"C'è chi crede in dio o nel denaro. Io credo nel cinema, nel suo potere. L'ho scoperto da ragazzino, mi ha aiutato a fuggire da una realtà in cui ero infelice. È una delle forme d'arte più alte che l'uomo ha concepito. Credo nel suo futuro."
(John Carpenter)

sabato 25 dicembre 2010

Racconti di Natale

Racconti di Natale

Con una punta di cinismo penso si debba “ringraziare” più la componente consumistica di quella religiosa se il Natale è ancora un momento così centrale nell’immaginario di tutto il mondo. Più difficile è invece trovare un’immagine, un volto o un filmato che sia ricollegabile in modo diretto e universale alla festa. Le carte sono scompaginate da mille schegge impazzite che si agitano nelle nostre menti e spesso creano i collegamenti più improbabili. Ad esempio: qualcuno si è mai chiesto cosa abbia reso un film assolutamente caustico e geniale (oltre che diabolicamente profetico) come Una poltrona per due un classico delle feste? Mistero! Basterebbe l’immagine di Dan Aykroyd prossimo al suicidio per rendersi conto di come non esista pellicola più lontana dall’aura zuccherosa che spesso connota il 25 dicembre.

Sarebbe più logico eleggere ad evergreen per eccellenza delle feste La storia di Babbo Natale di Jeannot Szwarc: ma qualcuno lo ricorda? Pensato sicuramente con l’intento di farne un eterno “ritornante” delle feste, aveva tutti gli elementi del genere: esplorazione della “verità” dietro l’icona, bontà profusa a piene mani e persino un piccolo intrigo. Bene, è caduto immediatamente nel dimenticatoio e non si vede in giro da decenni!

Certo, non è questione soltanto di standardizzazione, perché a volte l’oblio tocca anche progetti assolutamente bizzarri. Cercando immagini per accompagnare queste righe mi sono infatti imbattuto nel misconosciuto Santa Claus Conquers the Martians, pellicola natalizio-fantascientifica diretta da Nicolas Webster nel 1965, che già dal titolo sembra lo scult-movie per antonomasia! Da recuperare sulla fiducia, anche se è nella top ten dei peggiori film natalizi di sempre (link in calce).
 

Meglio allora affidarsi ai classici consolidati, come La vita è meravigliosa o, ancor di più alle varie versioni del Canto di Natale di Charles Dickens: l’ultima trasposizione, a cura di Robert Zemeckis, nonostante il favore con cui è stata accolta, sconta quell’artificiosità che connota tutti gli ultimi titoli dell’autore a causa della motion-capture che nell’era di Avatar appare terribilmente obsoleta e nemmeno capace di risultare calorosamente retrò. Meglio anche in questo caso scegliere una delle tante trasposizioni precedenti, io punterei su quella della Disney, Il canto di Natale di Topolino, anche se a onor del vero la mia preferita è S.O.S. Fantasmi (ma quanto è più bello il titolo originale Scrooged!), diretto dal tuttofare Richard Donner e gratificato dalla presenza stralunata di Bill Murray, uno di quei personaggi che anche nel ravvedimento finale non convince mai più di tanto, e può pertanto lasciare la porta aperta all’idea che, sì, Scrooge è diventato buono, ma forse no, chissà…
 

Infine un ricordo fumettistico, con la mitica storia And All Through the House, pubblicata su The Vault of Horror della EC Comics, con il Babbo Natale assassino, ispiratore di molte pellicole e che ha avuto pure un’ottima trasposizione ufficiale nella serie televisiva Tales From the Crypt. E indovinate chi era il regista? Robert Zemeckis! Quando si dice il caso…

Auguri di Buon Natale a tutti!!



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lunedì 20 dicembre 2010

Tron

Tron

Il programmatore di computer Kevin Flynn tenta di espugnare il Master Control Program della ditta Encom, per vendicarsi del suo amministratore delegato Dillinger, che ha rubato le sue ricerche. Il Master Control però sta gradatamente evolvendosi e rischia di inglobare l’intero sistema informatico mondiale, fino a diventare una autentica minaccia. Flynn trova aiuto nei colleghi Lora e Alan: quest’ultimo ha anche inventato un nuovo programma, battezzato “Tron”, per entrare all’interno del sistema e abbatterlo. Flynn però viene colpito dal raggio di un laser sperimentale allo studio della Encom e in questo modo si ritrova all’interno dell’universo virtuale: qui deve lottare al fianco di Tron per sconfiggere la tirannia del Master Control.

