"C'è chi crede in dio o nel denaro. Io credo nel cinema, nel suo potere. L'ho scoperto da ragazzino, mi ha aiutato a fuggire da una realtà in cui ero infelice. È una delle forme d'arte più alte che l'uomo ha concepito. Credo nel suo futuro."
(John Carpenter)

giovedì 23 giugno 2011

X-Men: L'inizio

X-Men: L'inizio

1944. Erik Lehnsherr, rinchiuso con i familiari in un campo di concentramento nazista, scopre di essere un mutante che può spostare oggetti metallici a distanza. Nello stesso momento, ma da tutt'altra parte, il giovane telepate Charles Xavier incontra Raven, una ragazza in grado di mutare il suo aspetto fisico. Vent'anni dopo Erik è diventato un cacciatore di nazisti e la sua ricerca si concentra in particolar modo su Sebastian Shaw, il medico che nel campo di concentramento non aveva esitato a uccidere sua madre per incentivarlo a controllare i suoi poteri. Shaw, in realtà, è egli stesso un mutante e intende far scoppiare una guerra atomica fra l'America e l'URSS per creare un nuovo mondo che tutti i figli delle mutazioni nucleari come lui possano finalmente dominare. Le attività di Shaw non sfuggono però a Moira MacTaggert, agente dell'FBI che decide di avvalersi del più giovane e capace esperto di mutanti apparso da poco sulla scena: Charles Xavier. Il professore viene così investito del compito di creare una squadra segreta di mutanti all'ordine del governo. Grazie ad essa i destini di Charles ed Erik finiscono naturalmente con il convergere.


Si ricomincia là dove tutto era iniziato: in quel campo di concentramento che Bryan Singer aveva eletto a brodo primordiale per teorizzare il difficile rapporto fra apparenza e forma, fra la manifestazione assoluta del Male e l'insorgere di un elemento indecifrabile – la mutazione – che forse poteva cambiare l'ordine delle cose e scrivere una pagina di storia differente. Matthew Vaughn raccoglie la sfida e decide di scrivere quella pagina: il regista di Kick Ass è fautore di una poetica basata sul rispecchiamento fra realtà speculari, dal cui confronto risulti possibile descrivere la complessità dei rapporti fra i personaggi, la Storia e i sentimenti che le vicende naturalmente pongono in essere. Per questo il suo prologo agli eventi noti grazie alla trilogia di X-Men è allo stesso tempo un riepilogo e un'evoluzione di un progetto già scritto, una rielaborazione di eventi storici già noti allo spettatore, ma anche un'ucronia che apre differenti prospettive su quanto il tempo ha solidificato nella memoria collettiva, e che nel rientrare in circolazione permette di approfondire i concetti basilari della saga.

Si procede pertanto attraverso la riscrittura di una Storia già consegnata ai libri e pertanto non mutabile nei suoi flussi spazio-temporali, ma sulla quale è possibile aprire inediti percorsi: le acque di Cuba e la Germania dei nazisti divengono il teatro reale di una dinamica Bene/Male che confonde i termini della propria dicotomia e rende complesso determinare i reciproci confini a causa di un elemento imprevisto di fronte al quale occorre riscrivere le percezioni. Il potere dei mutanti è così al contempo positivo e negativo, determina la crisi dei missili, ma allo stesso tempo la risolve: eppure è un dono complesso, che pone in campo interrogativi che investono tanto le macrodinamiche sociali quanto quelle strettamente personali, e interessano i rapporti affettivi fra i singoli. Si tratta quindi di plasmare quel conflitto latente fra umani e mutanti, ma anche fra mutanti e mutanti, che attraverso la sua dicotomia riesca a restituire la dualità di un animo umano (e superumano) costretto fra sentimenti, ragioni e difficoltà di vario genere.

Per questo motivo, alla costruzione dell'ordine codificato dai film precedenti (con il gruppo di Xavier e quello di Magneto), si accompagna anche una delicata indagine in cui, attraverso il rispecchiamento dei singoli nell'insieme della comunità mutante, ciascuno di loro riesca a determinare il ruolo che gli spetta, e a scendere a patti con una mutazione che può essere, di volta in volta, un dono o una maledizione e quindi anche una causa di conciliazione con l'umanità o di scontro.

