"C'è chi crede in dio o nel denaro. Io credo nel cinema, nel suo potere. L'ho scoperto da ragazzino, mi ha aiutato a fuggire da una realtà in cui ero infelice. È una delle forme d'arte più alte che l'uomo ha concepito. Credo nel suo futuro."
(John Carpenter)

mercoledì 28 dicembre 2011

La luna di Cybertron

La luna di Cybertron

Tempo addietro avevo annunciato di voler aprire una nuova etichetta dedicata ai Transformers, che continuo a ritenere uno dei fenomeni pop più significativi della nostra era: c'è voluto molto tempo, e alla fine l'idea ha preso una forma diversa, è cresciuta e si è concretizzata nel mio nuovo blog, che si affiancherà al Nido senza sostituirlo: La luna di Cybertron, partito ufficialmente il 21 dicembre. Mi sono infatti reso conto di voler tentare un approccio differente, meno critico e più divulgativo, con news, curiosità e informazioni sul variegato mondo dei robot trasformabili della Hasbro, in modo che la sua complessità sia resa non mediante l'analisi, ma attraverso l'evidente varietà di spunti che questo universo naturalmente offre. Per questo la struttura stessa è pensata per essere complementare a quella del Nido, con post brevi e di impatto, arricchiti da video e foto, per fornire una guida all'argomento prima ancora di immergere i lettori in post critici lunghi. Consideratelo d'ora in poi come l'altra faccia della mia attività.

Il periodo delle feste è dedicato al rodaggio, con l'intenzione di andare a regime da gennaio. Se siete interessati all'argomento dateci un'occhiata, altrimenti fate girare la voce!


domenica 25 dicembre 2011

Buon Natale!

Buon Natale!

Tanti auguri di Buon Natale a tutti. Semplicemente, per una volta. Perché a volte conviene fermarsi ed elaborare, pensando magari ai progetti in corso e a quelli da mettere ancora in cantiere! E anche perché, in periodi turbolenti come questo che il mondo attraversa, la semplicità può essere il modo migliore per affrontare le sfide! Dunque auguri e a presto con i nuovi aggiornamenti!


giovedì 22 dicembre 2011

Real Steel

Real Steel

Nel 2020 i combattimenti fra umani sono stati sostituiti da gare fra robot, in grado di assicurare maggiore spettacolarità. Charlie Kenton è un ex pugile che non ha saputo sfruttare la sua chance e ora si arrangia partecipando a gare di “robot boxing” con i giganti meccanici che riesce ad assemblare, ma le cose non gli vanno troppo bene. Oberato dai debiti e sempre alla ricerca di un nuovo ingaggio, Charlie si ritrova anche costretto a badare per un'estate al figlio che non ha mai voluto seguire e che ora a 11 anni, è rimasto senza madre e deve passare sotto la custodia degli zii. Il ragazzo, Max, pur mostrandosi scontroso verso il genitore, si appassiona agli incontri di “robot boxing”, ancor più quando, in una discarica, recupera Atom, un robot di vecchia generazione che decide di far combattere. Per far questo, però, occorre che Atom sia allenato da un esperto come Charlie...


All'indomani di Transformers era logico aspettarsi che il genere dei robot giganti dilagasse nel pur vasto mare di offerte hollywoodiane, ma a conti fatti il solo Steven Spielberg sembra voler continuare a premere perché gli automi restino centrali nell'immaginario delle nuove generazioni. La sua missione non è soltanto regalare un infantile divertimento, ma al contrario (ri)edificare una neo mitologia che strappi al Giappone quella preminenza da sempre detenuta all'interno di questo tipo di storie. Non appare pertanto casuale che Real Steel ponga in essere proprio un discorso di appartenenze e di aderenze a modelli distanti dalla propria cultura. L'ispirazione è un racconto di Richard Matheson, già trasposto come secondo episodio della quinta stagione di Ai confini della realtà: una scelta non casuale, soprattutto in virtù che proprio da un altro racconto dello stesso scrittore Spielberg aveva compiuto il grande passo verso il successo, quando, nel 1972, aveva diretto lo splendido Duel.

Una simile suggestione si va dunque a sovrapporre a un altro riferimento, ravvisabile nel nome Atom, che ci riporta a Astroboy, primo robot dell'animazione giapponese, creato da Osamu Tezuka. I riferimenti al Giappone nel film sono molto precisi, si va dall'automa Noisy Boy (che, non casualmente, ascolta solo gli ordini nella lingua dell'Est e deve perciò essere settato su quella americana) al nemico finale, lo zeus di Tak Mashido. Alla spinta innovatrice dell'Est, il film oppone una visione conservatrice (nel senso non deteriore del termine) che si rifà ai valori fondanti della cultura americana: senso dell'individualismo che spinge a dare il massimo per la vittoria, ma anche dell'appartenenza a un luogo (la palestra), a una comunità (la famiglia e il figlio), a un percorso di vita (lo sport).

Narrativamente, questo intento permette al film di procedere lungo coordinate codificate, che guardano a icone americane come Sylvester Stallone: appare alquanto evidente, infatti, che il film segua in maniera molto precisa due opere dell'attore americano, Over the Top, per il rapporto padre/figlio cementato da una condivisione d'intenti e di ideali sportivi che si oppone alle mire di una famiglia che intende separarli; e poi Rocky, su cui è praticamente costruita tutta l'architettura della parte finale, con l'estenuante combattimento fra Atom e Zeus. Nel rendere puramente americana l'avventura del robot, inoltre, Spielberg innesta la componente della condivisione e della comprensione, centrali già nel primo Transformers: Charlie deve così condividere il destino del suo robot, guidandone semplicemente i movimenti.

Ma questo rapporto padrone/esecutore lentamente si smarca dalla semplice sudditanza e prende la forma di una simbiosi: la storia non a caso gioca con la possibilità che Atom possa essere realmente dotato di una sua volontà. E' un'ipotesi cui sembra credere ciecamente lo stesso Max, ma che non viene mai confermata del tutto. Ciò che invece conta è il progressivo avvicinamento fra l'uomo e la macchina, che procede in parallelo a quello fra il padre e il figlio: i due imparano a conoscersi e apprendono dettagli dei rispettivi passati che li rendono meno prigionieri di un ruolo e sempre più persone destinate a formare un nuovo legame, pur sulla matrice storica, sociale e culturale che l'istituzione-famiglia inerzialmente impone (Max è convocato per redigere formalmente l'atto con cui rinuncia alla patria potestà e questo innesca la storia).

Pertanto, Atom diventa il fulcro di una triangolazione fra due differenti persone (Charlie e Max) e altrettanti immaginari: quello del giovane tifoso che sogna l'avventura fantastica esaltandosi di fronte ai giganti meccanici; e quello dello sportivo tradizionale che deve riscoprire il gusto per la tecnica, andando ben presto oltre l'entertainment puramente tecnologico. Il percorso è articolato lungo una logica progressiva: si va dal classico telecomando, al comando manuale, fino al finale in cui – sfruttando la capacità di Atom di riprodurre i movimenti – Charlie letteralmente “combatte” a bordo ring la partita della vita, che l'automa riprende in modo succedaneo fra le corde.

La sovrapposizione di vite e iconografie arriva dunque a compimento e perciò Real Steel riesce a raggiungere la sintesi fra le suggestioni differenti da cui è generato: un po' film di fantascienza e un po' classico racconto sportivo, diventa un film puramente americano, pur con suggestioni orientaleggianti. La regia di Shawn Levy si dimostra perfettamente professionale e al servizio della storia, riuscendo a conferire al tutto quella giusta medietà da prodotto di massa, capace perciò di esaltare i concetti più complessi all'interno di una confezione perfettamente fruibile.


Real Steel
(id.)
Regia: Shawn Levy
Sceneggiatura: Leslie Bohem, John Gatins (soggetto di Dan Gilroy, Jeremy Leven, basato sul racconto Steel di Richard Matheson)
Origine: Usa, 2011
Durata: 127'


martedì 20 dicembre 2011

Midnight in Paris

Midnight in Paris

Gil è uno sceneggiatore hollywoodiano stanco del suo lavoro e che vorrebbe fare un salto di qualità realizzando finalmente un romanzo. La sua relazione con Inez risente di queste frustrazioni, poiché la ragazza lo ritiene un eterno indeciso con il mito nostalgico degli anni Venti e, durante un loro viaggio a Parigi, gli preferisce la compagnia di John, un amico sempre pronto a fare sfoggio della sua erudizione. Una sera, rimasto solo mentre passeggia per le vie di Parigi, Gil si ritrova per magia negli anni Venti e ha così modo di conoscere Francis Scott Fitzgerald, Ernest Hemingway, Salvador Dalì, Pablo Picasso e Gertrude Stein, alla quale chiede consigli per il suo romanzo. L'euforica esperienza lo porta in breve a dedicare le giornate alla scrittura e le notti alle avventure nel passato.


Mi piace pensare a Woody Allen che, fra una session di jazz e una passeggiata per le vie delle sue città predilette, si fa venire in mente l'idea di Midnight in Paris, stimolato dai continui commenti dei nostalgici delle sue prime opere, sempre lì a rinfacciargli una certa stanchezza registica e a fare paragoni con il passato. Non che il film sia animato da chissà quale intento “vendicativo”, si badi, perché Allen è autore troppo raffinato per star dietro a queste mie fantasticherie: eppure è un dato di fatto che l'anti-elogio della nostalgia (quella acritica peraltro) sia il fulcro della storia, ma soprattutto l'epicentro di un più stratificato discorso sui tentativi che l'uomo (e spesso anche l'arte) fanno di “fermare il tempo” in un eterno presente che sia sovrapposto perfettamente ai dettami del passato.

Conseguentemente il passato diventa non solo la matrice del presente, ma anche l'alibi più facile per sdoganare se stesso nell'attualità: il riferimento principale non è al sognatore Gil, ma all'erudito personaggio dell'ottimo Michael Sheen, che fa sfoggio di sé e ammalia le donne in virtù della sua conoscenza delle opere del passato. In realtà il gioco riesce bene perché Allen immerge i suoi personaggi in un sistema di riferimenti che è emblema della cristallizzazione, giocando volutamente con un certo effetto cartolina giocoforza necessario alla sua fiaba per prendere corpo. Il film può dunque essere visto come un sottilmente ironico atto di elegia verso la città di Parigi e l'immaginario che essa naturalmente evoca, la sua funzione di polo attrattore del turismo culturale, per i musei, i palazzi e anche i paesaggi resi celebri dai quadri di Monet.

Non appare perciò casuale il fatto che a districarsi dalle maglie di uno spazio che riverbera se stesso in quanto emblema delle rappresentazioni passate sia un uomo doppiamente scentrato come Gil: che è americano e dunque perfettamente dentro le logiche di fascinazione che solo il turista può provare per un'altra città; ma è anche uno scrittore, dunque una figura che conosce i meccanismi dell'affabulazione ed è abituato a rielaborare e filtrare la realtà per arrivare all'immaginario. A lui spetta il compito di incarnare la moderna Cenerentola che non deve tornare al ballo entro la mezzanotte, ma che al contrario proprio allo scoccare della stessa ora può iniziare il suo viaggio fantastico fra le ere.

Il passaggio “attraverso lo specchio” di Gil è concertato da Allen con la levità del giovane sognatore, che applica al suo protagonista un'espressione perennemente stupita e capace di trasmettere un senso della meraviglia alquanto sconosciuto a chi gli sta vicino. Ma anche con una vena più oscura, dove la caratterizzazione dei personaggi storici, da Fitzgerald a Dalì, gioca tanto con quella che è l'opinione codificata degli stessi, quanto con un sottile gusto dissacratorio che sfiora il macchiettismo. A tratti si ha l'impressione di assistere a un racconto di fantasmi, di anime imprigionate in un tempo nel quale non si riconoscono, in una girandola di situazioni che – a vari livelli temporali – evocano sempre lo stesso atteggiamento insoddisfatto, una sorta di eterna danza della morte alla Carnival of Souls. In questo Allen dimostra l'atteggiamento tipico dell'uomo di esperienza, che sa dunque giocare con la materia che crea fascinazione, ma al contempo sa anche ridimensionare la stessa mettendone in scena le fragilità, spesso profondamente umane (tacendo di autentiche venature negative, evidenti in vizi come collericità o alcolismo).

Pertanto Midnight in Paris riesce a funzionare sia come fiaba, sia come monito al rapporto di ogni persona con il tempo (proprio e altrui), in un gioco di riferimenti interni e esterni che diverte e affascina, ma allo stesso tempo sa mettere in scena riflessioni non banali, pur apparendo semplicemente ameno: merito di uno stile classico e dunque capace di gestire l'andirivieni temporale in modo diretto e lineare, lavorando però sulle sfumature. A questo vanno aggiunti un Owen Wilson finalmente in parte e capace di riscuotere le simpatie dello spettatore, un eccellente lavoro di casting in generale, e la bella fotografia di Darius Kondji, uno che di creare atmosfere fantastiche con la luce se ne intende!

La risoluzione di tutto ciò è il tentativo del protagonista di affrancarsi dalle due realtà in cui è imprigionato, passeggiando sotto una pioggia che letteralmente lava via quell'aura patinata che staziona fra le immaginarie feste del passato e l'itinerario turistico e lo sfarzo degli interni prediletti dai suoceri (e dall'ingrata fidanzata) nel presente. Punto di partenza ideale per nuove vite e storie, come testimonia l'incontro finale.

In definitiva ci voleva un giovane vecchio come Woody Allen per creare una fiaba così stimolante, e capace – con l'arma dell'ironia – di dirci molte più cose sul presente di quanto non si creda. Chi fa finta di non accorgersi del suo valore vive fuori dal tempo: chissà, forse proprio nel passato.


Midnight in Paris
(id.)
Regia e sceneggiatura: Woody Allen
Origine: Francia/Usa, 2011
Durata: 100'


lunedì 19 dicembre 2011

Melancholia

Melancholia

Due sorelle: Justine e Claire. La prima è nel giorno del suo matrimonio, circondata dai familiari e con un marito che l'ama con tutto se stesso. Ma lei è inquieta, si aggira nervosa per casa, scappa dalla festa e lascia che il suo male di vivere lasci naufragare tutta. L'altra è apparentemente più razionale e stabile nel suo ménage familiare: ma anche lei vive un'inquietudine, per un fenomeno astrale gravido di conseguenze catastrofiche. Gli astronomi hanno infatti individuato un nuovo pianeta, Melancholia, la cui orbita potrebbe portarlo a collidere con la Terra.


Sembra quasi di avere a che fare con due differenti Kirsten Dunst: la prima è bellissima nel suo abito da sposa, la macchina da presa la scruta fin quasi a entrarle nei pori della pelle, in cerca di quella crepa che possa rivelare il travaglio che il suo personaggio attraversa nell'animo. Ma quella crepa non c'è, il suo male è tutto interiore e si estrinseca attraverso azioni lente ma implacabili, che arrivano a rompere la perfetta orchestrazione della cerimonia. A volte queste imperfezioni sono quasi dei piacevoli detour, come accade quando la limousine si incastra in una strettoia e i due sposini accolgono la cosa con un gusto quasi infantile per il fuori programma che ha concesso un'inedita occasione di divertimento.

E' in questi momenti che si pensa alla possibilità di un destino condiviso, poi destinata a naufragare di fronte alla convinzione che di fronte al male si è soli. Le imperfezioni diventano così fenditure profonde, che corrompono l'armonia della festa e rivelano in modo definitivo la scissione fra la perfezione esteriore - quella dei parenti composti a tavola - e una realtà fatta di sorelle “che si odiano”, madri che vomitano il proprio disprezzo e una sposa che si allontana sempre più, fino a far coincidere l'assenza fisica con quella mentale.

E poi c'è l'altra Kirsten, sfatta, scarmigliata, ma ancora doppia: in questo caso infatti il suo malessere è più esteriore che interiore, perché l'avvento della collisione astrale sembra lasciarla indifferente, quasi compiaciuta del fatto che il cosmo stesso stia sostanzialmente concretizzando quella tensione distruttiva che conduce al nulla, già compiuta dal suo animo. Adesso sembra quasi che il personaggio possa condividere la sua esistenza con qualcuno, è una sorta di fantasma che però la famiglia metabolizza in modo quasi organico, nonostante le crisi e i malesseri del caso.

Si rovescia in questo modo anche il ruolo della sorella Claire, prima perfetta orchestratrice della festa e poi invece vittima implacabile dell'angoscia che la porta a soffrire per il destino ineluttabile del pianeta. Il marito la segue, l'accompagna e la istruisce sul percorso che le stelle e i pianeti stanno compiendo e ancora una volta abbiamo la sensazione che sia possibile condividere un destino, fino al rivolgimento finale in cui l'uomo abbandona fisicamente questo mondo per l'improvvisa presa di coscienza di quanto sta per accadere.

Melancholia è questo, dunque, un progetto tanto complesso nei riferimenti interni e nella dialettica delle parti, quanto sorprendentemente vero e diretto nel riuscire a trasmettere la forza dei sentimenti che mette in ballo. Che non sono semplici e schematici però, perché nell'adesione ai tormenti dei personaggi, Von Trier riesce allo stesso tempo a farci percepire una sorta di assolutamente atipico ideale di bellezza, fra citazioni artistiche e un certo senso di definitivo che rende il tutto solenne nella sua, per l'appunto, malinconia: e questo accade già dal ralenti iniziale, dove siamo messi a conoscenza del destino del mondo, in una sintesi che al prologo di morte di Antichrist oppone una visione cosmologica su note wagneriane che sembra quasi una sorta di risposta al Kubrick di 2001 o, ancor più, al Terrence Malick di Tree of Life. In effetti è alquanto intrigante pensare a Melancholia come a una sorta di antitesi dell'opus magnum dell'autore americano. In entrambi i casi la riflessione parte dalla cellula base della coesione sociale (la famiglia) per poi spostarsi su un piano planetario, e viene iscritta in una complessa e spesso indecifrabile simbologia che, come un gioco di cerchi concentrici, chiama in causa ulteriori conflitti: padre contro madre, uomo contro donna, dovere contro festa, arte contro magia.

Alla fine, a suo modo, la bellezza trionfa perché la sintesi di questi scontri si ritrova nella devastazione catastrofica che però vede le sorelle riunite e per la prima volta destinate a condividere lo stesso destino, nella intelaiatura di una impossibile capanna/rifugio: cadute le convenzioni, caduta la razionalità, sconfitta la scienza, l'irrazionale ha il sopravvento, ma stavolta fra il regno del Caos e quello degli uomini si fa largo un barlume di bellezza che fa coincidere la fine con la gloria.


Melancholia
(id.)
Regia e sceneggiatura: Lars Von Trier
Origine: Danimarca/Germania/Francia/Svezia, 2011
Durata: 130'


lunedì 5 dicembre 2011

Torino 2011: End of Days

Torino 2011: End of Days

Scorrono le cifre alla fine dell'evento e come sempre sono positive, fra incrementi di pubblico e accreditati, ma altrettanto puntualmente questi dati - figli di chi crede che tutto debba avere un peso, una misura, e l'arte si debba sempre e comunque confondere con il consenso e la propaganda - qui risultano poco interessanti. Ciò che conta è il progetto e quello del Torino Film Festival è, oltre che solido, ormai consolidato grazie a un formato capace di essere dinamico ma al contempo strutturato secondo un'organizzazione rigorosa. E' passato ormai un lustro dai controversi fatti che hanno cambiato la squadra di lavoro (con l'avvicendamento di due direttori, Nanni Moretti prima e Gianni Amelio ora) e oggi si può affermare che, pur con le riserve per il modo con cui fu gestita la cosa e le ingerenze dall'alto, il cambiamento ha fatto bene a una manifestazione che ha saputo mantenere la barra, ritrovando la sua tradizione e abbandonando le umoralità modaiole del momento.

Oggi possiamo scriverlo con sincerità: non servono le figure pittoresche alla Ivan Cardoso, né le retrospettive estemporanee con i micro-omaggi alla Hammer o al gotico europeo, realizzate con l'ansia del “buttare dentro” quanta più roba possibile e senza una logica. Servono invece spazi come “Onde” o “Rapporto confidenziale” (in assoluto i più stimolanti) grazie ai quali scoprire e studiare autori come Eugène Green e Sion Sono, perché i loro Le pont des arts e Be Sure to Share sono state fra le folgorazioni del festival. Allo stesso modo è sempre utilissimo il lavoro delle retrospettive: non credo esistano altri festival così grandi e capaci di unire alla dimensione di massa un lavoro così raffinato e completo sulla memoria, fatto non solo della riproposizione dei film, ma di volumi integrativi, convegni, incontri con chi quel cinema lo ha fatto, lo ha vissuto e lo può condividere con il pubblico.

Il Torino Film Festival, insomma, è ancora giovane dentro, ma nel complesso è diventato grande, più maturo, perché fa ricerca e promuove cultura, ed è anche capace di essere “poroso” quel tanto che basta per interessare, stuzzicare e attirare ogni tipo di utenza. Ormai sotto la Mole c'è tutto: il glamour delle serate inaugurali e delle feste finali, le anteprime dei Kaurismaki, Allen, dei film con i divi Brad Pitt e George Clooney e la scoperta dei talenti di Taiwan (l'Hung-i Chen di Honey Pupu) o degli Usa (il Clay Jeter di Jess + Moss), con un concorso che sarà pure opinabile in alcune scelte, ma ha il coraggio di spaziare dal minimalismo del vincitore islandese Either Way, di Hafsteinn Gunnar Sigurdsson (purtroppo non visto e da recuperare) ai toni pop dell'inglese Attack the Block di Joe Cornish.

Il tutto in una struttura con poche pecche: proiezioni sempre puntualissime, variazioni di programma ridotte al minimo, incastri abbastanza agevoli grazie a una buona distribuzione fra le sale (qualcosa va sempre perso, è inevitabile, ma i percorsi possono essere ritagliati con una certa tranquillità), servizio di sbigliettatura funzionale: certo, servirebbero ancora più sale (o sale più grandi), il ripristino del servizio di navette e bisognerebbe tenere conto che non si può proporre un film di Werner Herzog nel minuscolo Greenwich 3 perché è chiaro che a quel punto resterà fuori parecchia gente: ma si tratta più che altro di limature in un sistema che funziona - magari qualcuno ricorderà i giganteschi tabelloni con le variazioni di programma nei decenni precedenti o i ritardi che si accumulavano e le file che non si smaltivano.

Cosa augurare dunque a questo festival? Di proseguire su questa strada senza tentare sciocchi stravolgimenti della formula, perfezionando l'ottimo lavoro di ricerca svolto sinora dallo staff. Se sarà così, il futuro non dovrà mai temere il confronto con il passato (viene ancora in mente quanto racconta il bellissimo Midnight in Paris di Woody Allen) e l'essenza del TFF resterà sempre attuale, seppure profondamente radicata nella tradizione e nell'anticipazione. Un festival moderno, insomma: il resto - le polemiche che impazzano sui quotidiani che non hanno nulla da dire e le attese dei politici che dovrebbero soltanto tacere – è un orpello che ronza come la più fastidiosa delle mosche.

Infine il consueto gioco della memoria relativo alle “immagini” che questo festival ci ha consegnato: su tutte il contrasto fra la forza selvaggia dei film e i gesti eleganti ed essenziali di Sion Sono, che a ogni presentazione salutava il pubblico togliendosi elegantemente il cappello; poi tre volti maschili: quello ironico nella sua malinconica sofferenza di Joseph Gordon Levitt in 50/50 di Jonathan Levine; quello sorpreso e appassionato di Owen Wilson in Midnight in Paris; quello di André Wilms in Miracolo a Le Havre di Kaurismaki, che annuncia imperturbabile al direttore del carcere di essere il fratello albino di un detenuto di colore. E poi tre volti femminili: quello dolente di Natacha Régnier in Le pont des arts, quello tormentato di Chiara Mastroianni in Les bien-aimées di Christophe Honoré e quello sul punto di scoppiare in lacrime di Susan George in Cane di paglia di Sam Peckinpah. Volti che sono storie e emozioni, quelle che è bello ritrovare ogni anno in questo festival.

