"C'è chi crede in dio o nel denaro. Io credo nel cinema, nel suo potere. L'ho scoperto da ragazzino, mi ha aiutato a fuggire da una realtà in cui ero infelice. È una delle forme d'arte più alte che l'uomo ha concepito. Credo nel suo futuro."
(John Carpenter)

venerdì 24 febbraio 2012

J. Edgar

J. Edgar

Stati Uniti d'America, anni Trenta. John Edgar Hoover è un giovane ossessionato dall'anticomunismo e dal rispetto dei valori che ritiene fondativi rispetto alla sua nazione. Per questo si dedica a una seria lotta al crimine negli anni del proibizionismo, e crea il Federal Bureau of Investigation, con cui ottiene i primi risultati fermando gangster come John Dilllinger. Integerrimo e deciso a tutto per la causa, Hoover resta saldo al suo posto lungo cinque decenni di storia americana, mentre i presidenti si avvicendano e gli eventi più traumatici scuotono la nazione, senza mai farlo recedere dai suoi propositi. Arrivato alla tarda età, l'uomo ripercorre la storia della sua vita in forma di biografia, fornendo la sua versione dei fatti, e i ricordi lo portano a ripercorrere i rapporti con le persone che più hanno segnato la sua esistenza: sua madre, cui è legato da un profondo affetto, e il collega Clyde Tonson, con cui vive una storia d'amore platonico destinata a non trovare mai la sua realizzazione.


Si parte da un conflitto, quello fra il personaggio e la Storia: Hoover vuole, pervicacemente, plasmare il paese secondo la propria idea, ma lo fa con la giustificazione che questa coincide naturalmente con i valori fondativi della nazione. La sua figura assume dunque la molteplice natura del rivoluzionario che intende contrastare la deriva esistente, del demiurgo che tenta di plasmare la realtà secondo una propria idea e del conservatore che mira a proteggere i valori non negoziabili su cui si fonda lo stato. Una struttura a maglie così strette non ammette deroghe e per questo è lo stesso Hoover a dettare la sua versione ai posteri, assumendosi il compito di raccontare e elaborare criticamente quella Storia cui deve infine rendere conto: lo fa dettando le sue memorie a vari subalterni, che si avvicendano alla macchina da scrivere esattamente come già i tempi e le autorità hanno fatto davanti alla sua persona.

Hoover non ha dunque dubbi circa il suo ruolo di leader, dettato da una sorta di necessità storica e morale, che ne giustifica la sua presenza e lo rende quindi un'icona prima ancora che un uomo. Ne consegue che quello fra la dimensione pubblica e quella privata è il secondo fronte di conflitto che il film naturalmente apre: la storia personale si intreccia infatti a quella dell'America del Novecento, di cui vengono esposti i traumi, favorendo una lettura metaforica di una nazione che arriva a sacrificare la propria innocenza e la propria realizzazione personale in favore di un disegno più grande e che ritiene, soggettivamente, più giusto.

Non che tutto sia così didascalico, beninteso, Eastwood riesce infatti a far provare sentimenti ambivalenti per questa figura (e questa nazione), di cui mette in luce le debolezze e i fallimenti, ma anche il carisma e una certa qual grandezza, e che alle contraddizioni accompagna una singolare capacità di piegare la morale a una visione di parte, dove la realizzazione del fine trova sempre giustificazione dei mezzi impiegati. Il film instaura con questa stolida certezza una dialettica molto raffinata, fino ad aprire degli inserti in cui emergono possibili letture alternative, che rinnegano totalmente la visione “ufficiale” cara a Hoover e che sembrano invece evidenziare l'inganno su cui si regge la sua fama, spesso attribuibile a meriti altrui e a una sapiente opera di propaganda.

L'approccio è classicamente critico, simile a quello di registi come Raoul Walsh, per come unisce la grandiosità della dimensione pubblica a una visione privata che non è necessariamente misera, ma che di sicuro è complessa e tragica, e che affonda nei rapporti interpersonali, nel legame fortissimo con quella figura materna che sembra quasi una presenza fuggevole e secondaria, ma che invece è centrale nella formazione e nell'educazione del protagonista. Pertanto, come il personaggio offre livelli di lettura molteplici, anche il film sfugge a una classificazione di genere immediata, e si pone come racconto storico che utilizza i codici espressivi del noir, dove la realtà non è necessariamente quella che sembra.

Il terzo conflitto è dunque quello fra l'aspirazione professionale e la sfera sentimentale, dove più forti si annidano gli inganni e i traumi e dove la formula espressiva cara a Eastwood riesce a trovare maggiori slanci. Hoover diventa così l'attore che recita una parte assegnatagli tanto dall'irreprensibile educazione materna, quanto dalle aspettative che la società nutre nei suoi confronti. Per questo egli rifiuta i sentimenti che pure cova per il collega Clyde e, nel muoversi sempre nella direzione che il ruolo gli impone, denuncia a un livello profondamente intimo la contraddizione della sua figura pubblica e i dilemmi che, dalla dimensione sentimentale, approdano infine a quella morale.

In questo modo Hoover finisce per opporsi esplicitamente al dettame eastwoodiano della condivisione in quanto chiave di volta per capire realmente la realtà: Hoover preferisce al contrario costruire una realtà artefatta e schematica in cui la missione giustifica ogni cosa, e dove sono i piccoli dettagli a rivelarne la sostanziale inadeguatezza. Dettagli che, nell'ottica eastwoodiana, non possono che essere quelli che passano per la dimensione umana e fisica: piccoli gesti, sguardi, mani che si stringono quasi fuggevolmente e che non ammettono mai una legittimazione oggettiva attraverso l'espressione verbale, che può invece portare le tensioni a esplodere, esplicitando la grande forza emotiva del racconto.

Ma – e non è aspetto da sottovalutare – questa è anche una storia di dedizioni, di uomini e donne che nella devozione cui sono costretti a una causa, restano insieme in virtù di un tacito accordo, come accade appunto a Edgar e Clyde, ma anche a Edgar e alla sua segretaria Helen. L'ultimo conflitto è dunque quello fra l'apparenza dei ruoli e la reale sostanza dei legami, quello che probabilmente rende in maniera più evidente la grandezza dei personaggi e insieme la loro statura tragica. La grandiosità quasi epica dell'insieme si riequilibra dunque negli elementi più “piccoli” e significativi, e in questo modo il film raggiunge una perfetta sintesi fra la più recente fase mainstream del cinema di Clint Eastwood e lo spessore intimista dei suoi capolavori.


J. Edgar
(id.)
Regia: Clint Eastwood
Sceneggiatura: Dustin Lance Black
Origine: Usa, 2011
Durata: 137'

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