A livello di sceneggiatura, il personaggio che consegna con maggior forza la propria problematicità allo spettatore è quello di Raven, il cui aspetto di sintesi fra la propria reale sostanza bluastra e la capacità di mimetizzarsi con la “normalità” della massa, riunisce in sé il dramma di una persona che sogna la normalità di una omologazione ai canoni fisici tradizionali e il fascino di un potere che si rivela in parecchie occasioni provvidenziale e la rende perciò un personaggio interessante e speciale, che deve imparare a conoscere e ad apprezzare le proprie possibilità.

Quello che più colpisce, comunque, è l'intelligenza del casting, che rielabora la ieraticità shakesperiana dei modelli forniti da Patrick Stewart e Ian McKellen nel segno di una passionalità che pure non si disgiunge da un approccio filologico: lo Xavier di James McAvoy stempera dunque l'entusiasmo della sua giovane età in un approccio cerebrale e idealistico alla causa, che spesso lo rende asettico e incapace di racchiudere interamente il senso della difficile rete di relazioni con gli umani e i colleghi. Al contrario, il Magneto di un fantastico Michael Fassbender lavora maggiormente sulla chiaroscuralità di un dolore che diventa ossessione e finisce per trovare la propria via nel rispecchiamento con la sua autentica nemesi, Sebastian Shaw, dal quale erediterà l'elmetto caratteristico e la missione di avversario dell'umanità.

Sebbene conscio del valore della compassione, Xavier rappresenta dunque il principio teorico astratto dal quale non può che determinarsi la dicotomia con la fazione avversa dei mutanti; Magneto, invece è il frutto di una elaborazione vissuta sulla propria storia e sulla propria pelle, che proprio per questi motivi – opposti dunque a quelli del collega – non può che giungere a determinare la medesima dicotomia. L'inevitabilità del finale, quindi, non è inerziale, ma raggiunta attraverso un percorso estremamente vitale e condotto con intelligenza, con empatia verso i personaggi di ogni fazione e che riesce in tal modo a raggiungere la sintesi fra il passato cinematografico della saga e il suo presente. Bene e Male diventano categorie di un mosaico più complesso, che chiama in causa direttamente lo spettatore, lasciato libero di decidere quale delle due fazioni sia più legittimata nelle sue aspirazioni. La parte finora rimasta fuoricampo nel racconto, insomma, era davvero quella più grande e intensa.


X-Men: L'inizio
(X-Men: First Class)
Regia: Matthew Vaughn
Sceneggiatura: Ashley Miller, Zack Stentz, Jane Goldman, Matthew Vaughn, da una storia di Bryan Singer e Sheldon Turner (basata sui personaggi della Marvel Comics)
Origine: Usa, 2011
Durata: 131'

lunedì 20 giugno 2011

Not Quite Hollywood

Not Quite Hollywood

Il regno di Oz esiste per davvero, e non serve cavalcare uragani o superare l'arcobaleno per raggiungerlo. D'altra parte la saga letteraria di Frank L. Baum (così come l'immortale trasposizione cinematografica del 1940) stavolta resta in fuoricampo: l'Oz che ci riguarda, infatti, è un luogo (e un tempo) del nostro mondo, anche se non del nostro emisfero. Mi riferisco alla lontana Australia, che nella contrazione inglese di “aussie” finisce per favorire il neologismo, naturalmente cinefilo, di “Ozploitation”, ovvero l'insieme delle pellicole di genere prodotte nella terra dei canguri nei decenni passati, ma rimaste a lungo poco considerate o ancor più sconosciute e oggi tornate sotto i riflettori della ribalta internazionale.

A riaccendere le luci è stato il documentario Not Quite Hollywood, diretto da Mark Hartley, un giovane ed entusiasta appassionato fattosi le ossa con i videoclip e che dopo un lavoro di ricerca durato ben dieci anni ha dato fondo alla sua ossessione, realizzando 99 minuti al fulmicotone. Viene infatti da chiedersi se lo stesso termine “Ozploitation” nasca soltanto da un accattivante gioco di parole basato sull'assonanza e sulla voglia di essere memorizzato facilmente, oppure se viceversa si sia voluta chiamare in causa la meraviglia che questa industria dimenticata naturalmente suscita all'ignaro spettatore odierno.

Alzi infatti la mano chi riesce a riassumere la produzione australiana al di là dei pochi nomi ormai noti ai più, da Peter Weir a George Miller: per tutti la formula cinefila “aussie” dagli anni Sessanta agli Ottanta era riassumibile soprattutto in questi autori, in particolare Weir, autentico paradigma della nouvelle vague d'Oceania. E poco gioverebbe ricordare alcuni dei titoli giunti in Italia all'epoca, nell'ambito di quella felice stagione in cui il nostro mercato si dimostrava decisamente aperto alle novità d'oltreconfine: il meno che si possa sperare è di suscitare sbiaditi ricordi in chi si è trovato a noleggiare le videocassette di Razorback o Dead End Drive-in in qualche videonoleggio che sicuramente oggi non esisterà più.

L'Ozploitation rappresenta dunque il sommerso di un cinema che, noto attraverso i suoi autori mainstream, al di sotto della superficie pullulava di tutti i segni che determinano la fertilità di un'industria e che era ovviamente capace di respirare lo spirito di un tempo ormai staccato dai diktat della censura (implacabile nei decenni precedenti al periodo in analisi) e di coprire così l'ampia gamma di emozioni e linguaggi che andavano dai grandi successi commerciali ai più beceri esperimenti di serie Z.

Non stupisce pertanto che già dal titolo del suo lavoro, Hartley tiri in ballo l'americana “Mecca del Cinema”, in un gioco di paragoni e differenze che rappresenta in effetti una delle caratteristiche peculiari di questa industria cinematografica d'Oceania: uno degli aspetti più interessanti evidenziati da Not Quite Hollywood è infatti il rapporto identitario che intercorre fra l'Australia, il suo cinema di genere e il resto del mondo, per effetto del quale l'Ozploitation era percepita in patria come una bieca rimasticatura di tematiche dei film spettacolari americani, mentre all'estero risultava più evidente la matrice autoctona di un cinema che esprimeva in fondo la “doppia natura” degli australiani stessi, figli di un paese nato dalla colonizzazione britannica e che da sempre intrattiene un rapporto controverso con la realtà del cosiddetto “outback”, ovvero l'entroterra (con cui solo nel 2008 il governo centrale avrebbe iniziato a scendere a patti scusandosi per le discriminazioni perpetrate ai danni dei nativi).

Il tema del “doppio” serpeggia dunque attraverso i tre macrogeneri raccontai da Hartley: la ocker comedy, ovvero il filone comico-demenziale e scollacciato che, in alcuni casi, ironizza proprio sul rapporto fra gli australiani e il resto del mondo (in una dinamica che è stata capace di anticipare quella del più celebre Borat); l'horror, forse quello più celebre anche ai meno avvezzi, grazie ai successi internazionali di Patrick e del già citato Razorback; e infine l'action movie, dove giganteggia il celebre Mad Max, ma che vede altre pellicole annesse alla causa e capaci di codificare un'estetica del road movie d'azione che pone il veicolo come creatura fulcro di un universo fatto di grandi spazi aperti. Potente ma spesso mostruoso, attraversato da lame, tubi, lamiere, il camion o l'auto di turno dona sostanza a un filone cyberpunk alternativo, capace cioè di spostare il connubio carne/metallo degli umani al metallo/metallo delle auto, in un circuito auto-pilota-auto che diventa profondamente originale rispetto ai modelli codificati. Fantascienza, ma prima di tutto velocità ed energia sulla strada: un lavoro che non può non avere influenzato – fra gli altri - anche il Quentin Tarantino di A prova di morte (il regista americano, non a caso, è intervistato a lungo nel documentario).

Si scopre così come, alla predilezione per gli eccessi, tipica di questo cinema, spesso si accompagni una cura formale che nell'uso del grandangolo sembra riflettere già a livello visivo la distanza/vicinanza dei “due mondi” compresi nel continente oceanico, e che nell'energia vitalistica espressa attraverso l'azione o il nudo, tenta di dare forma a un'idea di cinema che sia contemporaneamente personale ma anche universale, attraverso cooperazioni con realtà altre e l'innesto di divi americani quali Dennis Hopper, Stacy Keach, Olivia Hussey, Jamie Lee Curtis, George Lazenby, fino al cinese Jimmy Wang Yu.

Hartley è consapevole dell'equivoco da sempre connesso all'exploitation, al suo suscitare interesse soprattutto secondo una deriva trash del “così brutto da risultare bello”, ma il suo interesse è un altro. E' quello di chi intende dare dignità a un cinema che – seppur non abbia effettivamente disegnato incursioni nel brutto puramente inteso – in molti esempi è stato valido codificatore di estetiche, linguaggi, tendenze e perciò può insegnare molto agli appassionati e annettere alle loro wishlist i nomi di molti autori interessanti. La formula narrativa prediletta è dunque quella del “rockumentary”, in cui alla spiegazione di cosa era l'Ozploitation e all'immancabile aneddotica, si accompagna il tentativo di restituire le sensazioni di un cinema variegato, sicuramente folle nei suoi eccessi, ma in ultima analisi energico e creativo, capace perciò di suscitare entusiasmi.

Il ritmo pertanto risulta veloce e straordinariamente capace di riverberare la forza dei modelli, tanto da lasciare lo spettatore in uno stato di continua euforia: sebbene Hartley sia abbastanza onesto nel suo approccio, tanto da cercare di dare spazio a tutte le voci, alle contraddizioni e ai limiti della formula cinematografica australiana, è abbastanza evidente come il suo modus operandi sia quello di un appassionato che intende trascinare lo spettatore nella sua folle corsa alla scoperta di Oz, e per questo il film finisce inevitabilmente per diventare esso stesso uno scampolo di quella subcultura da Drive-in che unisce l'exploitation di tutto il mondo.

La riscoperta di Oz può dunque iniziare da qui, in un viaggio che porterà lo spettatore a conoscere o riscoprire registi come Richard Franklin e Brian Trenchard Smith, e titoli quali Roadgames, Turkey Shoot, The Adventures of Barry McKenzie, Long Weekend, The Man from Hong Kong, Felicity, Mad og Morgan, Next ok Kin e altri, in larga parte inediti in Italia (così come lo stesso documentario).

Per chi volesse approfondire l'argomento si raccomanda, insieme alla visione del documentario, disponibile in ricche edizioni DVD import, anche il dossier curato dalla rivista Nocturno (numero 84, luglio/agosto 2009), e i cofanetti antologici Ozploitation distribuiti dall'australiana Umbrella.


Not Quite Hollywood: The Wild, Untold Story of Ozploitation
Regia e sceneggiatura: Mark Hartley
Origine: Australia/Usa, 2008
Durata: 99'

mercoledì 15 giugno 2011

Survival of the Dead: L'isola dei sopravvissuti

Survival of the Dead: L'isola dei sopravvissuti

Mentre il contagio dei morti viventi si diffonde, sull'isola di Plum si consumano le ultime battute di un'antica rivalità che vede contrapposti il clan del pescatore Patrick O' Flynn e quello dell'allevatore Seamus Muldoon: alla luce della nuova situazione di emergenza, il primo intende imporre una legge marziale che porti all'immediata eliminazione di ogni cadavere; il secondo, invece, vuole che ogni familiare possa tenere con sé i morti in attesa che venga trovata una cura al contagio. Alla fine la spunta Muldoon che, con l'aiuto della figlia di O' Flynn, stanca dei conflitti, riesce a esiliare l'avversario. Contestualmente, un gruppo di militari capitanati dal sergente Crockett, intercetta un messaggio di O'Flynn e decide di recarsi a Plum. Il pescatore riesce ben presto a convincere i militari a parteggiare per la sua fazione e si prepara alla resa dei conti con Muldoon.


Se il precedente Diary of the Dead, sfrondato della sua critica social-mediatica, si concretizzava in un ritorno ultimo agli schemi de La notte dei morti viventi, il sesto capitolo della Dead Saga di George Romero porta a compimento questo percorso a ritroso verso le origini. Il regista di Pittsburgh, infatti, è ormai consapevole di come una qualsiasi riflessione sull'umanità, le sue dinamiche e i suoi destini, non possa prescindere dall'adottare una prospettiva che sia innanzitutto cinematografica. Pertanto, riflettere sui comportamenti innati degli abitanti americani (autentico fil-rouge dell'intera saga e della carriera romeriana) significa dare forma a un incedere che sia anche ricognizione cinefila intorno ai modelli che hanno fondato la cultura del paese.

Di qui l'intuizione assolutamente geniale di ricondurre il tipico zombie-movie attraverso due forme ben precise: quelle del dramma popolar-familiare (collegabile agli schemi dei feulleiton) e, soprattutto, quello del western. Entrambi generi-matrice del cinema americano e, conseguentemente, dell'immaginario che da esso deriva. Il titolo di lavorazione “...Of the Dead” esemplarmente già rimarcava infatti l'intento di fare del sesto capitolo una sorta di radicalizzazione del pensiero romeriano, che riconducesse il tutto ai suoi elementi essenziali, alla matrice del racconto americano tipico: i morti, che poi sono anche i vivi, come più volte evidenziato nei precedenti capitoli.

Nato da una costola del precedente Diary (in cui comparivano fuggevolmente i militari capitanati dal sergente Crockett), i nuovi protagonisti romeriani sono totalmente addentro alle dinamiche nichiliste che nei precedenti lavori trovavano un contrappunto nei classici “lone men”. Crockett qui tenta di fare sue alcune di queste istanze, attraverso un comportamento antisociale che lo porta a vivere con frustrazione il suo ruolo di inquadrato in un esercito (più volte lamenta la decisione di arruolarsi), eppure lo vediamo poi ossequiare con facilità gli intenti di O'Flynn, secondo una deriva inerziale che serpeggia per tutto il film. Non che qui si intenda negare il fatto che alcuni collegamenti appaiano forzati, ma nell'insieme il racconto spinge verso una direzione ben precisa che trova il suo culmine una volta che l'insieme dei microcosmi che hanno attraversato l'intera narrazione, arrivano a convergere (e a collidere) sull'isola.

Ecco dunque i problemi familiari all'interno del clan degli O'Flynn, la trovata – degna esattamente di un feulleiton – delle figlie gemelle, rivali nel contendersi l'affetto del padre, e naturalmente il duello “western” fra clan, portatori di due filosofie opposte. Qui Romero compie la saldatura fra la matrice del racconto classico americano e il suo filone degli zombi, perché la rivalità fra O' Flynn e Muldoon è similare a quella che nella Notte contrapponeva Ben e Harry Cooper, e si articola sulla soluzione da adottare per sopravvivere alla minaccia degli zombie. E, esattamente come accadeva allora, il personaggio che raccoglie le maggiori simpatie del gruppo (O' Flynn appunto) è quello che in realtà sbaglia la strategia perché il sorprendente finale mostra lo stadio ultimo di evoluzione dello zombie romeriano, non più cannibale ma carnivoro, e forse latore di un possibile nuovo stadio in cui riuscirà a integrarsi in un mondo che in effetti non lo pone più come diverso, dal momento che i vivi complottano fra loro per garantire la morte comune alla loro gente, in nome di antiche rivalità.

Quelle stesse rivalità finiscono dunque per spazzare via ogni possibilità di coesistenza legata ai vincoli di consanguineità (figli, sorelle e compagni di vita infatti sono figure sostanzialmente negative), ma anche a possibili legami non convenzionali (l'amicizia condita da tentativi di approccio fra Cisco e la collega gay Tomboy). La visione, sebbene infarcita da ironia e da quella oscillazione di tono tipica dei western americani classici (dove spesso dramma e comicità riuscivano a coesistere), è dunque prevalentemente pessimista, anche se stavolta – più del giudizio morale – risalta la presa di coscienza di una attitudine distruttiva che trova la sua migliore raffigurazione nella stilizzazione dell'eterno duello di fronte alla luna del finale, piuttosto che nelle carni dilaniate dai morsi degli zombie, ricondotti in un ruolo più marginale.

Peccato in Italia abbia saltato la sala per uscire direttamente in DVD.


Survival of the Dead – L'isola dei sopravvissuti
(Survival of the Dead)
Regia e sceneggiatura: George A. Romero
Origine: Usa/Canada, 2009
Durata: 86'



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lunedì 13 giugno 2011

Paul

Paul

Grame e Clive sono due nerd inglesi in vacanza negli Stati Uniti per partecipare al Comic-Con e fare un tour nelle più celebri zone di avvistamenti ufologici. Proprio in una di queste trovano Paul, un alieno fuggito dall'Area 51 per raggiungere il luogo in cui la sua astronave lo verrà a prendere. Paul è sboccato, godereccio e possiede incredibili poteri, ma chi lo tallona è ostinato e gli dà del filo da torcere, per cui Graeme e Clive sono giocoforza spinti ad aiutarlo. Al viaggio si unisce Pat, una ragazza che non ha mai visto il mondo ed è stata cresciuta secondo dettami religiosi molto rigidi. Pertanto, oltre ai Men in Black, i nostri eroi si ritrovano alle calcagna anche il furibondo padre della ragazza.


