"C'è chi crede in dio o nel denaro. Io credo nel cinema, nel suo potere. L'ho scoperto da ragazzino, mi ha aiutato a fuggire da una realtà in cui ero infelice. È una delle forme d'arte più alte che l'uomo ha concepito. Credo nel suo futuro."
(John Carpenter)

giovedì 11 novembre 2010

Quando chiama uno sconosciuto

Quando chiama uno sconosciuto

Jill Johnson sta lavorando come babysitter presso la casa del Dr. Mandrakis, quando riceve una telefonata: una inquietante voce maschile la invita a controllare i bambini, che dovrebbero essere a riposare nella loro stanza da letto al piano di sopra. Spaventata dalle continue telefonate, Jill si rivolge alla polizia, che individua il molestatore nella stessa casa! L’uomo, Curt Duncan viene quindi rinchiuso in prigione per l’omicidio a sangue freddo dei due bambini, ma evade dopo sette anni. Sulle sue tracce si pone John Clifford, il poliziotto che lo aveva arrestato in passato e che ora è un investigatore privato. Duncan infine torna ad accanirsi contro Jill, ormai diventata madre di due bambini.

Esiste uno strano filone di pellicole tangenti più generi, che in decenni come i Settanta ha generato titoli curiosi, quasi sempre imperfetti e per questo affascinanti. Il caso di Quando chiama uno sconosciuto è poi amplificato dall’irreperibilità del titolo, da tempo scomparso dalle programmazioni tv e mai editato in DVD nel nostro paese, la cui eco persiste soprattutto in virtù del ricordo generato dal potentissimo prologo (poi ripreso e superato soltanto da quello di Scream). A un livello immediato è abbastanza evidente come più in là di quei venti minuti il film fatichi a procedere e come la narrazione sia sostanzialmente spezzata in tre tronconi: non a caso il titolo si riferisce soprattutto ai fatti del primo blocco, con la babysitter sola in casa e minacciata dalle telefonate.

Non va inoltre trascurato come questa parte (ambientata nella tipica villetta da borgo di periferia) sia quella che, più delle successive, sembra rifarsi a dinamiche consolidate del genere thriller/horror contemporaneo, sia per l’idea della babysitter minacciata dal maniaco (che ci rimanda a L’allucinante notte di una babysitter o, ancor più, ad Halloween, che era uscito solo un anno prima), sia per la dinamica della telefonata minacciosa che costituisce un topos dello slasher (basti pensare a Black Christmas, che di tutte queste pellicole è un po’ l’ispiratore, per poi andare indietro fino all’episodio Il telefono de I tre volti della paura e ai capolavori di Dario Argento).

Ma in realtà Quando chiama uno sconosciuto non è affatto uno slasher ed è anche possibile che il regista Fred Walton non conoscesse affatto i modelli: la fonte dichiarata è infatti una leggenda metropolitana che si rifà alle classiche dinamiche da storie dell’uncino e non a caso il film è stilisticamente molto diverso dalle pellicole con assassini all’arma bianca: violenza pressoché assente, costruzione della tensione che si estrinseca attraverso un lavoro sui dettagli, sugli spazi e sugli oggetti e la decisione di offrire piena visibilità all’assassino subito dopo il prologo. Il meccanismo gioca pertanto con le aspettative dello spettatore e finisce per distanziarsi (e quindi per decostruire) molte dinamiche dell’horror coevo: una volta scoperto e smascherato, infatti, Curt Duncan smette di essere una figura inquietante la cui presenza permea gli spazi della casa vuota, e diventa invece una specie di homeless in una rigenerata ambientazione metropolitana. Un uomo solo, che viene malmenato dagli avventori di un bar ed è costretto a fuggire da un detective che lo vuole morto a ogni costo, al punto da guadagnarsi quasi la pietà dello spettatore. Tutto questo salvo poi ritrovare la sua caratura di villain chiudendo il percorso che lo voleva opposto alla babysitter Jill Johnson.

Quando cioè lo “straniero” del titolo originale (che in italiano diventa un più minaccioso “sconosciuto”) smette il ruolo dell’antagonista, si rivela per ciò che è, un immigrato inglese che appare continuamente fuori sincrono rispetto alla realtà circostante e quindi è come se il suo tornare ad accanirsi contro Jill nel terzo atto costituisca quasi un suo tentativo di ritrovare la propria ragione d’essere in quanto personaggio. E’ in questa oscillazione fra icona del terrore e disagio umano che il film gioca le sue carte più spiazzanti, che ridefiniscono i contorni del racconto di genere lasciando stazionare il film contemporaneamente al di dentro e al di fuori dei confini noti allo spettatore. Non a caso la parte centrale è anche quella in cui le contaminazioni appaiono più assurde: figuranti che sembrano usciti da un film blaxploitation, approcci amorosi negati che sembrano usciti da un dramma esistenziale… Walton sembra divertirsi a provarle tutte, e non è chiaro quanto sia frutto di un tentativo di spiazzare e quanto invece dell’incertezza su come procedere.

Un commento a parte lo merita invece l’interessante fotografia dai colori saturi di Donald Peterman che, stante la regia un po’ televisiva di Walton, riesce a oscillare fra una fisicità capace di rendere il tutto molto realistico e sprazzi di visionarietà che riecheggiano la follia del killer. Siamo, in definitiva, a metà strada fra quel filone dei serial killer che riescono ad elevare la propria natura a livello archetipico (come accade appunto con lo slasher) e quelli più elaborati che invece lavorano sulla figura dell’assassino come propaggine di uno sfasamento rispetto alla realtà che quindi si fa rifrazione di una situazione sociale allo sbando (pensiamo al bellissimo Lo strangolatore di Boston, di Richard Fleischer), dove non a caso l’ambientazione metropolitana ha spesso un ruolo fondamentale. In questo senso la pellicola si allinea in modo abbastanza preciso a quella tendenza cinematografica che nei Settanta descriveva la geografia metropolitana come giungla capace di riflettere gli stati d’animo, i timori e le incertezze del presente attraverso la descrizione degli oggetti e dei luoghi, prima ancora che delle psicologie dei personaggi.

Gli spazi descritti dal film sembrano quindi un labirinto che i personaggi attraversano però come se ne conoscessero i passaggi segreti, in un caos di traiettorie che imprigiona fatalmente tutti gli attori, sempre contemporaneamente dentro e fuori l’alveo che credono sicuro. E’ questa dinamica fra proprio e altrui, fra uno spazio conosciuto e uno ignoto che riesce a produrre una tensione viva e molto interessante, in un continuo gioco di aspettative negate e prospettive al rovescio: la minaccia è dentro casa quando si crede fuori, dentro la stanza quando sembra provenire da dietro la porta, fuori dal dormitorio quando sembra ormai caduta in trappola, fino a diventare sfuggente rispetto a se stessa, per i motivi già spiegati. Ne scaturisce una storia capace di risultare oscura e inquietante al di là del fatto narrato, per come fa appello a timori e dinamiche inconsce.

La pellicola ha avuto un sequel televisivo nel 1993 con lo stesso cast e regista (Lo sconosciuto alla porta) e un come al solito superfluo remake nel 2006 (Chiamata da uno sconosciuto).

Quando chiama uno sconosciuto
(When a Stranger Calls)
Regia: Fred Walton
Sceneggiatura: Steve Feke, Fred Walton
Origine: Usa, 1979
Durata: 90’

Nessun commento: