"C'è chi crede in dio o nel denaro. Io credo nel cinema, nel suo potere. L'ho scoperto da ragazzino, mi ha aiutato a fuggire da una realtà in cui ero infelice. È una delle forme d'arte più alte che l'uomo ha concepito. Credo nel suo futuro."
(John Carpenter)

mercoledì 27 aprile 2011

The Silver Screen

The Silver Screen

Una delle possibili etichette cui da tempo penso per il Nido è dedicata alle memorabilia cinematografiche, attraverso cui riflettere sull'apparato iconografico che circonda l'arte e l'industria dei film e che finisce inevitabilmente per confluire nel grande calderone dell'immaginario pop più o meno contemporaneo. E' l'effetto di quel particolare transfert che permette a ogni spettatore di sentirsi parte in causa del processo di creazione e fruizione di un film attraverso il possesso di un oggetto che riconduca ai fatti o ai personaggi visti sullo schermo. Materia che non merita di essere relegata agli uffici marketing e che diventa invece pane per collezionisti, ma anche semplici estimatori di quella che, nei suoi casi più virtuosi, diventa un'arte collaterale: basti pensare alla sapienza dei pittori che per decenni hanno realizzato i manifesti cinematografici.

A tal proposito, il primo appuntamento di questo nuovo spazio “Oggetti di cinema” è dedicato a una bellissima rubrica del sito Blu-ray.com - specializzato nel segnalare e recensire i film editati nel supporto per l'Alta Definizione - intitolata “The Silver Screen”. Si tratta di uno spazio aperiodico, gestito dal collezionista Robert Siegel, il quale, approfittando dell'uscita di un classico del cinema in formato Blu-Ray, ne ripercorre la fortuna attraverso la sua ricca collezione di memorabilia. Un esempio perfetto di come marketing, collezionismo e arte riescano a convivere in uno spazio capace di smuovere anche l'animo del cinefilo più scafato.

Allo stato attuale Siegel ha realizzato due interventi. Il primo è dedicato al capolavoro di Cecil B.De Mille, I dieci comandamenti, fiammeggiante rivisitazione della storia di Mosé, già portata sullo schermo dal regista nell'epoca del muto e che nel 1956 trova la sua definitiva consacrazione mitica. Gli splendidi colori della fotografia di Loyal Greegs, usati dal regista con sapienza pittorica di grande espressività (pensiamo alla sola immagine della mano nel cielo che simboleggia la discesa dell'Angelo della Morte), le scenografie sontuose, la recitazione solenne che diventa quasi astrattismo delle figure incarnata dalla magnifica dicotomia Charlton Heston/Yul Brinner... tutto in quest'opera ha il sapore del Mito e Siegel lo omaggia con una irresistibile raccolta di manifesti, foto di scena, splendidi artwork e approfondimenti sul cast artistico e tecnico. Un autentico tesoro ritrovato!
  

Il secondo appuntamento è invece dedicato a un film non meno monumentale e parte della ricca tradizione del cinema italiano: C'era una volta il west, capolavoro sulla Frontiera firmato dal compianto Sergio Leone. Il fatto che Siegel si occupi di un film italiano è interessante perché offre una interessante prospettiva sulla visione di un capolavoro da parte di uno spettatore lontano e, conseguentemente, la raccolta di memorabilia oscilla fra differenti realtà, in una logica transnazionale che riecheggia la natura universale del cinema. Troviamo così poster americani, tedeschi, slovacchi, giapponesi e naturalmente italiani, foto di scena, una simpatica caricatura di Ennio Morricone e anche una rara immagine dell'attore Al Mulock, morto suicida sul set. Un viaggio nella memoria del cinema e della promozione, che ben si sposa all'intento elegiaco caro allo stesso Leone. C'è di che aspettare con ansia i futuri aggiornamenti!


martedì 26 aprile 2011

Habemus Papam

Habemus Papam

Il Papa è morto, e in Vaticano si è aperto il conclave che decreterà il suo successore. La scelta cade sul cardinale francese Melville, che accetta l'incarico, ma subito dopo cade in preda al panico per il compito che avverte come eccessivamente gravoso. Il nuovo Pontefice non si presenta dunque al mondo e si rintana invece nei suoi appartamenti, lasciando sgomenta l'opinione pubblica. Per aiutarlo a superare questo momento di incertezza viene convocato il professor Brezzi, il miglior psicologo della capitale, che viene costretto a restare in Vaticano sino a quando il nuovo Papa non sarà stato presentato al pubblico. Il Pontefice però fugge e si immerge nella vita della città, mentre il portavoce del Vaticano cerca di tenere nascosta la cosa al mondo e agli altri cardinali, formalmente ancora in conclave.