domenica 4 dicembre 2011

Torino 2011: Day 9

Torino 2011: Day 9

Gli ultimi fuochi del Torino Film Festival vedono ancora le 11 sale cittadine lavorare a pieno regime per proporre i nuovi titoli di Francis Ford Coppola (dopo l'anteprima stampa di ieri), Alexander Payne e Rodrigo Garcia: il percorso giornaliero di questo resoconto è però diverso, focalizzato su opere che corteggiano il lato fantastico, dopo l'abbuffata di realismo degli ultimi giorni. Si inizia con uno dei più controversi film di Robert Altman, quel Popeye che nel 1980 tentava la difficile impresa di portare in Live Action il mitico Braccio di Ferro, grazie a una rosa di attori di straordinaria aderenza ai modelli originali (Robin Williams come Popeye e Shelley Duvall come Olivia). Un musical pop dove domina il tentativo di riprodurre a menadito la comicità slapstick dei corti animati realizzati dai fratelli Fleischer negli anni Trenta, insieme ad alcune caratteristiche tipiche della versione originale del personaggio, così come forgiato dai fumetti di Elzie Crisler Segar: parlata “sgrammaticata”, grande senso dell'onore e una forza che non ha necessariamente bisogno dei celebri spinaci. Il risultato è originalissimo, non del tutto riuscito, e non merita certamente l'embargo che attualmente circonda il film, assente da tantissimo tempo dalle nostre tv e ancora inedito in DVD. Si prosegue con "Festa Mobile" e Intruders, il nuovo horror di Juan Carlos Fresnadillo, già regista di 28 settimane dopo, che racconta le imprese di un “uomo nero” chiamato Hollow Face (Senza Faccia) che dagli armadi perseguita i bambini che ne raccontano le imprese, in un gioco di intrecci fra vite e storie. La confezione è coerente con molto cinema fantastico spagnolo degli ultimi tempi (viene in mente il primo Balaguerò) e rinnova il tema dell'invasione dello spazio domestico già sottolineato nei precedenti giorni. Tuttavia, pur funzionando dal versante prettamente “atmosferico”, il film non abbandona un certo senso di artificiosità, senza contare uno sviluppo molto prevedibile. Infine c'è ancora spazio per la Francia, con Dernière Séance (sempre "Festa Mobile"), di Laurent Achard, che racconta gli ultimi giorni di un cinema dove si proietta French Cancan di Jean Renoir sotto la gestione di un novello Norman Bates, che uccide giovani donne per adornare con i loro orecchi le foto delle dive amate dalla madre. Il modello dichiarato peraltro è anche L'occhio che uccide, di Michael Powell, per il riferimento alla dimensione voyeuristica e al gioco di rispecchiamenti fra realtà e finzione, ma l'insieme, seppur non particolarmente incisivo, è interessante soprattutto come racconto di una fine che ci si ostina a ignorare, un sentimento che ogni appassionato di cinema ha provato almeno una volta di fronte alla chiusura della propria sala preferita. Ed è bello pensare che i sentimenti evocati da un simile film si intreccino a perfezione alla malinconia per una manifestazione giunta al termine anche per quest'anno. Dopo i resoconti giornalieri è tempo del bilancio finale, rimandato però al pezzo conclusivo.

sabato 3 dicembre 2011

Torino 2011: Day 8

Torino 2011: Day 8

Chi frequenta i festival di cinema sa bene che un film a sorpresa spesso può non essere veramente tale, ma quando è arrivata la notizia che Torino tirava fuori dal cilindro nientemeno che l'ultimo, attesissimo, Twixt di Francis Ford Coppola il pensiero è stato unanime: stavolta la sorpresa si può dire riuscita! Ed è addirittura doppia se consideriamo che il risultato è oltremodo spiazzante per come si distanzia dalle recenti sperimentazioni del regista americano: la vicenda è minimale, incentrata su uno scrittore horror in un paesello americano dove è stato compiuto un fatto di sangue che diventa l'ispirazione per il suo nuovo romanzo. Netto è anche l'avvicinamento – o meglio il ritorno, considerando i primi passi alla factory di Roger Corman – a un genere puro come, appunto, l'horror, con tanto di vampiri, realtà oniricamente disturbate e disturbanti, una presenza femminile fantasmatica (la brava Elle Fanning) e nientemeno che Edgar Allan Poe, novello Virgilio nei deliri onirici del protagonista, in bilico fra passato e presente in un luogo che sembra essere, per l'appunto, fuori dal tempo. Coppola è sempre più un regista che ama sperimentare, e sfrutta il genere per intessere un gioco di scatole cinesi fra realtà, finzione e demistificazione, lavorando sui contrasti fra bianconero e colore (con giochi a volte molto raffinati) e fra immagine digitale e inserti 3D. Il risultato è sicuramente curioso e coerente con la poetica dell'autore, ma il tutto risulta un po' freddo e meno entusiasmante del solito. Il lavoro del grande regista americano si iscrive fra due film curiosamente tangenti tra loro e che rinunciano a ogni possibile deriva fantastica in favore di un tema quantomai realista, quello del cancro. In 50/50, di Jonathan Levine, presentato nel Concorso Lungometraggi, un ragazzo (l'ottimo Joseph Gordon Levitt, che si conferma fra i migliori interpreti sulla scena contemporanea) scopre infatti di essere afflitto dal terribile male e lo affronta insieme a una sorta di “corte dei miracoli” formata dall'amico egoista, dalla fidanzata fedigrafa e dalla madre iperprotettiva. La confezione guarda alla neo commedia contemporanea, legame stabilito anche dalla presenza di Seth Rogen, ma il tono è insolitamente malinconico e empatico nei confronti del dramma del protagonista, e lascia che la risata si stemperi nel dramma rinunciando a pietismi e eccessi ridanciani per comporre un affresco sincero e che sembra costituire una sorta di possibile evoluzione “intimista” del genere. La distribuzione italiana è della Eagle Pictures. A questo risponde Sion Sono con Chanto Tsutaeru/Be Sure to Share, dove il male colpisce un ex allenatore di calcio e costringe il figlio a tentare di recuperare il tempo perduto con lui. Il ragazzo peraltro si scopre anch'egli afflitto dallo stesso male, in una chiara metafora della condivisione che diventa finalmente la traccia portante di un film liberatorio e dedicato alla memoria del padre del regista: se nelle altre pellicole viste al festival, infatti, Sono ha sempre preferito raccontare la tragedia di un popolo costretto a non poter vivere in prima persona i propri drammi perché schiacciato dal peso delle convenzioni che incasellano in ruoli e comportamenti predefiniti, stavolta i personaggi possono compiere un percorso di evoluzione il cui approdo è la necessità di condividere i pensieri, le emozioni e i problemi. Il regista sfrutta ancora una volta il suo consueto gusto per l'estremo, confinato però a una sola sequenza in cui il figlio “rapisce” il cadavere del padre per portarlo a pescare come gli aveva promesso: un momento pure grottesco, ma che rappresenta un autentico gesto di volontà contrario a ogni convenzione (anche filmica) e che apre il film alla svolta, simboleggiata dal rapporto fra il ragazzo e la sua promessa sposa per la scelta che condizionerà il prosieguo delle loro vite. Un gioiello da recuperare a tutti i costi e il film in assoluto più spiazzante del regista: un'altra sorpresa riuscita, insomma.

venerdì 2 dicembre 2011

Torino 2011: Day 7

Torino 2011: Day 7

Sebbene si sia imboccata la fase finale che condurrà alla premiazione di sabato sera, il Torino Film Festival non ha ancora smesso di interrogarsi sul senso della realtà e di produrre visioni in grado di affascinare, anche quando si parte da temi già sfruttati in precedenza: la settima giornata è stata dunque quella degli immaginari consolidati e del rapporto padre/figlio. A volte il padre è un inetto proprietario di un negozio di pesci che resta coinvolto nei loschi affari di un collega che ne fa il suo tirapiedi per eliminare le persone scomode, in un tripudio di corpi scarnificati, sesso e sangue a volontà. Si sarà capito che siamo tornati dalle parti di Sion Sono, con il suo Cold Fish che descrive la realtà nipponica con la durezza che ormai abbiamo imparato a conoscere (e temere): il film è una sorta di Cane di paglia dei nostri giorni, più lineare ma sempre impietoso nello sconvolgere l'ordine costituito raccontando la vacuità delle sovrastrutture su cui si reggono famiglie e società, tanto da non lasciare speranze sul campo. L'impossibilità di ricominciare e la redenzione negata sono anche i temi al centro di Ghosted, film inglese di Craig Viveiros presentato nel Concorso Lungometraggi: dramma carcerario di discreto livello su un detenuto modello che prende sotto la sua ala protettrice un ragazzo con cui spera di costruire quel rapporto filiale negatogli dalla morte del figlio, ma le cose non andranno come previsto. Se invece l'attenzione si punta su una ragazza ecco la Josephine di Die Unsichtbare – Cracks in the Shell (per la regia di Christian Schwochow, presentato in "Festa Mobile"), che diventa la prediletta di un regista teatrale, il quale la costringe a confrontarsi con i suoi demoni per dare più spessore alla parte. E i demoni sono una difficoltà a relazionarsi con il genere maschile dopo l'abbandono del padre, e una madre che dedica tutte le attenzioni alla figlia disabile. Il tutto in una struttura “in crescendo” che può rimandare a classici del conflittuale rapporto arte/vita sublimato di recente in modo magistrale dal Cigno nero di Darren Aronofsky. Il film condivide con quello di Viveiros una messinscena spartana e quasi televisiva (stante il formato Scope) che si sposa a una progressione alquanto prevedibile: in ogni caso la visione scorre senza intoppi rivelandosi interessante e anche intensa, soprattutto in virtù delle ottime prove attoriali. Quale legame ci possa essere poi fra questi figli/padri e i giovani protagonisti di Xiao Shi Da Kan – Honey Pupu, del taiwanese Hung-i Chen, è presto detto: pur mancando i padri, in questo caso, si continuano a esplorare i territori dell'assenza, con la vicenda che vede alcuni ragazzi cercare un compagno scomparso, lungo un percorso che li porterà a intrecciare un mondo in continua evoluzione, dove la realtà è letteralmente cangiante e i cimeli del passato rimandano a una memoria perduta. In ossequio alla sezione “Onde” dove è stato presentato, Honey Pupu propone un linguaggio non lineare e aperto alla sperimentazione, con inserti onirici, sovrapposizioni, realtà virtuali e trasparenze per raccontare un presente che fagocita il passato e lascia scomparire i suoi “pezzi”: cosa può restare dell'amore in un mondo senza memoria? Un film non facile, ma che unisce lo sguardo metropolitano di un Hou Hsiao Hsien a una vena surreale e poetica molto originale: una delle folgorazioni del festival. Chiusura ancora affidata al rapporto con la memoria attraverso il documentario animato Tatsumi (di nuovo "Festa Mobile"), diretto da Erick Koo e incentrato su Yoshihiro Tatsumi, uno dei veterani del manga, la cui vita è raccontata con uno stile ripreso dai suoi fumetti e intervallata ad alcune delle sue storie. Un modo per riflettere sia sulle strategie dell'arte che sulla Storia del Giappone. E il cerchio, anche per quest'oggi, si chiude.