L'eterogeneità del gruppo che accompagna lo spettatore durante la visione di Paul costituisce non solo il punto di forza del film, ma anche la sua ragione d'essere, pratica e filosofica. Il film infatti rappresenta un autentico punto d'incontro tra istanze divergenti e persino tra cinematografie e concezioni filmiche non necessariamente agli antipodi, ma sicuramente molto ben caratterizzate tra loro. Da un lato abbiamo infatti il regista Greg Mottola (artefice di Suxbad) e l'attore Seth Rogen, che doppia Paul nella versione originale; dall'altra la geniale coppia britannica formata dagli interpreti e sceneggiatori Simon Pegg e Nick Frost.

Entrambe le coppie incarnano un preciso ideale di commedia: più esistenziale quella di Mottola/Rogen, più citazionista e parodistica quella di Pegg/Frost. L'intreccio fra queste due realtà crea un ibrido molto interessante che riesce – pur con gli inevitabili assestamenti del caso – a preservare l'irriverenza di sguardo di tutte le personalità coinvolte e a produrre interessanti applicazioni delle rispettive formule cinematografiche.

L'aspetto più interessante, però, non sta tanto nel riconoscere i tratti di volta in volta riconducibili a questa o quella concezione del comico: il gioco diventerebbe infatti presto meccanico e insoddisfacente. Al contrario, ciò che ci interessa è notare come le medesime gag riescano a trarre forza dalla risonanza prodotta dalle due differenti concezioni, risultando in tal modo rafforzate e capaci di abbattere ogni barriera culturale per diventare momenti di cinema più composito e universale. Pertanto, se la critica antireligiosa può tranquillamente iscriversi al filone esistenziale di Mottola/Rogen in quanto elemento tipico della complessa realtà americana (spesso nei film di questi due autori c'è un ostacolo sociale da superare, frutto di una sedimentazione culturale nel subconscio di massa), allo stesso modo esso diventa stereotipo tipico di una realtà da irridere attraverso l'arma del paradosso: e qui si ricade pienamente nel campo di Pegg e Frost, che attraverso capolavori assoluti come Shaun of the Dead e Hot Fuzz hanno dimostrato di saper condurre l'arma della parodia a livelli di assoluta perfidia satirica e di grande portata ludica.

L'ibrido più grande che il film viene così a creare è fra quella tensione al reale cara a Mottola/Greg e la sua rilettura attraverso il filtro della cultura pop di cui è intriso l'immaginario di Pegg e Frost. I due infatti, dopo aver riletto genialmente l'horror romeriano e l'action poliziesco, qui danno il loro contributo alla causa del fantasy e della sci-fi, sempre dalla prospettiva “dal basso” fornita da personaggi che appaiono incapaci di fronte alle sfide che la vita pone loro di fronte, ma che poi si rivelano invece le persone giuste.

Ecco dunque che il film diventa una ricognizione attraverso l'immaginario ufologico, diventato elemento della cultura pop, e crea un linguaggio trasversale che investe luoghi reali (quelli visitati dai due negli Stati Uniti), fumetti, romanzi e, naturalmente, cinema. Il nume tutelare principale è naturalmente Steven Spielberg, chiamato in causa con un esplicito cameo vocale (nella scena in cui lo vediamo ricevere da Paul l'idea per E.T.) e citato letteralmente attraverso la clonazione di alcune inquadrature precise dello stesso E.T. nel finale.

La figura di Paul diventa così il paradigma di questa volontà di sintesi esercitata dagli autori: la sua stessa natura si pone metà strada fra la realtà di una figura che fuma, impreca e possiede vizi fin troppo “umani”, e l'irrealtà di una consistenza digitale che ne rimarca la natura iconica, figlia di un condensato di leggende popolari e cultura pop. E' esemplare a questo proposito la scena in cui il nostro si finge un gadget di un negozio specializzato, risultando perfettamente credibile nella parte. Paul diventa così la figura che allo stesso modo rimette in gioco un filone, lo riforgia letteralmente rivitalizzando alcune figure retoriche dell'immaginario cinematografico legato agli alieni (il tocco guaritore), ma anche quella che riesce a far suo il tono irriverente e sopra le righe della commedia americana moderna. Il perimetro che le sue gesta vengono a iscrivere è così sia cinematografico che squisitamente reale e capace di parlare di vezzi, vizi e passioni dell'umanità.

Da recuperare in versione originale, tralasciando il pessimo doppiaggio italiano.