C'è bisogno di registi come Nanni Moretti, per la loro capacità di spiazzare. Possiamo avanzare dei dubbi sull'uomo e la personalità cinematografica (lo abbiamo anche fatto in passato), ma l'artista resta qualcos'altro, che ci sfida e riesce a condurci con sapienza verso direzioni differenti rispetto a quelle attese. Come nel precedente Il Caimano, Moretti racconta una storia altra: quello non era un film incentrato sulla figura di Berlusconi, questo non è un film sul Vaticano o ancor più contro di esso. La vicenda particolare diventa infatti pretesto per riflessioni più importanti sull'Uomo e sul suo confronto con la vita.

In effetti, a ben guardare, sussiste una specularità nei due film, che non si concreta unicamente nel fatto che entrambi pongano come riferimento una figura del Potere (politico l'una, religioso l'altra), quanto nel peso che tali figure hanno rispetto all'umanità e alla Storia. E in entrambi i casi il punto di vista privilegiato è quello offerto da una vicenda personale (fatto che crea un ponte anche con il precedente La stanza del figlio), una rottura individuale che produce una scossa avvertibile da un'utenza più ampia, secondo una struttura che potremmo definire a cerchi concentrici. L'indecisione del singolo cardinale, quindi, diventa la crisi di un'umanità che abbisogna di simboli e che crea in tal modo una sovrastruttura rituale capace di schiacciare il precipitato umano.

Proprio quel precipitato interessa a un Moretti che si diverte a esplorare il tema lungo il doppio registro del dramma ammantato però di commedia. Le gag che vedono protagonisti i cardinali sono indubbiamente molto divertenti, ma è interessante notare soprattutto come le due componenti, che in un primo momento sembrano avvicendarsi in modo particolarmente ispirato, lentamente inizino a confliggere, come a rivendicare uno spazio assoluto che diventa di progressiva esclusione dell'altro. Pertanto il dramma umano di Melville inizia a risuonare dei toni più forti e coinvolgenti, laddove la figura di Brezzi/Moretti appare sempre più un corpo estraneo all'interno della vicenda, uno stanco cascame di “morettismo” ormai disallineato rispetto alla tragedia in atto.

E' una metafora abbastanza lampante di un cinema che intimamente rifiuta la reclusione negli spazi angusti del Vaticano (quelli che vengono reinventati fino a diventare un campo da pallavolo) e che cerca invece lo sfogo nella complessità della vita, dove pure si reitera la componente rituale dei gesti ripetuti e dell'imprevedibilità ingabbiata negli schemi predefiniti della rappresentazione. Il dramma di Melville è dunque sintetizzato e racchiuso fra i suoi desideri passati di fare l'attore, la finzione di un circo mediatico che invoca la normalizzazione spettacolare di un'elezione che sia tale, la pantomima di un figurante che occupi l'ufficio papale per dare l'impressione al mondo che il Pontefice sia ancora in Vaticano, e il teatro (vero) dove il Papa si rifugia prima di tornare al suo ruolo. Né va dimenticato il tentativo dello stesso Melville di fingersi attore per celare la sua identità di Pontefice, e la sua proposta di sostituire un attore scomparso.

Questa sovrastruttura finzionale viene rotta dal film in modo esplicito soltanto nel finale, che arriva dopo un percorso umano anche in questo caso racchiuso e sintetizzato unicamente da particolari come lo sguardo perso e innocente dello stesso Melville: merito di una monumentale performance del ritrovato Michel Piccoli, capace di racchiudere in sé l'iconografia papale più tipica (che rimanda a Giovanni XXIII e, in parte, anche a Giovanni Paolo II, soprattutto per gli accenni al mondo del teatro), e al contempo di spogliarla grazie a una recitazione soave e di rado sopra le righe, capace di esprimere il disagio della propria condizione attraverso una inadeguatezza che è prima di tutto fisica. In questo modo Moretti codifica un linguaggio che non è spirituale, ma profondamente umano, sta nel reale e nella concretezza del corpo e crea una dinamica feconda rispetto agli elementi di finzione che circondano l'icona papale.

Il finale di per sé non fa altro che rompere il clima ovattato di lunga attesa rendendo collettivo il dramma fino a quel momento relegato nella sfera del personale, attraverso un autentico colpo di teatro che però è anche il momento più veritiero di una vicenda che rompe definitivamente con la ritualità. E la magnifica sospensione cui tutto si abbandona con l'arrivo dei titoli di coda, diventa un momento foriero di dramma (per la solitudine cui viene condannato il mondo) ma anche di possibilità (quella evocata dalle parole del Papa nel suo discorso al mondo), rinnovando quella dinamica del doppio che serpeggia in tutto il film.


Habemus Papam
Regia: Nanni Moretti
Sceneggiatura: Nanni Moretti, Francesco Piccolo, Federica Pontremoli
Origine: Italia, 2001
Durata: 104'


martedì 12 aprile 2011

Lecce 2011

Lecce 2011

La prima novità è il posto. Ferma restando la cornice leccese, il Festival del Cinema Europeo 2011 cambia la sua “location”, abbandonando la storica multisala Santalucia in favore del più centrale Cinema Massimo. Sarà interessante notare come questo influirà sull'atmosfera del festival e sulle sensazioni da sempre evocate dai corridoi invasi dai “serpentoni” di spettatori (diversamente dal Santalucia, infatti, il Massimo si sviluppa soprattutto in altezza, essendo le sale dislocate fra più piani con varie rampe di scale).

Ciò premesso l'edizione numero XII inizia oggi (mentre scrivo sono già in corso le prime proiezioni) e sembra sulla carta meno afflitta dall'ossessione divistica dei festival contemporanei. Certo, c'è l'omaggio a Toni Servillo, ma, ad esempio, le Giornate degli Attori si riducono a un solo appuntamento dedicato a Riccardo Scamarcio, mentre la retrospettiva internazionale si concentra non su un regista, ma su un produttore come Paolo Branco, e la mini italiana è dedicata a Emidio Greco, connotandosi subito come uno spazio di nicchia.

Edizione minore insomma? Non credo, quantomeno non se questo servirà a ridare centralità ai film e a rendere il tutto meno bulimico (pur senza dimenticare una serie notevole di iniziative collaterali in grado di rendere il tutto vario e interessante). E se è possibile già scommettere su questo aspetto scorrendo il catalogo dove troviamo la proiezione del Gattopardo di Visconti in versione restaurata, oltre a classici di Martone, Wenders, Techiné, Monteiro, De Oliveira, Ruiz, lo sguardo è puntato soprattutto sul Concorso internazionale lungometraggi, da sempre lo spazio migliore del festival.

Una sezione che, dopo la lieve flessione fatta registrare l'anno scorso con scelte che erano apparse meno meditate del solito, quest'anno si spera ritrovi la forza propulsiva degli esordi. Come sempre appuntamento in sala (da oggi fino a sabato 16 aprile) per folgorazioni, scoperte e conferme.


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lunedì 11 aprile 2011

Drive Angry

Drive Angry

Un uomo in fuga. Il suo nome è John Milton, e la sua missione è recuperare la nipote neonata, prigioniera della setta di Jonah King e destinata a essere sacrificata al prossimo plenilunio. La corsa sfrenata di Milton verso i suoi nemici non è però isolata. C'è un altro uomo, il Contabile, che intende ritrovare proprio il protagonista per riportarlo nel luogo da cui proviene. A far la parte della malcapitata è la bellissima Piper, che dopo aver abbandonato il fidanzato traditore resta coinvolta nell'avventura di Milton e scopre che in gioco c'è molto più dell'amore di un uomo per la nipote, le forze in campo infatti valicano i confini del reale e sfociano nel soprannaturale...


In attesa che anche Machete arrivi nelle sale dopo i continui rinvii, Drive Angry fornisce abbastanza materiale per riflettere sulla tendenza attuale del cinema hollywoodiano di guardare all'exploitation dei decenni passati come a un modello, dotato di immaginari e codici propri. Non dunque come a un cinema povero (soprattutto di mezzi), ma come a uno straordinario e libero ricettacolo di idee, che nella sua logica dell'accumulo e della quantità al posto della qualità diventa paradigma di ogni possibile libertà espressiva e rimescolamento di categorie (cinema alto e basso).