Ora che il sequel sta per invadere le sale cinematografiche, viene giustamente da chiedersi che senso abbia recuperare un autentico oggetto d’avanguardia sepolto dalla polvere del passato come Tron, che rischia (come è successo, si veda il primo link in calce) di non essere capito dalle nuove generazioni di spettatori, ormai abituate a ben altre meraviglie tecnologiche. Un prodotto datato, dunque, ma che in realtà ha ancora qualcosa da insegnare, nella misura in cui sia contestualizzato nel momento in cui venne prodotto e nei fermenti che lo agitavano.

Può infatti apparire ancor oggi sorprendente l’idea che uno Studio come la Disney abbia confezionato quello che appare come un prodotto settario e tarato sulla lunghezza d’onda di una gioventù informatizzata: a differenza dei titoli odierni in cui non si può mai recedere dallo spiegare per bene i termini e le coordinate dell’universo messo in scena, Tron non si preoccupa particolarmente di questi aspetti e sembra a tratti parlare una lingua che è per pochi. Chiaramente al fondo soggiace una struttura avventurosa abbastanza classica, con il gruppo di ribelli che deve sconfiggere l’oppressore di turno, ma nel complesso l’insieme è sfuggente e poco incline all’universalismo del cinema blockbuster.

Tron, in fondo, nasce in quel particolare momento storico in cui la Nuova Hollywood sta ricostruendo l’immaginario, portando alla ribalta linguaggi nascosti e realtà altrimenti considerate marginali ed è chiaramente figlio del positivismo lucasiano e del successo di Guerre stellari. A posteriori è comunque più interessante notare lo scambio reciproco d’influenze che il film di Steven Lisberger ha intrattenuto con la saga degli Skywalker perché, se è vero che l’idea di base è una autentica parafrasi della lotta dell’Alleanza Ribelle contro l’Impero Galattico, nei fatti ci sono alcune trovate visive che lo stesso Lucas riprenderà nella più recente “nuova trilogia” stellare, in particolare per l’idea del veliero galattico e per il design delle città (dove si nota la spinta avanguardista e ben poco classica impressa dagli artisti concettuali Syd Mead e Moebius).

Proprio l’iconografia peraltro è l’autentico terreno di scontro sul quale Tron gioca la sua partita, nel passato e nel presente: infatti, rivisto oggi, il film colpisce non per quanto datati siano gli effetti, ma perché il mondo che pone in essere non ha alcuna ambizione di definirsi reale, anzi segna uno scarto voluto e marcato con l’universo “di fuori”. E’ ancora troppo presto per i confronti, ma dalle immagini finora lasciate trapelare sembra che proprio questo scarto si sia ridotto nel sequel (dal quale peraltro qui ci si aspettano grandi cose, la critica non è affatto preventiva), figlio naturalmente di una concezione dell’effetto speciale come elemento fotorealistico e pertanto credibile, pur nella sua inverosimiglianza.

Anche in questo caso Tron poggia su basi preesistenti, che sono quelle della cultura psichedelica: il mondo virtuale non è un universo alternativo che intende essere credibile, ma al contrario un alveo fantastico che riscrive continuamente se stesso secondo logiche difficilmente definibili e che sfociano nel puro esercizio della visione. Come il trip finale di 2001: Odissea nello spazio, piegato a una logica per l’appunto lucasiana, l’altrodove di Flynn è un autentico “viaggio” sensoriale che basta a se stesso in quanto ragione d’essere del racconto. E che pertanto ossequia quel sense of wonder che la moderna logica dell’effetto speciale ha sovente perduto in nome dell’ossessione fotorealistica.

Lo scarto che dunque passa fra logiche matematiche dei “programmi” e dei codici necessari a porre in essere l’universo virtuale, e lo spazio immateriale e autenticamente fantastico che da questo si genera è l’autentico punto di fuga che permette al film di superare la propria inattualità: Tron, insomma, non è il frutto di un ingegno e di una tecnica ormai superate, ma al contrario di scelte stilistiche ben precise e non più replicabili. Oltre che di un’epoca in cui la fantasia intendeva ancora porsi al potere e rovesciare i sistemi basati sul controllo della materia e dell’immaginario.

Non è un caso che il Flynn di Jeff Bridges (scelta di casting intelligentissima e terribilmente stimolante alla luce di futuri exploit dell’attore come Starman e Il grande Lebowski) appaia come un perenne alieno, fuori schema sia nel mondo reale (dove è un outsider) che in quello virtuale (unico “creativo” fra tanti programmi): non a lui è infatti dedicato il titolo, che lo relega invece nel ruolo dell’interfaccia per lo spettatore, lungo il viaggio che porterà la realtà a latere a diventare centrale nel nuovo immaginario.

