"C'è chi crede in dio o nel denaro. Io credo nel cinema, nel suo potere. L'ho scoperto da ragazzino, mi ha aiutato a fuggire da una realtà in cui ero infelice. È una delle forme d'arte più alte che l'uomo ha concepito. Credo nel suo futuro."
(John Carpenter)

martedì 24 maggio 2011

Essere Nicolas Winding Refn

Essere Nicolas Winding Refn

Come è noto, da queste parti siamo guardinghi circa il reale valore dei premi (spesso frutto di troppi compromessi e non esenti da valutazioni errate), ma è chiaro che se a goderne è una personalità amata si esulta con piacere. E' dunque con grande soddisfazione che plaudo al premio alla regia attribuito dalla giuria del Festival di Cannes 2011 a Nicolas Winding Refn per il suo nuovo e già attesissimo Drive. Un premio importante, perché permette al regista danese di riscattarsi dalla prima, sfortunata, avventura hollywoodiana di Fear X (peraltro ottimo), ma anche di ottenere la giusta legittimazione dopo essere stato per anni un paladino della cinefilia più nascosta. Ora che timidamente i suoi lavori stanno iniziando anche ad arrivare nel nostro paese (anche se in edizioni DVD spesso povere o mancanti della lingua originale) si può iniziare a ragionare a dovere su una delle figure più interessanti in circolazione. A tal proposito ripropongo qui un articolo che avevo scritto nel 2009 per la rivista “Il Ragazzo Selvaggio”, in occasione della bella retrospettiva che il Torino Film Festival aveva dedicato a Refn: un momento che oggi si staglia come il primo segno tangibile dell'attenzione tributata dagli addetti all'opera di questo autore.


Il cinema come arte violenta: Omaggio a Nicolas Winding Refn

A vederlo con quell’aria allampanata, di chi è capitato lì per caso, riesce difficile credere che sia il regista di film celebri per la loro durezza come i tre Pusher, Bleeder o l’ultimo Valhalla Rising. In realtà Nicolas Winding Refn è un esempio perfetto di autore che non cerca la consacrazione in virtù di un presunto qual maledettismo chic: al contrario è un artista convinto di poter affrontare ogni tipo di genere, ma avendo sempre in mente che il cinema è un’arte violenta. Ovvero un’arte orientata a suscitare sensazioni forti nello spettatore.

Inquadrata sotto questa prospettiva, la sua produzione (8 film dal 1996 a oggi) assume una coerenza stilistica e tematica degna di iscriverlo fra gli autori significativi del cinema contemporaneo: certo, chi è aduso a valutare i film con il metro da sarto, misurando unicamente i centimetri di pelle esposta e il sangue versato potrà magari aggrottare la fronte, giacché non siamo di fronte a un sensazionalista. Al contrario, la violenza che permea i film di Refn, sebbene spesso palese, è soprattutto intima, proviene da anime tormentate e ossessive, che attraversano la realtà circostante mettendo in scena una sorta di eterna tragedia del vivere che si concretizza in una naturale propensione alla sconfitta.

Il genere di riferimento diventa pertanto il noir, quello dei tre Pusher, che seguono coordinate narrative non lineari attraverso tre storie di piccoli spacciatori alle prese con i problemi del “mestiere” (procacciarsi il denaro per pagare la “roba”, portare a segno piccoli o grandi reati), ma anche con le frustrazioni e gli imprevisti della vita quotidiana: i litigi con la compagna, la nascita inaspettata di un figlio, fino alla necessità di disintossicarsi per offrire una prospettiva alla propria famiglia, salvo sprofondare ancora di più nel baratro determinato da una criminalità che affastella nuove generazioni ancora più incanaglite delle precedenti. L’affondo finale ovviamente è in un sangue che ha ben poco di catartico e scava in profondità nelle maglie di una Copenaghen trasformata in un girone infernale attraverso l’uso espressionista e “sparato” dei rossi, una costante stilistica del cinema di Refn con le sue dissolvenze color sangue.

Certo, a scorrere cronologicamente la sua produzione si nota che l’ossequio delle regole di genere, quelle che con il primo Pusher avevano fatto parlare di uno “Scorsese della Danimarca”, diventa ben presto un limite: l’ambizione è più profonda e si estrinseca in opere più sottili e stilisticamente ricercate come l’ottimo Fear X, interpretato da un John Turturro sottotono e volutamente spaesato, che appare come una trasfigurazione dello stesso Refn. Un film che peraltro indaga anche i limiti della visione attraverso la scomposizione di una realtà, scrutata attraverso i nastri registrati dalle telecamere di un centro commerciale dove è stato commesso un omicidio. Perché Refn, non va dimenticato, è autore comunque consapevole delle potenzialità insite nel meccanismo cinematografico: la cinefilia è dunque un altro dei suoi tratti fondamentali, ma non diventa mai semplice citazionismo, quanto elemento utile a riflettere i limiti e le caratteristiche dei suoi protagonisti, per elevarli a un livello mitico.

Con Valhalla Rising, quindi, Refn raggiunge la sua maturità stilistica, trovando ancora una volta nel volto scolpito dello straordinario attore feticcio Mads Mikkelsen la chiave interpretativa della sua arte: in questo caso un viaggio metafisico nei recessi della mente umana, raccontata però con un piglio epico degno delle grandi epopee hyboriane. Il viaggio del guerriero One Eye diventa così un’ipnotica odissea che un gruppo di crociati intraprende lungo splendidi scenari nordici, passando in rassegna gli elementi tipici del cinema di Refn: la violenza come elemento qualificante del vivere, ma anche la perdizione come approdo finale e unico reinizio possibile.



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