"C'è chi crede in dio o nel denaro. Io credo nel cinema, nel suo potere. L'ho scoperto da ragazzino, mi ha aiutato a fuggire da una realtà in cui ero infelice. È una delle forme d'arte più alte che l'uomo ha concepito. Credo nel suo futuro."
(John Carpenter)

martedì 25 gennaio 2011

L'uomo che volle farsi re

L’uomo che volle farsi re

India, 1882. Il giornalista Rudyard Kipling conosce Daniel e Peachy, due ex soldati britannici, massoni come lui, che intendono fare fortuna attraverso grandiose truffe. La loro meta definitiva è il Kafiristan, che intendono prima conquistare e poi, una volta ottenuto il potere, saccheggiare. Per un equivoco, però, Daniel viene creduto l’erede di Alessandro Magno, l’uomo che secoli prima era giunto in quel luogo e che la leggenda ha trasformato in una divinità. Investito di poteri illimitati da un paese che lo crede un dio, Daniel decide di assecondare il destino, ma i suoi sogni non avranno buon fine.

C’è una circolarità molto netta ne L’uomo che volle farsi re, che fonda la storia a partire dal rapporto con il Mito e infine torna allo stesso per rivelarne le falsità. Come in tutto il cinema di John Huston, infatti, la sostanza messa in campo è quella di due uomini che tentano di fuggire dal destino imposto dalle circostanze per trovare la realizzazione personale, seguendo regole proprie, ma che invece non potranno che andare incontro a un fallimento che ne rivelerà la sostanziale inadeguatezza rispetto al mondo. La dialettica con il Mito è interessante soprattutto in rapporto all’altra grande opera diretta dal regista nello stesso periodo, il western L’uomo dai sette capestri, dove la leggenda – fordianamente – conferisce alla Storia legittimità.

Qui al contrario i due truffatori che decidono di assecondare quel destino che ha offerto loro la carta dell’inganno, riescono nell’intento solo fino a quando mantengono la consapevolezza di vivere una finzione e sfruttano la stessa per fini puramente materiali ed egoistici. Al contrario, quando Daniel decide di abbracciare fino in fondo il suo status di divinità, finendo quindi per legittimare lo stesso di fronte alla Storia, alla politica, alla religione e alle usanze del posto, viene respinto dalle stesse. Huston compie un’azione intelligente riflettendo sul senso delle cose, allargando il sistema di riferimenti secondo una logica di cerchi concentrici: il romanzo originale diventa un racconto che chiama in causa lo stesso Rudyard Kipling come testimone, in ossequio alla logica della New Hollywood anni Settanta che mira a esplicitare il ruolo tanto del narratore quando del pubblico, per farsi riflessione sul potere della narrazione e aprire così varchi inediti alle possibilità metaforiche del racconto. Non a caso il film è giustamente visto come una satira del colonialismo, dove le battute taglienti e l’arrivismo dei due truffatori riecheggia l’opportunismo delle grandi potenze ottocentesche, che nascondevano le loro corse all’oro dietro il convincimento di portare il progresso alle nazioni conquistate (logica peraltro, tutt’altro che lontana, come dimostrano le guerre preventive del nostro secolo).

E’ però interessante soprattutto il modo in cui il film articola questi discorsi in rapporto alle aspettative del pubblico, generate dalla conoscenza degli stilemi di genere. L’uomo che volle farsi re, infatti, non si presenta mai per ciò che non è: un film avventuroso dalla matrice apparentemente classica nella misura in cui è riconducibile a una storyline diretta e lineare nelle sue istanze. Il pubblico, come accade a Daniel durante la traversata dei ghiacciai o ai monaci che attraversano il Kafiristan, è così ricondotto nel ruolo del non vedente che procede per la sua strada, seguendo i segni identitari dell’avventura: luoghi esotici, personaggi carismatici, una coppia dai caratteri opposti ma dal forte cameratismo. Il film funziona magnificamente da questo punto di vista, grazie anche allo sguardo sempre curioso del regista, che si sofferma sui volti, sulla creatività insita nel caos delle strade e riesce sempre a trarre il massimo dell’espressività da ogni inquadratura: non appare pertanto peregrino vedere in molti passaggi un modello per le future scorrerie dell’Indiana Jones spielberghiano.

Per lo stesso motivo il pubblico parteggia nettamente per Daniel, che della coppia rappresenta sicuramente la figura più romantica e incline alle fascinazioni della leggenda, facile preda delle possibilità offerte dalle lusinghe di una “scorciatoia” per il potere. In effetti, la vicenda non lo nega, Daniel è perfetto per il ruolo della divinità, dimostra anche ottime attitudini da regnante ed è giusto ed equo nelle sue sentenze, oltre che non vittima dei pregiudizi. La sua mano potrebbe forse davvero portare benessere a quel luogo e questa esca che il film offre naturalmente, porta lo spettatore a riflettere profondamente sui confini (e sulle ambiguità) fra colonialismo e civilizzazione.

Ma la vicenda è fermamente chiara nel ricondurre il punto di vista all’altezza dello sguardo di Peachy, che non a caso della stessa diventerà il narratore: il suo cinico pragmatismo, per nulla incline alle lusinghe del fato, ma sempre fermo nella sua convinzione di perpetrare l’inganno fino a quando lo stesso produrrà ricchezza individuale e non collettiva, gli permette di avere sempre salda quella trasversalità di sguardo che non gli farà commettere errori. Huston estrinseca attraverso il personaggio di Michael Caine il suo pessimismo circa la possibilità di una palingenesi, in un mondo dove solo l’individualismo può avere speranze di salvezza. Un film da riscoprire, insieme all’eccellente performance dei due attori Caine e Connery, scelti in sostituzione di Paul Newman e Robert Redford, che il regista aveva posto come sua prima preferenza.


L’uomo che volle farsi re
(The Man Who Would Be King)
Regia: John Huston
Sceneggiatura: John Huston e Gladys Hill (dal romanzo L’uomo che volle essere re di Rudyard Kipling)
Origine: Usa/GB, 1975
Durata: 123’


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Il cinema di John Huston

lunedì 24 gennaio 2011

Libro Halloween: l’intervista!

Libro Halloween: l’intervista!

In realtà risale alla metà di novembre, ma, anche se in ritardo, mi fa piacere segnalare l’intervista al sottoscritto e a Massimo Causo curata dal sito Cinefestival per il libro Halloween: dietro la maschera di Michael Myers, uscito – lo ricordo – alla fine dello scorso ottobre. Nel farlo ringrazio naturalmente il sito e in particolar modo il curatore Carlo Griseri.


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venerdì 21 gennaio 2011

Shin Mazinger

Shin Mazinger

Il brillante scienziato Juzo Kabuto, scopritore dell’energia fotonica, ha costruito il robot gigante Mazinger Z per donarlo al nipote Koji. La consegna avviene la notte in cui la città di Atami, sito prescelto per sperimentare le applicazioni della nuova energia, viene attaccata dal Dr. Hell, uno scienziato che è entrato in possesso dei segreti della civiltà di Micene e intende usarli per conquistare il mondo. Dopo la morte del nonno, Koji trova l’aiuto della misteriosa Tsubasa Nishikiori, ufficialmente direttrice della Casa Kurogane, ma in realtà pienamente coinvolta nel torbido passato della famiglia Kabuto. La verità sui retroscena che hanno portato alla costruzione di Mazinger e sulla storia dei Micenei verrà progressivamente a galla, intrecciandosi alla coraggiosa lotta di Koji contro i nemici.

 
A distanza di molti anni ciò che ancora colpisce della mitologia di Mazinger è la sua capacità di continuare a evocare e a elaborare il suo paradosso, ovvero l’idea – apparentemente semplice e lineare – di una storia in cui l’eroe è anche il demone. Il robot gigante è infatti definito, sin dalle sue prime apparizioni, come un Dio e un Demonio, sottoposto ai voleri del suo proprietario, che potrebbe indifferentemente utilizzarlo per aiutare l’umanità oppure per assoggettarla. Se la storica serie animata del 1972 mitiga questo concetto, subordinando la costruzione del robot alla necessità pressante di affrontare le truppe del Dr.Hell, nel manga originale esso è espresso nella sua piena forza, quando il dottor Juzo Kabuto, scienziato brillante ma folle, realizza Mazinger come semplice dono per il nipote, apparentemente motivato più che altro dal senso di colpa per averlo reso orfano (i genitori sono morti durante gli esperimenti per sintetizzare l’energia fotonica), forse addirittura per appagare il proprio ego. La lotta contro Hell, quindi, diventa più che altro incidentale e figlia della classica concezione supereroistica per cui all’eroe deve corrispondere un rivale di eguale grandezza.

Quello della consapevolezza nell’uso della tecnologia è un tema che ricorre in molte opere fantascientifiche giapponesi e che Nagai piega poi su una direttrice più direttamente umana, come linea guida per esplorare i chiaroscuri dell’animo umano, quelli che, per l’appunto, portano Mazinga a essere uno strumento di giustizia, ma anche di morte, come accade quando Koji, ancora inesperto alla guida, ne scatena la furia provocando danni apparentabili a quelli perseguiti scientemente dai mostri meccanici nemici.

La serie Shin Mazinger, realizzata nel 2009, parte proprio dall’idea del paradosso e lo amplifica lavorando su più livelli: complice il fatto che in sede di regia e sceneggiatura siede il talentuoso Yasuhiro Imagawa (autore del capolavoro Giant Robot), la serie esplora ancora una volta quella linea di confine fra normalità e mostruosità, ma allo stesso tempo compie un discorso teorico sui concetti di rifacimento e trasposizione lavorando sul materiale originale del 1972, ma ricomprendendo anche le varie derivazioni che l’idea ha generato nel tempo. Il risultato è una serie che, nel presentarsi come “il vero Mazinga” (Shin Mazinger, appunto) riesce allo stesso tempo a essere fedele all’idea nagaiana originale, ma anche profondamente diversa e che, nelle sue linee generali, diventa un compendio e un’analisi della mitologia prodotta dal capostipite dei robot giganti. Ecco dunque che la storyline sfrutta alcuni concetti espressi nel manga Z Mazinger (rilettura del robot attraverso la prospettiva dei miti greci), pesca da altre storie minori, recupera addirittura il prototipo mai realizzato (l’Energer Z, frutto dei vari stadi che portarono al concept definitivo) e sfrutta una narrazione non lineare, fatta di flashback, colpi di scena e continue rivelazioni sui segreti sepolti nel passato, secondo una formula che il grande pubblico assocerà con più facilità al racconto seriale americano.

In questo disegno ciò che resta sempre centrale è il tema dell’identità: così come Shin Mazinger riesce a essere allo stesso tempo un tradimento e una fedele trasposizione del modello, così i personaggi passano per continui cambi di identità. Si va dalle formule più semplici (il travestimento) a quelle più complesse (il tradimento), fino a quelle più radicali (la confusione fra natura robotica e umana, con lo struggente personaggio di Lorelei) e di volta in volta la storia tende ad ammantare ogni figura di un’oscurità che rende difficile cogliere i punti di riferimento e i ruoli. La spregiudicatezza è tale che figure finora considerate nodali nella serie sono ricondotte a un ruolo di contorno, altre sono rielaborate assurgendo a nuove grandezze (il Barone Ashura) e spiccano invece nuovi personaggi (come Tsubasa  Nishikiori e i suoi straordinari sgherri), mentre l’unica figura che per principio rappresenta la detection e, dunque, la risoluzione dei misteri, l’ispettore Ankokuji, sembra una sorta di pesce fuor d’acqua. Imagawa è geniale nel ricondurre questa sfida a livello narrativo, giocando con la struttura stessa del racconto, iniziando con un pilota che è un continuo alternarsi di flash-forward e finali che non vedremo mai, dando al tutto una strutta quasi dadaista.

L’idea in sé resta comunque profondamente nagaiana: l’autore giapponese, infatti, si è spesso distinto per il reimpiego di idee precedentemente scartate e da questo punto di vista Imagawa sembra smontare e rimontare continuamente il suo universo, lasciandone emergere la forza iconografica, spesso esaltata in modo parossistico (Mazinger diventa una sorta di “pugno a razzo” gigante, il Big Bang Punch), e in ultima istanza riesce a rendere l’idea di una mitologia coerente nelle sue varie terminazioni e ad arricchirla di nuovi elementi. In questo senso l’operazione è sicuramente affascinante e il tono cupo e la grandeur di molte puntate colpiscono nel segno.

Da stasera sul canale satellitare Man-Ga.

 
Mazinger – Edition Z: The Impact!
(Shin Mazinger: Shogeki! Z-Hen)
Regia e sceneggiatura generale: Yasuhiro Imagawa
Origine: Giappone, 2009
Durata: 26 puntate

lunedì 17 gennaio 2011

Il cinema di John Huston

Il cinema di John Huston

La retrospettiva che il Torino Film Festival 2010 ha dedicato a John Huston, ha rappresentato un momento importante per celebrare una figura abbastanza dimenticata (basti vedere la penuria di suoi titoli in DVD) e che costituisce invece un elemento fondamentale nel passaggio dalla Hollywood classica a quella moderna. Non è casuale, infatti, che già all’annuncio della retrospettiva, i primi commenti fossero incentrati soprattutto sul rimarcare i punti deboli della filmografia dell’autore e i celebri compromessi artistico/produttivi che portarono a opere controverse come La Bibbia o Casinò Royale.

Invece, come spesso accade, c’è molto di più e va dato merito a Torino di aver in questo modo concluso un percorso che, iniziato sotto le direzioni Della Casa prima e Turigliatto-Vallan dopo, è riuscito a radiografare bene il sentiero battuto dal cinema americano attraverso la sua storia passata e quella più recente (il pensiero è naturalmente rivolto alle precedenti retrospettive su John Carpenter, George Romero, Walter Hill, Robert Aldrich fino al Nicholas Ray del 2009, ma non vanno dimenticati anche gli omaggi a Anthony Mann, Budd Boetticher e John Ford). Chi è stato spettatore a Torino negli ultimi dieci anni, insomma, ha potuto farsi un’idea molto allargata delle istanze che hanno mosso il cinema americano lungo la sua Storia.

John Huston, dunque, è una figura che in questo percorso si pone al centro, regista autenticamente di due epoche, capace di segnare tanto la Hollywood classica che quella degli anni Settanta e Ottanta. L’aspetto più interessante, però, sta nel notare come già i suoi film classici fossero in realtà moderni. Non soltanto per la forza dei temi, che spesso travalicavano quei compromessi commerciali tipici dello studio system, rivelando una visione al nero non comune per i prodotti di massa. Basti pensare alla splendida parabola di avidità che è Il tesoro della Sierra Madre, oppure a quella ossessiva del magnifico Moby Dick. Ma anche e soprattutto per ragioni puramente stilistiche e iconiche. Huston è stato infatti grande nell’utilizzo degli attori, visti sia come corpi simbolici, autentici segni filmici che con la loro presenza erano capaci di “comunicare” più delle storie stesse in cui erano coinvolti, sia come figure duttili, da plasmare a proprio piacimento. Pensiamo alla delicatezza di Audrey Hepburn, rivoltata nella problematicità della meticcia nel western Gli inesorabili; oppure all’Errol Flynn alcolizzato de Le radici del cielo, personaggio imbelle nel genere avventuroso che pure gli aveva dato fama. E così via via procedendo fino alla scoperta e all’utilizzo di talenti del cinema a venire, come John Hurt, Michael Caine, Sylvester Stallone.

Ma probabilmente il volto hustoniano per eccellenza resta quello di Humphrey Bogart, che il regista utilizza con una sapienza incredibile, usando spesso la sua iconicità in funzione contraria a quella narrativa. Ne è buon esempio il Sam Spade de Il mistero del falco, investigatore brillante come da tradizione della detective story, ma anche figura chiaroscurale, a suo agio fra gli intrighi della storia e decisamente poco incline al dispiacere per la morte del collega da cui si dipana la vicenda. Ma ancora basterà ricordare l’utilizzo dell’attore nel già citato Il tesoro della Sierra Madre, dove diventa il tramite per il pessimismo che il regista profonde rispetto alle possibilità dell’uomo di accettare un’ideale di condivisione. La storia del cinema e della società americana per Huston è fatta di individualismi, di personaggi che seguono regole proprie e che quasi sempre sono disallineati rispetto al loro mondo, al punto che spesso i loro racconti sono percorsi di vita lungo la strada che li porterà a comprendere il proprio disagio e la propria congenita infelicità (si pensi al Toulouse Lautrec di Moulin Rouge).

Ne consegue che Huston è stato anche un teorico, una persona consapevole delle capacità insite nella narrazione per immagini e infatti qui risiede la modernità del suo cinema. Anche nelle opere del periodo classico, infatti, emerge un gusto documentaristico per l’immagine, che si accompagna a una forte tensione verso il primo piano, con personaggi che sono a un passo dal rivolgersi direttamente alla macchina da presa, come infatti avverrà nei capolavori della maturità (pensiamo all’ineguagliabile L’uomo dai sette capestri). Tutto questo senza considerare il lavoro di composizione dell’immagine, che tiene conto dei trascorsi pittorici dell’autore.

Ma tutto ciò non deve far pensare a un regista serioso o proteso in pesantezze didascaliche: al contrario, la grandezza di Huston sta nella leggerezza ironica con cui spesso lascia passare i suoi temi, nella porosità di un cinema che sa piegarsi a istanze differenti e spesso riesce a lasciar trapelare l’ironia anche in contesti drammatici. Una figura anzi affascinata e curiosa delle possibilità offerte dai contesti narrativi, tanto che a volte le storie dietro le lavorazioni dei film sono non meno grandiose di quelle che hanno portato alla pellicola finale. E a volte possono pure risultare spiazzanti nella loro contraddizione: pensiamo all’animalismo del già citato Le radici del cielo, che pare Huston abbia voluto portare avanti per poter girare in Africa e… cacciare un elefante! L’esatto opposto di ciò che vuole il suo protagonista. Seguire regole individuali, insomma, per lui non era soltanto un tema cinematografico.

mercoledì 12 gennaio 2011

Hereafter

Hereafter

Tre storie: Marie è una giornalista francese in vacanza nel sud-est asiatico, quando viene investita in pieno dall’onda anomala che devasta le coste della regione. Apparentemente morta, riesce a tornare in vita, ma l’esperienza la segna al punto da spingerla a indagare sull’aldilà.
George è un operaio americano, il suo carattere è molto chiuso a causa del suo misterioso potere, che gli permette, con un semplice contatto, di percepire le forze ultraterrene che gravitano intorno a ogni essere vivente, i parenti scomparsi e le dolorose esperienze sepolte nel passato di ognuno. Un dono per molti, una maledizione per lui, dal quale il ragazzo tenta ora di affrancarsi nonostante le resistenze del fratello, che vede nell’occasione una grossa opportunità commerciale.
Marcus è un bambino inglese, legatissimo al fratello gemello, che però muore in un incidente stradale. Strappato alla madre dai servizi sociali e affidato a una nuova famiglia, Marcus tenta unicamente di trovare un modo per entrare in contatto con il fratello scomparso.
Tre destini, tre esistenze completamente diverse, ma destinate a intrecciarsi.

E’ un film di forze latenti che agiscono (e favoriscono) un contesto di prospettive opposte, questo Hereafter: come quando si evidenzia qualcosa per lasciar filtrare invece altro, si parte da un presupposto per determinare conseguenze inaspettate e diverse da quelle attese. E’ un film che parla della morte o della vita? Sostanzialmente di vite gravate dal peso della morte, ma al contempo liberate dalla stessa attraverso un percorso di condivisione di esperienze e destini.

Tema quest’ultimo fortemente eastwoodiano, sebbene la matrice del racconto e l’interesse per il tema “ultraterreno” vada equamente condiviso con la squadra produttiva di Spielberg/Kennedy/Marshall, ovvero le personalità che in passato hanno realizzato e/o prodotto un film come Always, affine a Hereafter per il suo essere tassello di un medesimo percorso, ma allo stesso tempo di una distanza: lì, infatti, la condivisione morte/vita era un pretesto per parlare della presenza nel reale dell’elemento “fantasmatico”. Qui, la direttrice è puramente vitalistica, umana, sono drammi di persone reali non (ancora) fantasmi, ma che si agitano in una zona di confine dove la carne può entrare in contatto con l’anima e lo spirito riesce ad avere fuggevoli visioni dell’altrove/aldilà.

Proprio questi intervalli, questi punti di contatto che il film naturalmente determina, giungendo a costruire un percorso a tappe lungo esistenze fra loro diverse, ma destinate a confluire, costituisce uno dei maggiori punti di forza della storia. Sicuramente risaltano innanzitutto le toccanti vicende personali che la pellicola offre agli spettatori e svariate sequenze emozionanti nella loro semplicità: basti pensare alla lacrima che, improvvisa, arriva a scompaginare il viso altrimenti ordinato di Melanie (Bryce Dallas Howard), donna apparentemente forte e sicura di sé e cui istantaneamente crolla invece ogni certezza lasciando spazio a una umanissima fragilità. Eppure ciò che più interessa e colpisce è la capacità di tracciare quel confine e di rovesciare tutto, determinando traiettorie altre.

In quest’ottica appare sorprendente ma non impossibile (conoscendo la lucidità dello sguardo eastwoodiano) notare come la famiglia, che per Marcus è l’elemento totalizzante, diventi invece una forza disgregante per George, vessato dalle mire economiche del fratello ai suoi danni; allo stesso modo la carriera che Marie tenta di inseguire ed eventualmente di piegare ai suoi interessi è l’altro fardello che lo stesso George vuole scrollarsi di dosso, respingendo i clienti e scappando quando Marcus lo riconosce per aver visto la sua immagine in un sito internet. Eastwood non cade però nell’errore del facile gioco di sceneggiatura e questi rovesciamenti di prospettive non sono propedeutici a una qualsivoglia sorpresa, un twist narrativo di quelli tanto in voga al momento. Al contrario, servono principalmente per evidenziare la mutevolezza dei riferimenti, in contrasto con l’apparente concretezza del mondo reale, dove quindi gli unici punti fermi che, pur nella loro fissità, risultano assolutamente imprendibili e non definibili, restano la vita e la morte.

Il tentativo di definire questi due estremi dunque determina il paradosso di una conoscenza che può avvenire in modo né razionale né emotivo, ma soltanto attraverso l’esperienza della condivisione di un percorso comune: e qui si torna ancora una volta a Gran Torino e Invictus, al gesto fisico come tramite per la conoscenza dell’universo altrui. Che se nel caso di George risulta più evidente (il toccare un oggetto del defunto per entrarci in contatto), è meno lampante, ma più forte, nei momenti in cui la condivisione è un fattore del tutto umano. La lettura di un libro come tramite per la conoscenza di due persone fra loro diverse e distanti; oppure ancora l’assaggio del cibo come momento deputato a rompere gli indugi e favorire un’amicizia che potrebbe forse fornire nuove traiettorie alla vita. L’equilibrio è delicato e precario, perché quello stesso gesto che marca la fine di una distanza (la stretta di mano fra George e Marie) può essere invece anche la causa di una brusca separazione (ancora George e Melanie) ed è perciò trattato nel rispetto dei personaggi, tanto da porre in second’ordine alcune ingenuità ed eccessi del testo. Sfrondato dagli stessi, Hereafter è ancora una volta un film sincero e attento a valorizzare gli elementi singoli nella prospettiva fornita dal più grande disegno generale.

Hereafter
(id.)
Regia: Clint Eastwood
Sceneggiatura: Peter Morgan
Origine: Usa, 2010
Durata: 129’

lunedì 3 gennaio 2011

Tron: Legacy

Tron: Legacy

Alcuni anni dopo aver sconfitto il Master Control, Kevin Flynn è scomparso nel nulla, abbandonando il figlio Sam. Così, mentre la Encom diventava un colosso della programmazione informatica, disattendendo i dettami del suo creatore che sognava un futuro basato sulla condivisione delle scoperte informatiche, Sam ha rifiutato di entrare nel consiglio di amministrazione e si dedica a sottrarre i nuovi sistemi informatici per immetterli nella Rete. Un giorno, però, dall’ufficio di Kevin arriva una chiamata: Sam deve così ripercorrere le impronte paterne e trovare cosa aveva scoperto il genitore prima di sparire. Finisce perciò nell’universo virtuale, governato da Clu, un programma ombra dello stesso Kevin, che ha creato il sistema perfetto e ora sogna di invadere il nostro mondo. Ma per farlo ha bisogno delle conoscenze custodite dal più illustre prigioniero di quel mondo: Kevin Flynn. Padre e figlio saranno dunque uniti nell’ultima missione.

I semi del futuro sono sepolti nel passato
(da Transformers: Beast Machines)

Quando Sam Flynn viene fatto entrare nell’arena del Moto-labirinto, gli viene consegnata un’interfaccia per giocare: lui la impugna come se fosse una spada laser di Star Wars, ma non è quello il modo giusto. Basterebbe questa fugace sequenza per ribadire il legame di discontinuità con le logiche lucasiane che animavano il primo Tron, la voglia che questo sequel ha di rifarsi al modello ma allo stesso tempo di esserne autosufficiente: e anche se nel prosieguo della storia i rimandi alla saga stellare non mancheranno (l’esercito di Clu ricorda quello dei Cloni di Episodio II), questo rapporto è sempre estremamente “aperto” e in odore di conflittualità, allo stesso modo in cui la dicotomia Clu/Flynn è la storia di una lotta interiore fra una concezione dell’informatizzazione come progresso (inteso fordianamente come condivisione del sapere e dei benefici che ne derivano) e una invece autoreferenziale, basata sulla scoperta come potere ed eliminazione progressiva (e disumana) delle imperfezioni.

In questo punto il film gioca la sua carta più precisa, quando cioè riesce a staccarsi davvero dalla logica melièsiana del precursore e fa dell’altrodove virtuale non un universo “altro”, ma una struttura in filigrana di quello degli umani. In effetti i due mondi, più che in passato, appaiono stretti in una danza di perenne e progressivo corteggiamento reciproco: l’universo degli umani vuole penetrare i segreti di quello virtuale e condividerli in nome di una transmatematicità che permetta ai numeri di essere architrave dei benefici del mondo. Un’altra sequenza è in questo senso illuminante: il prologo in cui vediamo le linee grafiche dell’universo virtuale dare forma al nostro mondo reale, in cui agisce il doppio digitale di Jeff Bridges. La dialettica che il film pone in essere fra i due universi è dunque principalmente visiva: rispetto al predecessore, che affogava il mondo di Tron in tinte acide che rimandavano alla cultura psichedelica, stavolta si opta per un tono dark che appare mutuato dai residui del cyberpunk e che lascia spesso intravedere la trasparenza dei muri, degli oggetti, persino dei corpi che vengono attraversati dai dischi nell’arena e si frantumano in un tripudio di pixel.

In ragione di tutto questo Tron: Legacy rinnova e amplifica il piacere dell’esperienza fisica, dell’immersione visiva in un universo meraviglioso, che però stavolta non nasconde l’inquietudine di un mondo che è ormai pienamente dentro gli immaginari creati dalle logiche virtuali e che dunque non guarda più all’altrove come a un’ultima frontiera, ma come a un riflesso del mondo reale. Per questo stavolta la logica non è soltanto quella dell’esplorazione del nuovo universo, ma al contrario quella del ritorno alla realtà. La spinta, insomma, è oppositiva rispetto al modello, non c’è un Master Control da abbattere, ma al contrario un programma-padrone che vuole uscire e fondersi con l’esterno, espandendo le sue logiche oltre i confini del proprio macrocosmo.

La logica del progetto non è più dunque quella dell’antitesi, che resta simboleggiata dai colori delle fazioni antagoniste (arancio per i “cattivi”, azzurro per i “buoni”), ma quella della sintesi, e proprio per questo motivo più della storia in sé (comunque ben congegnata) sono le singole sequenze, o gli elementi unici a contenere i dati e le informazioni più importanti. La sintesi migliore è nei corpi, da quello di Quorra, cui basta un semplice tatuaggio sul braccio per distinguersi in quanto ISO e dunque speranza di salvezza, a quello naturalmente iconico del sempre più straordinario Jeff Bridges. L’attore è fra i pochi oggi a potersi permettere uno stravolgimento totale del proprio personaggio senza nuocere alla mitologia delle saghe in cui si va a collocare: il giovane entusiasta e scavezzacollo del primo Tron diventa qui un individuo riflessivo e rinunciatario, dedito principalmente alla meditazione e riesce a risultare credibile in virtù della profondità mitica che la sua immagine naturalmente rimanda.

Per questo la dicotomia Kevin/Clu racchiude in sé il principio e la fine della storia, le contraddizioni e le scelte che pongono l’uomo di fronte ai bivi della vita e del progresso e la necessità di costruire un percorso basato sulla conoscenza e il rapporto con ciò che è stato (Tron) e ciò che sarà (Sam). Il tutto in uno spettacolo di rara bellezza visiva, potente e lirico grazie anche alle strepitose musiche dei Daft Punk e che rinnova pertanto, ma in modo differente, il piacere del sense of wonder. Imperdibile: un’annata iniziata con Avatar si conclude nel migliore dei mo(n)di.

Tron: Legacy
(id.)
Regia: Joseph Kosinski
Soggetto: Adam Horowitz, Edward Kitsis, Brian Klugman, Lee Sternthal (basato sui personaggi creati da Steven Lisberger e Bonnie MacBird)
Sceneggiatura: Adam Horowitz, Edward Kitsis
Origine: Usa, 2010
Durata: 127’


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sabato 1 gennaio 2011

Cinema per il 2011

Cinema per il 2011

Un nuovo anno va dunque a iniziare, con le sue promesse di mirabolanti visioni! Ma come sarà il cinema che ci aspetta? Ecco una serie di volti femminili per sintetizzare le richieste al nuovo anno:

Vorrei un cinema capace di evocare il sogno, come ad ogni apparizione di Neytiri in Avatar.


Un cinema che resista nella memoria, riaffiorando ad ogni bivio della vita, come la presenza “persistente” di Marion Cotillard in Inception.
 

Un cinema capace di impeto e passione, come quello dimostrato dalla meravigliosa Natalie Portman in Black Swan (visto alla Mostra di Venezia e uno dei titoli di punta per le prossime uscite in sala)
 

Un cinema la cui energia sia capace sempre di sorprendere, come accade con la figura sbarazzina di Ellen Page, qui nello “scombussolato” Super, di James Gunn.
 

Un cinema di carattere, ma sempre capace di non tralasciare l’ingenuità e la leggerezza, come Micaela Ramazzotti ne La prima cosa bella.
 

E, soprattutto, un cinema che sia capace di emozionare anche soltanto con un’inquadratura, come accade ogni volta che si assiste al sorriso dell'affascinante Cécile de France, qui nell’imminente Hereafter di Clint Eastwood (presentato in anteprima al Torino Film Festival).
 

Buon 2011 a tutti!

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