"C'è chi crede in dio o nel denaro. Io credo nel cinema, nel suo potere. L'ho scoperto da ragazzino, mi ha aiutato a fuggire da una realtà in cui ero infelice. È una delle forme d'arte più alte che l'uomo ha concepito. Credo nel suo futuro."
(John Carpenter)

giovedì 22 dicembre 2011

Real Steel

Real Steel

Nel 2020 i combattimenti fra umani sono stati sostituiti da gare fra robot, in grado di assicurare maggiore spettacolarità. Charlie Kenton è un ex pugile che non ha saputo sfruttare la sua chance e ora si arrangia partecipando a gare di “robot boxing” con i giganti meccanici che riesce ad assemblare, ma le cose non gli vanno troppo bene. Oberato dai debiti e sempre alla ricerca di un nuovo ingaggio, Charlie si ritrova anche costretto a badare per un'estate al figlio che non ha mai voluto seguire e che ora a 11 anni, è rimasto senza madre e deve passare sotto la custodia degli zii. Il ragazzo, Max, pur mostrandosi scontroso verso il genitore, si appassiona agli incontri di “robot boxing”, ancor più quando, in una discarica, recupera Atom, un robot di vecchia generazione che decide di far combattere. Per far questo, però, occorre che Atom sia allenato da un esperto come Charlie...


All'indomani di Transformers era logico aspettarsi che il genere dei robot giganti dilagasse nel pur vasto mare di offerte hollywoodiane, ma a conti fatti il solo Steven Spielberg sembra voler continuare a premere perché gli automi restino centrali nell'immaginario delle nuove generazioni. La sua missione non è soltanto regalare un infantile divertimento, ma al contrario (ri)edificare una neo mitologia che strappi al Giappone quella preminenza da sempre detenuta all'interno di questo tipo di storie. Non appare pertanto casuale che Real Steel ponga in essere proprio un discorso di appartenenze e di aderenze a modelli distanti dalla propria cultura. L'ispirazione è un racconto di Richard Matheson, già trasposto come secondo episodio della quinta stagione di Ai confini della realtà: una scelta non casuale, soprattutto in virtù che proprio da un altro racconto dello stesso scrittore Spielberg aveva compiuto il grande passo verso il successo, quando, nel 1972, aveva diretto lo splendido Duel.

Una simile suggestione si va dunque a sovrapporre a un altro riferimento, ravvisabile nel nome Atom, che ci riporta a Astroboy, primo robot dell'animazione giapponese, creato da Osamu Tezuka. I riferimenti al Giappone nel film sono molto precisi, si va dall'automa Noisy Boy (che, non casualmente, ascolta solo gli ordini nella lingua dell'Est e deve perciò essere settato su quella americana) al nemico finale, lo zeus di Tak Mashido. Alla spinta innovatrice dell'Est, il film oppone una visione conservatrice (nel senso non deteriore del termine) che si rifà ai valori fondanti della cultura americana: senso dell'individualismo che spinge a dare il massimo per la vittoria, ma anche dell'appartenenza a un luogo (la palestra), a una comunità (la famiglia e il figlio), a un percorso di vita (lo sport).

Narrativamente, questo intento permette al film di procedere lungo coordinate codificate, che guardano a icone americane come Sylvester Stallone: appare alquanto evidente, infatti, che il film segua in maniera molto precisa due opere dell'attore americano, Over the Top, per il rapporto padre/figlio cementato da una condivisione d'intenti e di ideali sportivi che si oppone alle mire di una famiglia che intende separarli; e poi Rocky, su cui è praticamente costruita tutta l'architettura della parte finale, con l'estenuante combattimento fra Atom e Zeus. Nel rendere puramente americana l'avventura del robot, inoltre, Spielberg innesta la componente della condivisione e della comprensione, centrali già nel primo Transformers: Charlie deve così condividere il destino del suo robot, guidandone semplicemente i movimenti.

Ma questo rapporto padrone/esecutore lentamente si smarca dalla semplice sudditanza e prende la forma di una simbiosi: la storia non a caso gioca con la possibilità che Atom possa essere realmente dotato di una sua volontà. E' un'ipotesi cui sembra credere ciecamente lo stesso Max, ma che non viene mai confermata del tutto. Ciò che invece conta è il progressivo avvicinamento fra l'uomo e la macchina, che procede in parallelo a quello fra il padre e il figlio: i due imparano a conoscersi e apprendono dettagli dei rispettivi passati che li rendono meno prigionieri di un ruolo e sempre più persone destinate a formare un nuovo legame, pur sulla matrice storica, sociale e culturale che l'istituzione-famiglia inerzialmente impone (Max è convocato per redigere formalmente l'atto con cui rinuncia alla patria potestà e questo innesca la storia).

Pertanto, Atom diventa il fulcro di una triangolazione fra due differenti persone (Charlie e Max) e altrettanti immaginari: quello del giovane tifoso che sogna l'avventura fantastica esaltandosi di fronte ai giganti meccanici; e quello dello sportivo tradizionale che deve riscoprire il gusto per la tecnica, andando ben presto oltre l'entertainment puramente tecnologico. Il percorso è articolato lungo una logica progressiva: si va dal classico telecomando, al comando manuale, fino al finale in cui – sfruttando la capacità di Atom di riprodurre i movimenti – Charlie letteralmente “combatte” a bordo ring la partita della vita, che l'automa riprende in modo succedaneo fra le corde.

La sovrapposizione di vite e iconografie arriva dunque a compimento e perciò Real Steel riesce a raggiungere la sintesi fra le suggestioni differenti da cui è generato: un po' film di fantascienza e un po' classico racconto sportivo, diventa un film puramente americano, pur con suggestioni orientaleggianti. La regia di Shawn Levy si dimostra perfettamente professionale e al servizio della storia, riuscendo a conferire al tutto quella giusta medietà da prodotto di massa, capace perciò di esaltare i concetti più complessi all'interno di una confezione perfettamente fruibile.


Real Steel
(id.)
Regia: Shawn Levy
Sceneggiatura: Leslie Bohem, John Gatins (soggetto di Dan Gilroy, Jeremy Leven, basato sul racconto Steel di Richard Matheson)
Origine: Usa, 2011
Durata: 127'


1 commento:

Babol ha detto...

Bellissima recensione per un film che, come dici alla fine, purtroppo patisce un po' della sua natura di "prodotto medio".
Godibilissimo, comunque!!