In fondo è questo che Tron vuole: essere recuperato e compreso nella sua essenza, al di là delle facili apparenze e degli schemi precostituiti.


Tron
(id.)
Regia e sceneggiatura: Steven Lisberger (storia di Steven Lisberger e Bonnie MacBird)
Origine: Usa, 1982
Durata: 96’

I manifesti di Eric Tan

venerdì 17 dicembre 2010

Blake Edwards forever!

Blake Edwards forever!

Siamo impreparati a salutare artisti come Blake Edwards. Non è tanto questione che li crediamo immortali, ma che semplicemente non accettiamo l’idea che possano andarsene. E se non girano da tempo (l’ultimo film, Il figlio della pantera rosa, è del 1993) siamo sempre lì ad aspettare che tornino. Perché alla fine i grandi tornano sempre, vedi Coppola, Malick, Carpenter…

Invece Edwards, come Billy Wilder o Robert Wise, non era tornato e, diversamente dal secondo, non era nemmeno diventato uno di quei registi-ambasciatori di cinema, che restano comunque sempre sulla breccia e si godono i tributi di questa o quella retrospettiva. Persino il suo ricevere l’Oscar alla carriera nel 2004 era sembrato quasi un suo gesto di cortesia nei nostri confronti. Chissà, forse era consapevole di quanto il suo cinema ci mancasse. Di quanto in fondo lo spettatore sia sempre un po’ egoista nel suo costringere gli artisti a un continuo ritorno dietro la macchina da presa.

E quindi oggi coltiviamo questo egoismo, semplicemente non accettando il fatto che Edwards non ci sia più. Un vecchio adagio cinefilo afferma che in fondo degli artisti non si parla mai al passato, perché le loro opere restano eterne, ma in questo caso il discorso è un po’ più sottile, perché in fondo Edwards il passato non lo ha mai veramente vissuto, lui era già avanti. Era in quella linea di confine fra classico e moderno, soprattutto considerando come i suoi stessi film galleggiassero in quel limbo sottile che divide la commedia dal comico e fossero capaci di coprire una gamma espressiva che va dall’ironia alla risata grassa. Grande narratore e abile creatore di maschere, Edwards subisce insomma quel particolare transfert che lo porta a identificarsi con il mitico Ispettore Clouseau (per ammissione modellato su se stesso), ma che nella nostra mente è invece sostituito dal Sir Charles di David Niven ne La pantera rosa: ironico, elegante, gran furbacchione e capace di trarre divertimento dal reale.

In effetti, se poi andiamo a ripercorre la sua filmografia, ci rendiamo conto che in fondo i personaggi di Edwards sono così: la loro percezione è diversa dalla loro reale sostanza, basti pensare anche alla Julie Andrews di Victor Victoria o alla Ellen Barkin di Nei panni di una bionda. Uno iato che delinea una ricerca stilistica continua, ma anche una critica netta alla follia che muove il mondo. Quella che a volte esplode con virulenza drammatica, come accade nel poco visto I giorni del vino e delle rose, uno dei capolavori che da tempo merita di essere recuperato. Speriamo che almeno questa sia l’occasione giusta.
 

martedì 14 dicembre 2010

Noi credevamo

Noi credevamo

1828. Domenico, Angelo e Salvatore sono tre giovani abitanti del Regno delle Due Sicilie che, stanchi dell’oppressione cui sono sottoposti dal sovrano, decidono di affiliarsi alla Giovine Italia di Giuseppe Mazzini e perseguire così un ideale rivoluzionario che porti alla costituzione di uno stato italiano unitario e repubblicano. I tre, nel corso del tempo, devono scontrarsi con ideali frustrati, continui fallimenti, cambi di fronte, fino a un’unificazione che avverrà in modo molto diverso da quanto da loro auspicato.

L’uso dell’imperfetto nel titolo si presta a molteplici interpretazioni: è naturalmente il sintomo di un’ideale politico ormai perduto, sepolto in una gioventù di belle speranze che però si sono scontrate con la dura realtà dei fatti: quella, in sostanza, che ha visto l’unificazione italiana frutto di molti compromessi, intrighi e sangue versato invano. Ma, allo stesso tempo, è anche l’emblema della voglia di riappropriarsi di un periodo che fondava se stesso sul sentimento del credere in un ideale. Quest’ultimo aspetto è quello che lo sceneggiatore Giancarlo De Cataldo ha più volte rimarcato in occasione di interviste e incontri pubblici, come motore trainante di un’operazione che intende riportare il Risorgimento al centro della discussione pubblica, svecchiandolo dall’immobilismo imbalsamato nei ricordi scolastici.

L’intento avviene però in modo trasversale, rinunciando all’enumerazione dei fatti storici, negando la visione delle Guerre d’Indipendenza, della Spedizione dei Mille, e persino dei volti più noti quali Garibaldi, raffigurato come un’ombra sull’alto di un pendio costiero, in una delle sequenze più emozionanti del film. Proprio un momento del genere, l’unico in cui il film sembra finalmente abbracciare un respiro epico abbastanza negato nella prima parte del racconto, restituisce bene l’idea della metafora per l’ideale che si intende inseguire: il Mito di Garibaldi, prima ancora della sua presenza fisica e storica. Poiché il Mito è ciò che realmente spiega i sentimenti che animarono i giovani nell’avventurarsi alla liberazione dell’Italia. Troppo alto è infatti il rischio di ridurre altrimenti l’uomo alla stregua di quel Mazzini che, nell’interpretazione di Toni Servillo, diventa invece un’autentica maschera da commedia dell’arte, nel suo completo nero perfettamente “in parte” e l’espressione perennemente grave che solo nei deliri della vecchiaia riesce a uscire da se stesso, dopo la lunga sequela di fallimenti.

D’altronde, dietro la macchina da presa non c’è un regista qualsiasi, men che meno un autore alla Michele Placido che abbracci in pieno la causa del racconto di grande respiro per tracciare le coordinate dell’Italia di ieri e di oggi, fra intrighi e personaggi di grande spessore, in cui tragedia e farsa inevitabilmente convivono. Mario Martone è viceversa un autore consapevole della portata teorica insita nel linguaggio cinematografico e nella rievocazione del passato, e per questo il “suo” Risorgimento è prima di tutto un’operazione sul concetto stesso di messinscena di un passato noto per l’interposizione delle memorie già depositate. Diventa quindi un passato da ricollocare in un’ottica umana, attraverso lo spazio conferito a volti minori e a tre amici che seguono percorsi diversi (approccio, quest’ultimo, che ricorda quello della riduzione cinematografica di Romanzo Criminale, anch’esso scritto da De Cataldo); ma anche un passato che sia metafora di una condizione che si sarebbe riversata nel presente, da cui alcuni piccoli anacronismi, il più evidente dei quali è l’”ecomostro” in cemento armato che spunta nella campagna.

Di più: Martone porta la sua riflessione sugli ideali risorgimentali a un livello metanarrativo lavorando anche sul concetto di messinscena, evocando i ritmi degli antichi sceneggiati televisivi e una certa teatralità del linguaggio: l’idea è che, nel mettere mano a un passato già scritto e da rivedere, non si possa sfuggire al riverbero di quello che l’arte e la Storia ci hanno infuso lungo i decenni. Di più: di come l’arte stessa in fondo fosse parte integrante di quel coacervo di sentimenti ed emozioni che agitavano quei giorni contrastati. Ecco dunque che, accanto al tentato regicidio che avviene all’esterno di un teatro, altrettanta importanza ha la sequenza in interni, in cui il pubblico rifiuta una rappresentazione troppo audace e “avanti” per i tempi, scatenando la reazione di una Cristina di Belgiojoso (una splendida Francesca Inaudi) che imputa alla gente del suo tempo di non capire quei fermenti che l’arte ha già imparato a intercettare a meraviglia.

Pertanto, il film è molte cose insieme, è il racconto di un fallimento che però non intende accettarsi come tale, ma vuole essere invece terreno di confronto per capire gli errori del passato, che spesso hanno il sapore di anticipare gli sbagli del presente; è anche il tentativo di generare una sana empatia per quelle persone che credevano; ed è anche una bella lezione di cinema sulla forma del racconto storico e sulla sua possibilità di contenitore di generi cinematografici, dal dramma umano e familiare, allo spionistico, fino a un finale dal sapore quasi western. Aspettiamo la versione integrale.

Noi credevamo
Regia: Mario Martone
Sceneggiatura: Mario Martone e Giancarlo De Cataldo, liberamente ispirata al libro omonimo di Anna Banti
Origine: Italia, 2010
Durata: 170’ (versione cinematografica)

giovedì 9 dicembre 2010

The Ward: Il reparto

The Ward: Il reparto

Siamo negli anni Sessanta. Kristen viene arrestata dopo una fuga nel bosco culminata nell’incendio di una casa: un gesto apparentemente folle e senza motivo, che le procura una detenzione in un ospedale psichiatrico. In particolare la ragazza finisce in una sezione (chiamata “il Reparto”) insieme a quattro altre pazienti, tutte affette da disturbi psichici più o meno evidenti. Una misteriosa presenza sembra però minacciare le ragazze e quando una ad una iniziano a sparire, Kristen capisce che l’unica via di salvezza è la fuga.


Uno spazio chiuso è il territorio ideale per John Carpenter, da sempre interessato a concentrare l’azione in ambienti oppressivi: la visione del nuovo e attesissimo The Ward, però, chiarisce come, più che di luogo chiuso, il suo cinema sollevi il problema della percezione di uno spazio, che può risultare mutevole a seconda delle situazioni. In effetti, l’aspetto più interessante del film sta nella sua capacità di rendere il Reparto (il “Ward” del titolo) come un luogo “poroso”, in cui le detenute possono muoversi liberamente e, nel corso dei loro tentativi di fuga, scoprire percorsi nascosti e nuove stanze. Spostandosi lungo i corridoi, i condotti d’areazione e i piani dell’edificio, le ragazze sono sempre accompagnate dalla macchina da presa, vigile nei soliti, magistrali, carrelli carpenteriani che, una volta di più, diventano l’emblema di uno sguardo che si fa mappatura di uno spazio, in una percezione alterata perché costretta a una continua riscrittura delle coordinate spaziali.

Lo spettatore sarà così costretto altresì a rinnovare periodicamente la sua cognizione del Reparto, in un gioco di rispecchiamenti con la protagonista, che pure dovrà condurre un personale percorso di ricostruzione del proprio io, fino alla verità finale, reiterando così quel divario fra essere e apparire che da sempre trova banco nel cinema del regista americano. C’è naturalmente una componente di grande divertimento che il Maestro lascia trapelare, il piacere della messinscena di questo ambiente proteiforme, che produce una rinnovata tensione, lungo una narrazione stringata e capace di non perdere un colpo.

Pertanto si torna al problema già sollevato in passato da Essi vivono o dagli allucinogeni di Fantasmi da Marte, via prediletta per non perdere la percezione del sé e liberarsi del parassita alieno che infetta il corpo: la visione è ingannatrice e lo spazio può essere manipolato da elementi esterni o interni, che traccino la linea di confine fra la realtà e la follia. La percezione dello spazio diventa così non fisica quanto emotiva, legata alla condizione soggettiva di una protagonista che è tramite per lo spettatore, sul quale si riflette non solo il sopraccitato problema della cognizione dello spazio detentivo, ma anche quella tensione febbricitante che non di rado il film esplicita attraverso inquadrature distorte: sono i momenti in cui Kristen è sottoposta a terapie invasive, a somministrazione di calmanti, ma anche quelli in cui emergono scampoli del suo passato, dove forse si trova la spiegazione del gesto iniziale.

Nonostante questo, però, il film non si bea di possibili derive visionarie, apparendo invece estremamente materico e classico nella messinscena, secondo uno schema che rimanda ad Halloween: l’intento è quello di riscrivere lo spazio di una realtà che comunque è per la maggior parte del tempo avvertita come riconoscibile e condivisa, in modo di lasciare maturare solo a posteriori la cognizione della menzogna messa in atto. In questo senso The Ward è anche avvertibile come un ritorno che il regista compie attraverso alcuni luoghi tipici del suo cinema, in una deriva antimoderna che ne fa un puro esempio di film in controtendenza alle recenti mode del genere. Carpenter in questo senso è stato molto chiaro nel definirlo an old school horror movie made by an old school director e, al pari di colleghi come il Joe Dante di The Hole, sembra cercare il punto di fuga in una esemplificazione del materiale narrativo, che rende la vicenda estremamente lineare e fruibile in immediatezza.

Possiamo pertanto pensare all’avventura di Kristen come a un’esperienza contigua a quella che negli stessi anni vedeva il giovane Michael Myers covare la sua follia sotto lo sguardo vigile del dottor Loomis in un altro ospedale psichiatrico: in fondo si tratta di circoscrivere ancora una volta un periodo fondativo della perdita d’innocenza, come già avveniva con gli anni Sessanta del rimosso capolavoro Elvis e dell’appena citato Halloween, fino al futuro/passato di matrice western di Fantasmi da Marte e i Fifties di Christine.

In tutti questi casi, matrice comune è il viaggio di un(a) protagonista che deve prendere coscienza e consapevolezza di questa acquisita mancanza del sé e della propria innocenza, imparando a introflettere il Male che credeva provenire dall’esterno. I fantasmi, insomma, sono ancora una volta gli stessi.


The Ward: Il reparto
(The Ward)
Regia: John Carpenter
Sceneggiatura: Michael e Shawn Rasmussen
Origine: Usa, 2010
Durata: 88’