"C'è chi crede in dio o nel denaro. Io credo nel cinema, nel suo potere. L'ho scoperto da ragazzino, mi ha aiutato a fuggire da una realtà in cui ero infelice. È una delle forme d'arte più alte che l'uomo ha concepito. Credo nel suo futuro."
(John Carpenter)

martedì 14 dicembre 2010

Noi credevamo

Noi credevamo

1828. Domenico, Angelo e Salvatore sono tre giovani abitanti del Regno delle Due Sicilie che, stanchi dell’oppressione cui sono sottoposti dal sovrano, decidono di affiliarsi alla Giovine Italia di Giuseppe Mazzini e perseguire così un ideale rivoluzionario che porti alla costituzione di uno stato italiano unitario e repubblicano. I tre, nel corso del tempo, devono scontrarsi con ideali frustrati, continui fallimenti, cambi di fronte, fino a un’unificazione che avverrà in modo molto diverso da quanto da loro auspicato.

L’uso dell’imperfetto nel titolo si presta a molteplici interpretazioni: è naturalmente il sintomo di un’ideale politico ormai perduto, sepolto in una gioventù di belle speranze che però si sono scontrate con la dura realtà dei fatti: quella, in sostanza, che ha visto l’unificazione italiana frutto di molti compromessi, intrighi e sangue versato invano. Ma, allo stesso tempo, è anche l’emblema della voglia di riappropriarsi di un periodo che fondava se stesso sul sentimento del credere in un ideale. Quest’ultimo aspetto è quello che lo sceneggiatore Giancarlo De Cataldo ha più volte rimarcato in occasione di interviste e incontri pubblici, come motore trainante di un’operazione che intende riportare il Risorgimento al centro della discussione pubblica, svecchiandolo dall’immobilismo imbalsamato nei ricordi scolastici.

L’intento avviene però in modo trasversale, rinunciando all’enumerazione dei fatti storici, negando la visione delle Guerre d’Indipendenza, della Spedizione dei Mille, e persino dei volti più noti quali Garibaldi, raffigurato come un’ombra sull’alto di un pendio costiero, in una delle sequenze più emozionanti del film. Proprio un momento del genere, l’unico in cui il film sembra finalmente abbracciare un respiro epico abbastanza negato nella prima parte del racconto, restituisce bene l’idea della metafora per l’ideale che si intende inseguire: il Mito di Garibaldi, prima ancora della sua presenza fisica e storica. Poiché il Mito è ciò che realmente spiega i sentimenti che animarono i giovani nell’avventurarsi alla liberazione dell’Italia. Troppo alto è infatti il rischio di ridurre altrimenti l’uomo alla stregua di quel Mazzini che, nell’interpretazione di Toni Servillo, diventa invece un’autentica maschera da commedia dell’arte, nel suo completo nero perfettamente “in parte” e l’espressione perennemente grave che solo nei deliri della vecchiaia riesce a uscire da se stesso, dopo la lunga sequela di fallimenti.

D’altronde, dietro la macchina da presa non c’è un regista qualsiasi, men che meno un autore alla Michele Placido che abbracci in pieno la causa del racconto di grande respiro per tracciare le coordinate dell’Italia di ieri e di oggi, fra intrighi e personaggi di grande spessore, in cui tragedia e farsa inevitabilmente convivono. Mario Martone è viceversa un autore consapevole della portata teorica insita nel linguaggio cinematografico e nella rievocazione del passato, e per questo il “suo” Risorgimento è prima di tutto un’operazione sul concetto stesso di messinscena di un passato noto per l’interposizione delle memorie già depositate. Diventa quindi un passato da ricollocare in un’ottica umana, attraverso lo spazio conferito a volti minori e a tre amici che seguono percorsi diversi (approccio, quest’ultimo, che ricorda quello della riduzione cinematografica di Romanzo Criminale, anch’esso scritto da De Cataldo); ma anche un passato che sia metafora di una condizione che si sarebbe riversata nel presente, da cui alcuni piccoli anacronismi, il più evidente dei quali è l’”ecomostro” in cemento armato che spunta nella campagna.

Di più: Martone porta la sua riflessione sugli ideali risorgimentali a un livello metanarrativo lavorando anche sul concetto di messinscena, evocando i ritmi degli antichi sceneggiati televisivi e una certa teatralità del linguaggio: l’idea è che, nel mettere mano a un passato già scritto e da rivedere, non si possa sfuggire al riverbero di quello che l’arte e la Storia ci hanno infuso lungo i decenni. Di più: di come l’arte stessa in fondo fosse parte integrante di quel coacervo di sentimenti ed emozioni che agitavano quei giorni contrastati. Ecco dunque che, accanto al tentato regicidio che avviene all’esterno di un teatro, altrettanta importanza ha la sequenza in interni, in cui il pubblico rifiuta una rappresentazione troppo audace e “avanti” per i tempi, scatenando la reazione di una Cristina di Belgiojoso (una splendida Francesca Inaudi) che imputa alla gente del suo tempo di non capire quei fermenti che l’arte ha già imparato a intercettare a meraviglia.

Pertanto, il film è molte cose insieme, è il racconto di un fallimento che però non intende accettarsi come tale, ma vuole essere invece terreno di confronto per capire gli errori del passato, che spesso hanno il sapore di anticipare gli sbagli del presente; è anche il tentativo di generare una sana empatia per quelle persone che credevano; ed è anche una bella lezione di cinema sulla forma del racconto storico e sulla sua possibilità di contenitore di generi cinematografici, dal dramma umano e familiare, allo spionistico, fino a un finale dal sapore quasi western. Aspettiamo la versione integrale.

Noi credevamo
Regia: Mario Martone
Sceneggiatura: Mario Martone e Giancarlo De Cataldo, liberamente ispirata al libro omonimo di Anna Banti
Origine: Italia, 2010
Durata: 170’ (versione cinematografica)

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