Paul
(id.)
Regia: Greg Mottola
Sceneggiatura: Simon Pegg e Nick Frost
Origine: Usa/Uk, 2011
Durata: 104'

lunedì 6 giugno 2011

Il discorso del Re

Il discorso del Re

Inghilterra, 1925. Albert, secondogenito di Re Giorgio V, non riesce a leggere un discorso pubblico a causa della sua balbuzie. Nel tentativo di risolvere un problema che quasi gli impedisce di comunicare anche con i familiari, viene convinto da sua moglie Elizabeth a rivolgersi a Lionel Logue, un australiano che utilizza metodi non ortodossi. Nel frattempo Albert è stretto fra vicende personali e storiche che richiedono da parte sua un sempre maggiore coinvolgimento: suo fratello David sale infatti al trono alla morte del padre, ma è invaghito di una donna divorziata e arriva ad abdicare pur di non abbandonarla come previsto dalle rigide regole del cerimoniale di corte. Inoltre l'avanzata del nazismo spinge l'Europa verso l'ineluttabile baratro di un nuovo conflitto mondiale. Serve un Re che sappia prendere decisioni difficili e unire il popolo con i suoi discorsi.


La solitudine del potere è il fulcro di una vicenda che esplora la dimensione pubblica di una figura storica attraverso l'indagine del suo privato. Tutta la complessa architettura di un film come Il discorso del Re è infatti articolata attraverso l'esplorazione del complesso rapporto che intercorre fra l'evidenza e i suoi retroscena, fra la forma e la sostanza che genera la stessa. Non a caso lo stile prediletto dal regista Tom Hooper sfrutta in più momenti il grandangolo, come ad evidenziare il tentativo di restare distanti dai personaggi pur avvicinandoli, esattamente nel modo in cui il suo alter ego Lionel diventa amico personale del Re, ma mantenendo sempre quella distanza fisica imposta dal cerimoniale.

Questo difficile rapporto tra forma e sostanza non è causale, se consideriamo il momento storico in cui la vicenda si iscrive: gli Anni Trenta infatti profumano di un passato che è però già moderno e capace perciò di riverberare i conflitti mediatici dell'epoca a noi più vicina. La guerra diventa quindi un affare che coinvolge non soltanto le nazioni e i campi di battaglia (lasciati fuori dalla narrazione), ma soprattutto le piccole stanze dove si declamano i discorsi davanti al microfono. Di fronte a questa complessa macchina statale che diventa mediatica, la figura del Re è altrettanto scissa fra una dimensione pubblica che impone una rigida serie di impegni e regole, e una debolezza profondamente umana che denuncia la natura del suo travaglio interiore. A provocare il punto di rottura che permetta agli opposti di coesistere nella sintesi è, non casualmente, un attore, una figura capace cioè di comprendere le forzature imposte dalla messinscena, ma anche un uomo scaltro e attento nel capire per primo le capacità politiche e l'abilità del suo paziente, spingendolo a cercare la via che lo porterà sul trono in luogo del più debole fratello.

Tutto il percorso è comunque segnato dalla presenza di figure ed eventi che rivelano sempre un segreto, una sostanza differente rispetto a ciò che appare. A volte questa differenza provoca delle fratture (come accade con David e la corona), altre volte invece finisce suo malgrado per evidenziare la forza d'animo che il personaggio deve cercare in sé per affrontare le sfide enormi che la vita e la Storia gli pone di fronte. E' interessante a questo proposito notare come i casi di David e Albert siano omologhi anche rispetto al rapporto con il cerimoniale, per entrambi limitativo: l'uno infatti è costretto ad abdicare perché incapace di far fronte alle rinunce imposte dal ruolo e quindi decide di cedere alle proprie umanissime debolezze ed emozioni; l'altro, invece, proprio grazie alla deroga imposta al cerimoniale (attraverso la consulenza di un logopedista che non è un medico e non possiede le referenze richieste dalla prassi), riesce a interpretare alla perfezione il ruolo che gli viene chiesto. Appare in questo senso evidente come la cifra mediatica posta in essere dalle dinamiche storico-belliche finisca naturalmente per implicare l'accettazione di una percentuale di finzione, la stessa riassunta perfettamente nella scena finale del discorso, in cui Albert declama le parole davanti al microfono in una stanza chiusa e arredata per l'occasione in modo da favorirgli la concentrazione, salvo farsi fotografare successivamente sulla scrivania d'ordinanza cara al protocollo.

