” e pittorica. Ogni ripresa è un autentico quadro in movimento, dove la fisicità è data dalle elegantissime carrellate della macchina da presa e dal ritmo impresso dal montaggio. La trama diventa quindi un pretesto (e in effetti risulta alquanto convenzionale e scevra da particolari ambizioni), ma questo è Cinema al livello più alto.

Le implacabili lame di Rondine d’Oro
(Da Zui Xia/Come Drink With Me)
Regia: King Hu
Sceneggiatura: Yi Cheung, King Hu
Origine: Hong Kong, 1966
Durata: 90’


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mercoledì 15 settembre 2010

The Ward: parla John Carpenter!

The Ward: parla John Carpenter!


A Venezia ci hanno negato la possibilità di vederlo non inserendolo in programma nonostante le incoraggianti premesse (promesse?). Al contrario i fans canadesi hanno occasione di vederlo in questi giorni grazie al festival di Toronto: mi riferisco naturalmente a The Ward, l’attesissimo ritorno del Maestro John Carpenter sul quale già si stanno scatenando le prime critiche post-visione, secondo uno stanco rituale recente orientato al massacro cinefilo (in particolare se il regista è un nome di peso).

Qui si aspetta con ansia di vederlo e nel frattempo ci si tira fuori dalle polemiche per concentrarsi su ciò che invece il Maestro ha da dire, con la sua consueta ironia mascherata da cinismo: segnalo dunque due interessanti interviste (in inglese) da Collider e Twichfilm sul nuovo lavoro, sulla carriera, sul lavoro con attori giovani, sulle ultime tendenze cinematografiche e… sul campionato di basket, sua vera grande passione! Con la speranza che qualcuno si decida a rompere il silenzio e a proiettare The Ward anche in Italia (i diritti pare siano stati già acquistati, ma di date ancora non si parla), rigorosamente in sala (non come avvenuto purtroppo con l’ultimo Romero…).


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martedì 14 settembre 2010

Venezia 2010: i volti del cinema (2/2)

Venezia 2010: i volti del cinema (2/2)

Superato dunque lo scoglio delle premiazioni e dei commenti, mi piace dare ancora spazio alla Mostra di Venezia 2010 con una serie di volti-simbolo, che a mio parere hanno sintetizzato bene lo spirito composito di un programma interessante e che restano come memorie visive dell’edizione.

Inizio naturalmente con il gesto “irriverente” di Isabella Ragonese, che collego e contrappongo idealmente a quello, ormai noto e ben più esplicito, usato da Quentin Tarantino nella conferenza stampa finale. La madrina della Mostra è stato il volto-simbolo della Mostra, una scelta altamente condivisibile per come riesce a veicolare una immagine lieve e sbarazzina del cinema italiano, da contrapporre idealmente alla “pesantezza” scenica e recitativa di troppe interpreti nostrane.


Ma è il cinema visto in sala quello che deve soprattutto figurare: ecco dunque Natalie Portman, strepitosa interprete del film inaugurale, Black Swan, nuova folgorazione firmata Darren Aronofsky. Un volto capace di reggere interamente l’architrave di un intero film costruito sul tema del doppio e che per questo riesce a essere allo stesso tempo dolcissimo e oscuro.


A lei si affianca il granitico Danny Trejo di Machete, sintesi di cinema alto (ha esordito con Konchalovskij  e Michael Mann) e basso (per la sua immota aria di perenne villain collaterale, destinato a rapidi fuori scena), star di un autentico film meticcio in bilico fra generi, tendenze e differenti mercati (e anche in questo caso non stupiscono i bassi incassi in patria).


Si prosegue con Tsuyoshi Ihara, il volto più simbolico dei 13 Assassins di Takashi Miike, fra i capolavori del festival. Un viso gelido, fermo, ma la cui nervosità scorre sottotraccia, vibrante come la violenza dei colpi sferrati dal personaggio con la katana: pura esaltazione della virulenza cinematografica del jidai geki nipponico!

Torniamo invece ad atmosfere più poetiche con Elle Fanning, la sorellina della più celebre Dakota, che costituisce il punto di fuga di Somewhere: a lei, più che al pur ottimo e “stropicciato” Stephen Dorff è bene affidare il ricordo del film, qui sintetizzato dalla poetica scena in piscina, la migliore.


Attimo di esaltazione invece davanti a un colossale Fabrice Luchini, che sebbene costituisca uno dei personaggi di contorno di Potiche, l’ultimo lavoro di Francois Ozon, è senz’altro quello che resta più impresso per la sua figura di padrone/marito tiranno e nevrotico, che infiamma l’inquadratura ad ogni apparizione. Un concentrato di umanità in bilico fra enormi difetti e invisibili pregi: semplicemente irresistibile!


E’ invece un non-volto quello di Vincent Gallo, autentico spirito fuggente del festival, in continuo rimbalzo fra pellicole dirette o interpretate e inafferrabile ospite che si è nascosto per tutta la durata della manifestazione (si mormora andasse in giro per il Lido coperto da un passamontagna…) e che ha disertato anche la cerimonia finale: emblema di un cinema che vuole sfidare lo spettatore come alcuni sostengono o di una tendenza a costruire il proprio personaggio al di là (e al di qua) dello schermo? Certo interessante pensare a un confronto a distanza con il suo talebano in fuga in Essential Killing di Jerzy Skolimowski.


Dall’Italia invece merita di essere nuovamente elevato ai fasti che gli competono il grandissimo Kim Rossi Stuart di Vallanzasca, autentico corpo che si fa cinema e si appropria totalmente di un progetto che l’autore Michele Placido dirige con polso energico, ma senza la necessaria lucidità, lasciando dietro di sé più ombre che luci. Se nel festival è esistita un’interpretazione capace da sola di fare letteralmente il film è questa.


Che dire invece di Abhishek Bachchan, il bandito gentiluomo di Raavan/Raavanan (due titoli per due differenti edizioni, in hindi e in tamil), che rapisce l’iconica Aishwarya Ray? L’agire scomposto e surreale di questo capobanda esaltato rappresenta la sintesi più perfetta di un autentico e folgorante kolossal in bilico fra azione, musical, avventura e sentimento, pieno di colori, coreografie e invenzioni. Un esempio fra i più precisi di quanto bel cinema venga costantemente negato agli spettatori occidentali.


Torniamo invece ancora a Takashi Miike perché è impossibile non citare l’eroico Zebraman, protagonista di un dittico realizzato fra il 2004 e il presente, omaggio alla fantascienza televisiva nipponica, ma anche emblema di quel legame sempre più soffocante fra cultura pop e realtà, che, con l’arma dell’ironia, il regista giapponese sembra ossequiare per mettere soprattutto alla berlina. Naturalmente il volto è quello dell’interprete, il favoloso Show Aikawa, attore feticcio del regista.


Quindi la splendida Shannyn Sossamon, volto e luce simbolica dell’ultimo Monte Hellman, musa e causa di disperazione per il protagonista. Probabilmente l’unico segno di realtà in un film completamente basato sull’inganno della visione, che conferma la predilezione dell’attrice per ruoli e titoli poco convenzionali (la si ricorda infatti ne Il destino di un cavaliere e Le regole dell’attrazione).


Altro volto femminile capace di sprigionare fascino, dolcezza e una certa inquietudine è quello di Kalki Koechlin, protagonista di un’altra folgorazione come That Girl in Yellow Boots, dolente storia di una giovane inglese alla ricerca del padre in una Mumbay ritratta con piglio espressionista!


Infine le maschere, quelle dei clown di Balata triste de trompeta di Alex De La Iglesia (plauso alla giuria che lo ha premiato, anche in questo caso consacrando un talento off che merita visibilità), sorta di dolente trasfigurazione di certi villain da fumetto (il Pinguino e il Joker sono i riferimenti più immediati) in una cornice sinfonica che mescola Storia e diverse suggestioni, da Fellini a Tod Browing, con il collante della cifra grottesca e pulp che va da sempre risconosciuta al regista spagnolo. Li attendiamo nei cinema italiani.


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lunedì 13 settembre 2010

Venezia 2010: l’analisi dopo le polemiche (1/2)

Venezia 2010: l’analisi dopo le polemiche (1/2)

Si sono dunque spenti i riflettori sull’edizione 2010 della Mostra del Cinema di Venezia, che ha confermato il trend positivo della gestione Muller nonostante (come già ipotizzavo nell’articolo di presentazione) non sia stata la manifestazione memorabile che si andava millantando prima che aprissero i battenti. Magari un giorno qualcuno sarà in grado di spiegare perché nell’era di internet i giudizi arrivano prima dei risultati, un po’ come quando, alcuni mesi fa, si stroncava Avatar senza che fosse ancora uscito in sala… in questo caso si era deciso che avremmo visto solo capolavori. Magari a volte le dita corrono sulle tastiere con troppa fretta, lasciando indietro la capacità di valutazione e soprattutto la voglia di analizzare un progetto nella sua completezza e nelle sue articolazioni.

Dunque, sì, la Mostra non ha sostanzialmente prodotto memorabili scoperte (ma le folgorazioni ci sono state eccome!) ed è sembrata più che altro utile a confermare e consacrare nomi che circolano negli interessi dei cinefili già da tempo, a iniziare dal grande veterano Monte Hellman che porta a casa un Leone alla carriera decisamente meritato, a prescindere da cosa si pensi dell’ultimo, affascinante ma controverso, Road to Nowhere. Anche il Leone d’Oro a John Woo, in fondo, va in questa direzione (il video della premiazione è nello spazio Visioni dalla Rete di questa settimana) ed è sicuramente valsa la visione del capolavoro The Killer su grande schermo (un’emozione impagabile!) oltre al ritorno in ottima forma della grandissima e sempre splendida Michelle Yeoh, protagonista di Reign of assassins, supervisionato dal regista.

Al di là di questo, in ogni caso, emerge ancora una solidità progettuale che ha permesso di uscire soddisfatti da quasi tutte le proiezioni, a volte esaltandosi, altre semplicemente divertendosi, altre ancora riflettendo sulla capacità che i film continuano ad avere nel radiografare la realtà, mentre su tutto dominava la constatazione della bravura dimostrata dai selezionatori nel tenere tutto insieme, senza perdere di vista le nuove tendenze: buon esempio è il premio per il cinema 3D, indice di una scommessa che va anche controcorrente rispetto alle polemiche (in larga parte meritate, come si è già scritto pure sul Nido in passato) sull’uso di questo “nuovo” artificio cinematografico. Peccato per la cattiva qualità della proiezione stereoscopica, che ha depresso le capacità visionarie di un progetto molto affascinante come Shock Labyrinth Extreme, ultimo film di Takashi Shimizu. D’altronde, e questo è un aspetto poco considerato, a un’ottima fattura del programma non ha corrisposto una forza altrettanto propulsiva dei mezzi, con incastri del programma spesso in odore di sadismo, oltre alla carenza di spazi, esaltati dall’enorme e minaccioso cantiere antistante il palazzo del cinema.

Meglio tornare alle pellicole dunque, per constatare come le Giornate degli Autori e la Settimana della Critica si confermino sempre interessanti laboratori di ricerca: a tal proposito conforta notare come anche queste sezioni siano risultate organiche a una visione composita che partendo dal Concorso si è allargata a tutto il programma. Persino la retrospettiva sul cinema comico, sfrondata dagli inutili omaggi ai titoli-tormentone delle feste di Natale o del pomeriggio televisivo, ha offerto alcune preziose riscoperte, come il dimenticato Casotto del grande Sergio Citti, o Il mantenuto del Tognazzi attore-regista: il che fa giustamente pensare quanto più interessante sarebbe stato questo spazio se avesse concentrato i suoi sforzi più sulla ricerca-riscoperta (in continuità con gli anni passati) piuttosto che sulla stracca rivalutazione del “basso” in odore di snobismo cinefilo.

Chi resta invece un passo (e anche più) indietro è il cinema italiano attuale, sulla cui mancata premiazione naturalmente non sono mancate altre inutili polemiche che anche in questo caso sono figlie del giudizio provinciale e preventivo di chi aveva deciso già in partenza che con quattro film in concorso qualcosa si dovesse “portare a casa” (espressione, per inciso, orrenda e perfettamente in linea con il provincialismo di cui sopra). Altrimenti, se qualcuno avesse avuto il coraggio di affrontare la questione con onestà si sarebbe potuto e dovuto rendere conto che fino a quando le cartucce da sparare saranno pellicole totalmente sbagliate e irritanti come La solitudine dei numeri primi di Saverio Costanzo ci sarà ben poco da reclamare.

Continuando a restare sulla scia delle discussioni relative ai premi (argomento che, come ripeto spesso, qui non è amato, ma tant’é…) pure la scelta di attribuire il Leone d’Oro a Sofia Coppola appare coerente con tutto l’insieme perché da un lato è realmente una scelta di conservazione, poiché conferisce la massima onorificenza festivaliera al film più debole della regista americana, nel quale si avverte una battuta d’arresto rispetto alla progressiva ricerca stilistica che aveva reso molto interessante il percorso dal Giardino delle vergini suicide fino a Marie Antoinette, passando per il più noto Lost in Translation. Non che sia un film scadente Somewhere, anzi, è un’opera intrigante e poetica, gratificata da un ottimo cast, ma non priva di alcuni didascalismi che a tratti fanno sorgere il sospetto di un inizio di maniera: vedremo se il tempo confermerà o smentirà questa impressione. D’altro canto, però, è anche giusto che un festival di cinema di tale importanza non si fossilizzi a ogni costo sull’ansia della scoperta, ma a volte sappia fare un passo indietro per offrire consacrazione a un nome altrimenti destinato a restare nel sottobosco della cinefilia pura e dura. In questo senso l’accoglienza a dir poco festante che ha accolto la Coppola in conferenza stampa ci dice di quanto la regista nella sostanza fosse già un nome di spicco, cui mancava soltanto l’investitura di un premio importante. E pazienza se questo fa sorgere accuse di clientelismo da parte del presidente di giuria Quentin Tarantino, ex fidanzato della regista: era successa la stessa cosa a Cannes nel 2004 con il premio all’amico Michael Moore. Purtroppo la radicalità del cinema non sempre corrisponde a quella del cineasta, e di esempi se ne potrebbero fare tanti (sorvolando sul fatto che, comunque, anche in questo caso le accuse erano iniziate a serpeggiare già dall’inizio della Mostra…)

Nelle settimane che seguono ci sarà naturalmente tempo per soffermarsi sui titoli più importanti sfilati sul Lido veneziano, fra quelli destinati naturalmente ad approdare anche nelle nostre sale e quelli che invece (e purtroppo) resteranno lettera morta e che solo il tam-tam della Rete riuscirà magari a strappare dall’oblio. L’importante come sempre è che sia buon cinema. Ma prima di questo un’altra tappa attende questo percorso.

(fine della prima parte)


Update del 14/11/10: segnalo gli interessanti editoriali di Sentieri Selvaggi e l'intervista a Marco Muller da Cineclandestino.it, che risultano utili a definire meglio il progetto della Mostra e i vari equilibri entro i quali gli organizzatori si muovono.