giovedì 1 dicembre 2011

Torino 2011: Day 6

Torino 2011: Day 6

E' ancora la Francia a primeggiare nelle visioni del Torino Film Festival, complice l'arrivo in Piemonte di Eugène Green per l'omaggio della sezione “Onde”: il regista, nato in America ma che ha poi “rinnegato” la terra d'origine per radicarsi profondamente nella cultura europea, fa già capolino come attore in Toutes les nuits, suo esordio che segna anche l'inizio delle proiezioni giornaliere. La vicenda segue gli amori impossibili di due giovani amici, la distanza apparentemente incolmabile fra i desideri e la realtà, in un racconto malinconico, forse un po' eccessivo nella lunghezza di quasi due ore, ma che già presenta tutte le caratteristiche stilistiche care all'autore. A seguire giunge la spiazzante favola Le monde vivant, racconto di dame, orchi e cavalieri girato con grande divertimento, dove la povertà visiva trova una perfetta corrispondenza in una filosofia narrativa che affida alla parola il compito di legittimare ogni figura e ogni stato dei personaggi: un cane diventa quindi un leone, un morto può tornare a vivere e una promessa d'amore è legittimata soprattutto se pronunciata. Un piccolo gioiello dal sapore vagamente bressoniano, divertente e poetico. Si passa quindi al Concorso Lungometraggi che propone il deludente sudcoreano Ganjeung – A confession, di Park Su-min, confusa ricognizione sul senso d'impotenza che un ex poliziotto specializzato in torture prova di fronte a una religione cattolica di cui non accetta la capacità di perdonare chi, come lui, ha commesso inenarrabili atrocità. Una messinscena piatta non aiuta un racconto incapace di elaborare lo spunto anche interessante che viene messo in scena, e che si affida a una serie di passaggi narrativi prevedibili quando non eccessivi nella sovrapposizione dei toni. Per ritrovare l'entusiasmo basta però cambiare sala e correre all'imperdibile appuntamento con uno dei sold-out festivalieri, il capolavoro Cane di paglia, di Sam Peckinpah, scelto da Sergio Rubini per la sezione “Figli e amanti”, in cui le personalità del cinema italiano propongono un loro “film della vita”. La feroce intelligenza di Peckinpah, la brutalità che sovverte ogni schema narrativo, giocando ancora oggi con le aspettative dello spettatore e l'iconografia degli attori (un magnifico e inquietante Dustin Hoffman e una splendida e desiderabile Susan George) sono una vera manna per ogni appassionato. Ma anche il presente non deve temere complessi d'inferiorità, soprattutto se la chiusura di giornata è affidata a un grande autore come Christophe Honoré, ormai una presenza fissa del festival, che stavolta ci offre il bellissimo Les bien-aimés: parte come un divertito musical alla Jacques Demy su una svampita ragazza degli anni Sessanta (la magnifica Ludivine Sagnier) che inizia a prostituirsi per gioco e così conosce l'uomo della sua vita, un medico della Cecoslovacchia prossima alla primavera di Praga con i carri armati sovietici che invadono le strade; e poi diventa un melodramma lacerante sulla figlia (una magistrale Chiara Mastroianni) e il suo amore impossibile per un batterista omosessuale che pure prova per lei una forte attrazione. Una visione gioiosa e capace di iscrivere ogni emozione sui corpi degli attori donando grande sensualità alla messinscena, si accompagna a parti più intense e strazianti, tipiche dei precedenti lavori di Honoré, in cui emergono pure timori concreti sull'incedere di malattie come l'AIDS e sulle perdite di cui è costellata la vita. L'insieme si snoda lungo quarant'anni di Storia, in un andirivieni di situazioni dove i personaggi sono sempre amati da qualcuno, ma non sembrano riuscire a trovare quella corrispondenza in grado di condurre all'agognata felicità, disegnando percorsi sempre diseguali e complessi. La chiusa è per questo una sorta di condanna all'amore che diventa un tormento per i figli e una prova insormontabile per i genitori. La distanza fra dimensione ideale e reale di Eugène Green trova, a suo modo, una sorta di naturale evoluzione.