Di questa tendenza naturalmente Quentin Tarantino e il già citato Rodriguez sono gli alfieri e, con il progetto Grindhouse, possono considerarsi i sostanziali teorizzatori, ma per saggiare la consistenza di questo filone neo-exploitation occorre guardare a esempi meno autoriali come quello qui in oggetto. Perché l'idea di utilizzare un divo decaduto come Kurt Russell o un grande nome del cinema “che conta” come Robert De Niro può avere il suo fascino, ma non è paragonabile al mettere in scena un casting che respiri dell'essenza stessa del film. Si tratta, insomma, di non giocare in una logica dell'ossimoro, ma al contrario dell'identità.

In questo senso Drive Angry è il film perfetto: riverbera la spregiudicatezza dei modelli, li rimette in scena con un budget dignitoso, ma sa soprattutto sfruttare i corpi degli attori come segni di cinema che rifulgono di una profondità mitica propria, che amplia il gioco di rimandi già invocato dal plot. Così, ecco una storia che mescola road-movie alla Punto Zero, sette sataniche alla In corsa con il diavolo e protagonisti in bilico fra questo mondo e l'aldilà che sembrano usciti da un cinefumetto: il riferimento immediato è naturalmente al Ghost Rider che vedeva lo stesso Nicolas Cage come protagonista, ma la figura più straordinariamente borderline è piuttosto quella del Contabile, interpretata con piglio seriamente ironico da un incredibile William Fichtner.

Proprio gli scivolamenti di senso che la commistione di opposti genera sulle figure è l'aspetto più interessante del film. Chiaramente ci si diverte ed esalta davanti alle trovate più strampalate messe in scena dalla sceneggiatura, ma queste appaiono comunque prevedibili in un simile contesto (senza contare la cartoonizzazione imperante in modo abbastanza generalizzato nel cinema d'azione dell'ultimo decennio). Più interessante è l'abilità inaspettatamente dimostrata dall'altrove mediocre Patrick Lussier di creare personaggi credibili nonostante la loro palese assurdità. Merito innanzitutto della capacità di ossequiare il ridicolo senza però sfociare nel becero: una sapienza che quindi permette al tono del film di diventare ironico e demistificatorio, e di giocare perciò d'anticipo rispetto alle aspettative e critiche dello spettatore, pur mantenendo intatta la spettacolarità. In questo senso Lussier dimostra di aver imparato bene la lezione portata avanti dal suo mentore Wes Craven nei suoi più celebri horror.

E poi c'è soprattutto il già citato lavoro di casting. E' infatti estremamente appetibile notare le risonanze che quasi ogni corpo attoriale pone in essere con la sua sola presenza sulla scena. Se Nicolas Cage (consapevolmente definito “con l'aria fuori posto”) è ancora una volta un corpo rigido incastrato in un ruolo estremamente incorporeo (e va dato atto a Brad Silberling di aver creduto per primo nella “trasparenza” dell'attore con il dimenticato City of Angels), è ancora più interessante l'innesto di interpreti come David Morse, che rimanda alla tensione all'altrove di Contact, o la nostra amata Amber Heard, che incarna in sé molte delle contraddizioni della trama. Corpo desiderabile come nel remake de Il patrigno o nell'ancora colpevolmente inedito All the Boys Love Mandy Lane, l'attrice si ritrova nuovamente a incarnare il punto di fuga in una realtà credibile ma irreale, come nel carpenteriano The Ward e non a caso appare come uno dei pochi personaggi non facilmente identificabili del film: un po' pupa di turno, un po' formidabile e ribelle amazzone guerriera, un po' coscienza critica dello spettatore che dubita di ciò che vede, un po' anima candida che si lascia coinvolgere troppo facilmente e, anzi, legittima le assurdità del plot (è lei infatti a stabilire che Jonah King non è un ciarlatano, ma un vero pericolo per il nostro mondo).

Viene così contingentata abbastanza la più facile (e legittima) delle obiezioni che si possono imputare al filone, ovvero quella di essere autoreferenziale e sostanzialmente slegato dalla contemporaneità, in termini di immaginario e di sguardo critico sulla realtà. Non va infatti dimenticato che pellicole come quelle che Drive Angry prende a modello nascevano in un contesto preciso che, seppur mirato al facile sfruttamento di gusti e temi, pescava da inquietudini ben determinate: il road-movie e il filone satanico dei Settanta guardavano infatti ai timori per il sorgere di figure come Charles Manson e alle possibilità aperte dagli scenari tracciati da autori come Jack Kerouac. Non è un caso che il film al botteghino abbia rimediato un risultato deludente, come tutti quelli cui è apparentabile e nonostante il furbo uso del 3D (davvero superfluo in questo caso): le contraddizioni sono dunque in campo, le riflessioni possibili anche, resta da stabilire quale sarà il futuro di questa deriva. Nel frattempo i fans del genere hanno di sicuro pane per i loro denti e comunque il tutto risulta dannatamente divertente.


Drive Angry
(id.)
Regia: Patrick Lussier
Sceneggiatura: Todd Farmer e Patrick Lussier
Origine: Usa, 2011
Durata: 104'


venerdì 8 aprile 2011

La danza dei morti

La danza dei morti

In un mondo devastato dalla Terza Guerra Mondiale, la giovane Peggy vive insieme alla madre, una donna afflitta da terribili incubi sul passato e le dolorose scelte compiute, e che tiene la figlia chiusa fra casa e bottega per impedirle la contaminazione con un mondo di fuori ormai preda di violenze e sopraffazioni. Ma un giorno Peggy conosce Jak, un ragazzo che vive conducendo loschi affari, ma che è affascinato dalla sua dolcezza, e vuole farle conoscere il mondo, dichiarandosi pronto a proteggerla. Così Peggy lo segue e viene portata alla “Fossa dell'Inferno”, il locale per cui Jak lavora come procacciatore di sangue umano. Il plasma serve infatti a nutrire le creature impiegate nel numero più sensazionale del locale: la danza della morte, con cui i cadaveri rianimati da un gas usato durante la guerra vengono costretti a “danzare” con l'ausilio di scosse elettriche. Ma ciò che Peggy non si aspetta è una rivelazione sui segreti nascosti da sua madre in tanti anni. Un segreto che ha a che fare con le sorti della sorella scomparsa anni addietro.


Sembra che Tobe Hooper sia a tal punto un ammiratore del cinema di George Romero, da aver rifiutato in passato la regia de Il ritorno dei morti viventi, da lui giudicato troppo dissacrante rispetto alla filosofia che anima i capolavori dell'illustre collega. Vera o meno che sia questa voce, è interessante notare come il suo aderire al tema dello zombie avvenga proprio in una prospettiva non immediatamente romeriana: il cannibalismo è pressoché bandito e, sebbene il ritratto sociale sia ugualmente devastante, a tenere banco è ancora una volta quella contraddizione profondamente umana che trova nelle dinamiche familiari la sua sintesi e la sua condanna. Siamo, quindi, ancora una volta più che altro dalle parti di Non aprite quella porta, di cui questo splendido episodio di Masters of Horror (il terzo della prima stagione) può considerarsi quasi una variante postatomica.

Hooper però abbandona le caratterizzazioni grottesche in seno al nucleo familiare, per esaltare il valore tragico di una microcomunità (formata da una madre e una figlia) che rifletta nel suo disequilibrio lo sfacelo del mondo “di fuori”. Quel mondo che viene visto sempre come un “altrove” in grado di corrompere la purezza del proprio spazio e che perciò va volutamente tenuto a distanza, con la “casa” che si connota come rifugio da chiudere a chiave dalle intrusioni dell'esterno, fossero anche legittime richieste di soccorso. Qui Hooper riverbera quel sapore western ravvisabile in modo più immediato nel suo citato capolavoro del 1974, chiamando in causa il senso della proprietà e del possesso come elementi fondanti della società americana: non a caso gli unici rapporti che il film sembra legittimare sono quelli economici, che portano anche a sopravanzare il senso stesso di umanità, riducendo i corpi a merce in balìa delle masse affamate di spettacolo.

Il tutto va naturalmente contestualizzato all'interno di un momento storico che nel 2005 vedeva l'America costretta a confrontarsi con la crisi della guerra irachena (nel film vengono citati i terroristi) e le sue implicazioni morali. In tal senso La danza dei morti non offre alcuna catarsi, e lascia anzi che i conflitti esplodano attraverso l'esplicitazione dei segreti e delle scelte compiute in nome della stabilità familiare: non a caso il processo di “liberazione” di Peggy (spesso indicata con l'appellativo di “angelo” e interpretata dalla bellissima Jessica Lowndes) passa per un suo afffrancamento dal giogo materno che si concretizza in una vendetta verso la genitrice, quasi una sorta di ideale passaggio di consegne nel segno della disumanità. E anche per questo la figura che le permetterà di raggiungere la consapevolezza è ben lontana dallo stereotipo dell'eroe, trattandosi anzi di un tossicodipendente che ruba il sangue agli anziani per vivere.

E' interessante notare come ancora una volta la dinamica universale si rifletta nel personale, con la storia d'amore fra due singoli personaggi che diviene punto di svolta di un'esistenza altrimenti condannata all'immobilismo, e anche come la famiglia sia in sé causa ed effetto di una disgregazione sociale che passa sempre e comunque per la sopraffazione reciproca, quale può essere quella della madre che impone alla figlia un ruolo e la “costringe” a restare fedele ad esso, pena la radiazione dall'alveo di (apparente) sicurezza fornito dalle mura domestiche, a tutto appannaggio di quella società del commercio ufficialmente aborrita.

In questo senso la durezza delle situazioni che il film pone in essere, dallo spettacolo di decadenza fisica prodotto dalla nube tossica e dalla riduzione dei morti a feticcio per spettacoli o a oggetto erotico/necrofilo, fino all'uso abbondante e disinvolto di sostanze stupefacenti, diventa a un tempo l'indice di uno smarrimento morale e anche di una confusione percettiva che l'impianto visivo cerca di restituire “soggettivizzando” quella dimensione dello “sballo” agognata dai giovani protagonisti e dagli avventori del night club. Il riferimento va naturalmente al montaggio frenetico con continue sovrapposizioni fra le inquadrature, che conferiscono al film una caratura psichedelica, che fa il pari con i colori e le luci abbaglianti della fotografia. Qualcuno ha fatto il nome di Rob Zombie, come possibile riferimento, ma Hooper è regista intelligente quel tanto che basta da non avere bisogno di modelli, pur restando permeabile alle possibilità offerte dalle nuove tendenze del genere.

In questo senso La danza dei morti è un film che innesta su modelli classici (il postatomico, lo zombie-movie, la stessa presenza iconica di Robert Englund e la filiazione da un racconto di Richard Matheson) elementi di novità e contemporaneità (la sceneggiatura è del talentuoso Richard Christian Matheson, degno erede del padre). Un racconto potente eppure doloroso, da parte di un maestro che per troppo tempo sembrava aver nascosto le sue energie, e che qui appare come un giovane finalmente ritrovato, al pari dei suoi protagonisti.


La danza dei morti
(Dance of the Dead)
Regia: Tobe Hooper
Sceneggiatura: Richard Christian Matheson, da un racconto di Richard Matheson
Origine: Usa, 2005
Durata: 57'


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venerdì 1 aprile 2011

Aprile, mese carpenteriano!

Aprile, mese carpenteriano!

Con il passaggio da marzo ad aprile inizia un periodo molto interessante per i fans di John Carpenter: intanto si completa la fase principale del cammino di The Ward, che da oggi approda nelle sale italiane. Bisogna dare atto alla Bim di aver creduto molto nella pellicola, che è stata promossa con passione dall’agenzia di comunicazione Quattrozeroquattro.

Dal precedente aggiornamento, infatti, sono stati diffusi parecchi video, che vanno dalle clip alle interviste, fino al prezioso filmato dei bellissimi titoli di testa, che non poteva non meritare la ribalta dello spazio Visioni dalla Rete di questa settimana.

Di seguito i link ai contributi video:

E un paio di contributi in esclusiva per Coming Soon:

A margine segnalo anche una bella intervista al Maestro pubblicata su La Repubblica, la cui splendida frase finale campeggerà d’ora in poi sulle pagine del Nido, come potete vedere in alto:

Tutto questo senza dimenticare naturalmente la recensione del Nido, arricchita per l’occasione dei principali fra i link sopracitati:


E non è finita! L’altro grande appuntamento da segnare è infatti per il 27 aprile, quando sarà Dall’Angelo Pictures a colmare un vuoto clamoroso del mercato DVD italiano, facendo finalmente uscire uno dei capolavori assoluti del regista: Il Signore del Male! Naturalmente ci sarà occasione di tornarci su, intanto per celebrare l’evento ho utilizzato la cover per l’apertura di questo aggiornamento, con tanti complimenti alla Dall’Angelo.

Speriamo che tutto questo sia di buon auspicio per il recupero dei pochi titoli ancora inediti in formato digitale: Elvis il re del rock, Body Bags (Corpi estranei) e Pericolo in agguato con l’audio originale (l’unica versione al momento disponibile è soltanto doppiata)