La forza del film è tutta in questi piccoli scarti, che determinano una sostanza fatta di sentimenti in una storia che si pone apparentemente come algida e sovrastrutturata nella ricostruzione formale di un determinato tempo e luogo, dove i volti cercano l'aderenza fisica ai modelli e il tono da “cinema da camera” pare appiattire la forza drammatica di alcuni momenti. In realtà si lavora sul particolare, come i piccoli/grandi segreti che avvicinano e allontanano i personaggi, nessuno escluso. Lionel, ad esempio, è spinto a non rivelare la natura del suo cliente persino alla moglie, per non infrangere la segretezza che naturalmente deve circondare una figura della famiglia reale.

Albert è dunque il fulcro di queste forze contrapposte e non a caso a lui toccano le prove più dure da superare: il problema che ne condiziona la vita pubblica lo limita pertanto anche nel privato, perché gli impedisce una comunicazione serena con le amate figlie. Proprio il mancato abbraccio delle due bambine che si inchinano al suo apparire dopo l'investitura a Re (anteponendo il suo ruolo pubblico a quello privato di padre) è dopotutto il momento più autentico e toccante di questa parabola sulla solitudine del potere, ancor più del climax finale in cui si compie la circolarità evocata dal titolo: quella che vede il discorso assurgere tanto a indice rivelatore dei problemi di Albert (come evidenziava la drammatica scena iniziale) quanto a obiettivo ultimo da raggiungere per la sua maturazione come uomo e regnante.

La delicatezza degli equilibri che il film pone in essere non risparmia naturalmente alcune evidenti sbavature: se la figura di David appare infatti poco approfondita, il momento più controverso appare proprio quello del discorso finale che, seppur costruito con indubbia tensione, finisce suo malgrado per deviare l'attenzione dalla sostanza delle parole pronunciate da Albert nel suo discorso, riducendo tutto alla difficoltà puramente meccanica del pronunciare. Il pubblico è così spinto a parteggiare per il protagonista perché vinca il suo difetto di pronuncia, senza però riflettere attentamente sulla drammaticità enunciata da quelle righe. Non a caso il finale appare lieto, laddove si tratta in fondo dell'atto che evidenzia e legittima il nascere di un conflitto mondiale. Non a caso a distribuire il film negli States è la furbissima Weinstein Company.

A riportare merito al tutto ci pensa comunque la bontà delle performance di un'ottima Helena Bonham Carter e, naturalmente, di un eccellente Colin Firth (da ascoltare rigorosamente in versione non doppiata), la cui voce nasale è peraltro perfetta nell'evidenziare la naturale inadeguatezza al ruolo di un personaggio che vorrebbe essere uomo ma deve invece essere Re. Solo un grande attore poteva riuscire a sembrare inadeguato nell'adeguatezza.


Il discorso del Re
(The King's Speech)
Regia: Tom Hooper
Sceneggiatura: David Seidler
Origine: Uk/Australia, 2010
Durata: 114'

venerdì 3 giugno 2011

Il Nido sull'Asteroide

Il Nido sull'Asteroide

Si allargano gli orizzonti del Nido, che da oggi inizia una collaborazione con Anime Asteroid, il blog gestito dagli amici Jacopo Mistè e Simone Corà e incentrato sull'analisi a tutto campo dell'animazione giapponese. Il blog di Jacopo e Simone è una realtà piccola ma felice nell'ambito del complesso rapporto fra gli anime e il nostro paese, e ha lo scopo ambizioso di rappresentare una guida imprescindibile per gli interessati, sottraendo preferibilmente l'argomento alle sterili argomentazioni che infestano molti ambiti specializzati, in nome di un'analisi seria e il più completa possibile. Per esperienza sono ben conscio delle difficoltà collegate a un simile obiettivo e dunque l'iniziativa è più che lodevole e merita di essere supportata, ragion per cui ho accettato con piacere la proposta.

La collaborazione mira a riproporre su Anime Asteroid le varie recensioni di anime già postate qui sul Nido, e naturalmente comprenderà anche quelle a venire. Una sorta di “unione fa la forza”, ma anche un'occasione di confronto più allargata con appassionati specifici del settore, nel pieno rispetto dei punti di divergenza e delle personali prospettive da cui saranno di volta in volta inquadrati i lavori.

Si inizia oggi con Mobile Suit Gundam e le recensioni di volta in volta riportate saranno linkate qui sotto in un elenco aggiornato continuamente. Buona lettura di entrambi i blog!

Le mie recensioni su Anime Asteroid: