"C'è chi crede in dio o nel denaro. Io credo nel cinema, nel suo potere. L'ho scoperto da ragazzino, mi ha aiutato a fuggire da una realtà in cui ero infelice. È una delle forme d'arte più alte che l'uomo ha concepito. Credo nel suo futuro."
(John Carpenter)

giovedì 30 agosto 2012

Il cavaliere oscuro: Il ritorno

Il cavaliere oscuro: Il ritorno

Sono passati 8 anni dall'ultima apparizione di Batman e Gotham City attraversa un periodo di pace, complice anche l'emanazione del Dent Act, che ha concesso alla Polizia pieni poteri per sconfiggere la criminalità. Harvey Dent è ricordato per l'appunto come un eroe, mentre al giustiziere mascherato è andata tutta la colpa per la morte del procuratore: una falsa verità con cui il Commissario Gordon fatica sempre più a convivere, ma che non ha ancora il coraggio di smentire (nel frattempo le autorità stanno pensando di rimuoverlo dall'incarico). Le cose però stanno cambiando: Bane, un mercenario seguace della Setta delle Ombre, vuole compiere infine il piano di Ra's al Ghul e spazzare via Gotham City. Per farlo usa un reattore (creato dalla Wayne Enterprises) pensato per produrre energia pulita, che viene trasformato in una bomba nucleare a tempo. Bane isola la città, imprigiona tutta la polizia nel sottosuolo e, in attesa della deflagrazione, instaura un regime fatto di esecuzioni sommarie ai danni delle autorità. Batman è quindi costretto a tornare in azione, con la complicità del giovane poliziotto idealista John Blake e della ladra doppiogiochista Selina Kyle. Proprio quest'ultima, però, lo consegna a Bane, che gli rompe la schiena e lo imprigiona nel pozzo dal quale anche lui proviene. Per ottenere la sua rivincita, il cavaliere oscuro dovrà attuare un'autentica rinascita, confrontandosi con i propri demoni.


Sotto molti aspetti, l'ascesa di Batman (ovvero quel “ritorno” della maldestra traduzione italiana) c'era già stata: difficile, infatti, pensare a un film più spiazzante, ardito e definitivo de Il cavaliere oscuro, ovviamente nel senso virtuoso dei termini. Al di là dei meriti intrinseci della pellicola, ciò che ancora oggi colpisce è la sicurezza dimostrata da Christopher Nolan nel realizzare un seguito che, pur elaborando gli spunti offerti da Batman Begins, è capace di reggersi sulle proprie gambe, raggiungendo nuovi traguardi estetici, narrativi e filosofici. Difficile chiedere di più, anche per il fandom ingordo dei tempi attuali: anzi, provocatoriamente verrebbe quasi da rovesciare i termini del rapporto con l'industria e proporre che a film così epocali non si aggiunga alcuna appendice, per non rischiare la sclerosi di quanto è ancora forte e appassionante.

La sfida de Il cavaliere oscuro: il ritorno porta dunque con sé l'ambizione di superare e rilanciare la saga, e il risultato è un'evidente ansia da prestazione, che rende l'intero film non una nuova evoluzione del racconto, ma una sua programmatica elevazione a potenza. Tutto è affetto da un evidente gigantismo, a iniziare dai corpi: dalla figura misteriosa, quasi sulfurea del Joker di Heath Ledger si passa alla pesantezza muscolare di Bane e ai suoi modi teatrali, mentre il piano di distruzione della città evoca la Rivoluzione Francese o i movimenti alla Occupy Wall Street, con l'unico risultato di degradarli a vana strategia di un folle (con acutezza Mariuccia Ciotta parla di “confusione politica”). Il precipitato filosofico evocato dal confronto fra gli intenti di giustizia e la pulsione alla doppiezza di tutti i personaggi è esplicitato attraverso dialoghi didascalici che appesantiscono la narrazione, sterilizzando tante buone intenzioni e facendo sorgere più di un dubbio circa la sincerità degli intenti: non è il caso di seguire la direzione che la sceneggiatura - scritta dal regista insieme al fratello Jonathan - vuole farci prendere, altri lo hanno fatto con esiti anche molto interessanti (si legga l'articolata recensione di Cineblog linkata in calce), ma se restiamo su questo terreno, il film finisce per apparire distante dai fuochi promessi in locandina e neppure esente da qualche sbavatura registica.

Ma c'è dell'altro sotto la superficie: c'è un film che, come il reattore della Wayne Enterprises, merita di essere scoperto e strappato al suo immobilismo e che ci riporta agli aspetti più esaltanti di Batman Begins (e poi anche di Inception). Occorre cercare, andare oltre l'evidenza degli elementi messi in campo, e in questo modo si possono coglierne le risonanze più vitali, le possibilità offerte da un racconto che, all'interno di una struttura predeterminata e perfettamente “chiusa”, cerca nuove aperture. Come già in Bruce Wayne, anche nell'animo del regista inglese sembrano agitarsi due pulsioni, una più cartesiana e rigorosa, quasi deterministica, e l'altra più libera, porosa, che in questo caso si palesa attraverso una tensione febbricitante che corre lungo tutta la narrazione. Sfrondate il tutto dai piani machiavellici e dalla muscolarità dei mezzi e della roboante colonna sonora e soffermatevi sulle figure e sul loro rapporto con lo spazio: Il cavaliere oscuro: Il ritorno è sotto molti aspetti un film agitato da presenze inquiete, attraversato da ombre che agiscono negli interstizi fra la luce e il buio, fantasmi inafferrabili come quel Batman che spunta dai vari lati dell'inquadratura, si manifesta attraverso flash intermittenti, è evocato e temuto allo stesso tempo e “vede” nel buio nemici vecchi e nuovi (a iniziare dallo stesso Ra's al Ghul in una sequenza palesemente onirica). Anche lo scenario si adegua e, dalle aperture in campo lunghissimo di Gotham, si passa senza particolari soluzioni di continuità a mondi sotterranei che disegnano realtà alternative, con cunicoli dal sapore ancestrale, primitivo, fatti di intrecci di metallo, grate, pozzi, perenni chiaroscuri che disegnano una realtà espressionista. In questi momenti Nolan descrive allo stesso modo un film differente, che ridisegna visivamente la mappatura emotiva altrimenti costretta dai legacci della sceneggiatura.

Il personaggio che in questo senso meglio di tutti riesce a cogliere la forza evocativa di un simile disegno è, al solito, uno dei più collaterali, il fedele Alfred di Michael Caine. Mentre l'attenzione è attirata dallo scontro Batman/Bane (che reitera la classica dinamica Bene/Male), il maggiordomo di casa Wayne è l'unico ad aprire uno slancio emotivo forte e a sognare una realtà altra, a vedere il suo padrone in un'altra città, immerso in una quotidianità un po' onirica che rimanda alle visioni del Cobb di Leonardo Di Caprio, al suo “possibile futuro”. Sotto certi aspetti è come se Alfred offrisse a Wayne una nuova doppia identità, stavolta libera e imprendibile, spogliata tanto della maschera da giustiziere quanto dell'altro camuffamento da miliardario impegnato in grandi progetti.

In effetti, senza scendere fino all'ipotesi assolutamente intrigante che tutto il film altro non sia che un “inception” di Alfred, sembra quasi che Nolan, nell'enormità del suo disegno, si riconosca soprattutto nel Wayne più umano, quello che in fondo al pozzo sogna la luce che fa capolino dalla cima e si sforza di raggiungerla. D'altronde è proprio quello il momento di snodo del film, in cui Bruce riguadagna la sua unità, dopo l'inevitabile processo di scomposizione fisica (con tanto di maschera fatta simbolicamente a pezzi), fino a raggiungere l'equilibrio fra la sua finitezza di uomo e l'indeterminatezza della leggenda. Ed è un momento che piace pensare propedeutico al ricongiungimento finale con la visione di Alfred. Questo, insieme a qualche simpatico colpo di scena fatto apposta per occhieggiare alla classica mitologia batmaniana (l'identità del possibile testimone che raccoglierà e proseguirà la missione del giustiziere) sono i momenti di luce che rompono il buio in cui la storia e il film si agitano.


Il cavaliere oscuro: Il ritorno
(The Dark Knight Rises)
Sceneggiatura: Christopher e Jonathan Nolan (da una storia di Christopher Nolan e David S. Goyer)
Origine: Usa, 2012
Durata: 163'

martedì 28 agosto 2012

I mercenari saga

I mercenari saga

A vederlo lì al centro della locandina, il buon Sylvester Stallone sembra quasi rimarcare che, d'accordo, il progetto de I mercenari è corale e si rivolge a un pubblico che può avere le sue preferenze e farsi le graduatorie che vuole, ma per il resto lui ne è l'artefice, il “demiurgo”, in qualità di interprete, cosceneggiatore e regista (del primo episodio). La saga, in fondo, va assimilata al progetto iniziato dallo stesso Stallone nel 2006 con Rocky Balboa, attraverso il quale l'attore italo-americano sta compiendo un viaggio a ritroso verso le proprie origini (o meglio, verso il periodo che gli ha regalato maggiore celebrità). Nel caso specifico, infatti, I mercenari rappresenta uno scampolo d'immaginario “muscolare” (prosperato in particolare durante gli anni Ottanta), rievocato attraverso i suoi corpi più iconici e che permette di “fermare” le caratteristiche portanti di un genere.

Proprio la dialettica dei corpi è l'aspetto più interessante di un progetto che propone le sue articolazioni più ardite attraverso gli accostamenti: mettere insieme Schwarzenegger, Stallone e Bruce Willis, infatti, non significa soltanto comporre una rimpatriata fra amici e compiacere i fans che amano i “cross-over”: al contrario, significa trovare una sintesi fra la muscolarità ironica degli action dell'ex “Governator” (i cosiddetti “arnoldismi”, ovvero le battute pronunciate nel mezzo dell'azione), quella cristologica Stalloniana e gli eroi più malconci di Willis (figura cerniera fra i corpi levigati nelle palestre dei colleghi e i successivi eroi più “umani” degli anni Novanta e Duemila). Ripensiamo in questo senso a Rocky IV e alla scena dell'allenamento parallelo dell'ipertecnologico Ivan Drago (Dolph Lundgren, anche lui della partita!) e del “proletario” Rocky Balboa, che forgia i suoi muscoli scalando montagne e spaccando la legna: il seme de I mercenari è già lì, la sintesi fra una classe di eroi filmici che a volte importa le sue icone direttamente dalle palestre (Schwarzenegger), altre invece ne crea per autogeminazione (Stallone, Willis). Altrimenti possiamo pensare al legame di (dis)continuità per cui un film come Commando, pur essendo un evidente clone di Rambo ci appare come qualcos'altro, proprio in virtù della profondità mitica emessa dal corpaccione di Schwarzenegger.

La materia è magmatica nella sua stolida determinatezza, insomma, e I mercenari la assimila “parlando” attraverso l'esibizione dei suoi corpi attoriali: non è un caso, infatti, se il primo capitolo, pur nel florilegio di esplosioni e ironie, si sedimenta come un film malinconico. La figura paradigmatica in questo senso è quella di Mickey Rourke, che da attore gigantesco qual è, riesce con i soli pochi minuti che ha a disposizione a tarare il tono del racconto parlando di rimpianti e rimarcando come tutti loro siano in fondo dei “sacrificabili” (come da titolo originale). Nel sequel l'attore è assente e il film appare anche per questo più libero, sregolato, capace di veicolare le sue riflessioni metanarrative con un'aria più scanzonata, meno assorta. Merito anche di una regia “di servizio” (quella di Simon West) e meno “autoriale” di quella di Stallone, più pragmatica, che permette al progetto di compiere l'inevitabile passo in avanti: in tal senso, I mercenari 2 può essere assimilato a Mission Impossible: Protocollo fantasma, per il tentativo di rifondare nel presente le dinamiche di un genere e un tempo passati, in modo più riuscito rispetto al precedessore. I fantasmi, in fondo, sono ancora quelli della Guerra Fredda, ma il gioco non è poi così scoperto. Non ci sono infatti isolette con il dittatore di turno (come nel primo capitolo), il nemico è interno alla dinamica dei corpi (è Jean Claude Van Damme) ma gli umori che serpeggiano sottotraccia sono sempre quelli tipici di una dicotomia Bene/Male molto classica (e si può tornare indietro fino a John Wayne o alle Sporche dozzine di Aldrich).

Normalmente si dovrebbe affermare, dunque, che il film guarda al passato, ma in realtà il punto è che la componente elegiaca viene abbastanza bypassata e relegata a qualche battuta dei personaggi, come a ribadire che, sì, stiamo parlando un linguaggio antico, ma tutto sommato siamo nell'attualità perché il mondo è ancora quello di sempre, solo con una pelle un po' diversa. Il che sembra quasi uno sberleffo stalloniano: il mondo non è andato avanti, lui è ancora qui e noi in fondo siamo sempre pronti a seguirlo.

La dialettica finale è infatti quella attore-spettatore, con il pubblico che ride e riconosce i riferimenti seminati dal racconto: gli eroi, insomma, stavolta appaiono meno “sacrificabili” che in precedenza, anche se ci scappa il morto, e sembrano più delle presenze amiche cui rifarsi nel momento del bisogno, come fa Chuck Norris quando interviene a salvaguardia dei compagni, scatenando anche gli entusiasmi del pubblico. Perché in fondo il gioco delle iconografie è divertente tanto quanto gli sganassoni e le pistolettale che gli attori elargiscono sullo schermo con generoso entusiasmo.


venerdì 10 agosto 2012

The Naked Bunyip

The Naked Bunyip

Un ricercatore timido e impacciato viene incaricato dalla sua società di compiere un'indagine sul sesso nella società australiana contemporanea. Non sapendo bene come destreggiarsi di fronte a un tema così complesso, l'uomo passa in rassegna gente comune, luoghi di divertimento, ma anche ragazze madri, coppie omosessuali, artisti del nudo, pubblicitari, raccogliendo informazioni eterogenee che descrivono il complesso quadro di una società in trasformazione.


Se vogliamo tracciare un punto d'origine dell'Ozploitation classica, The Naked Bunyip è il film da cui partire, sia perché è una delle primissime pellicole a essere prodotte dopo quel 1969 che segna il cambio di passo per l'industria cinematografica australiana, sia per il fondamentale scossone produttivo e artistico assestato a un mercato sonnolento e vessato dalla censura (che all'epoca pare fosse la più repressiva del mondo occidentale). Il film è sostanzialmente apparentabile alla formula del mondo-movie che negli stessi anni tiene banco in altre nazioni (l'Italia in primis) e che sfrutta la presunta indagine sociologica come pretesto per mostrare immagini shock in nome del sensazionalismo più sfrenato. Nel caso specifico, però, il taglio ha poco del sexploitation vero e propri e risulta decisamente onesto nei confronti della materia trattata, tanto da rivelarsi estremamente veritiero ed empatico quando racconta le difficoltà delle ragazze madri o i pensieri della coppia di donne omosessuali. Al contempo, però, non manca di ribadire continuamente il senso della messinscena, evocando in più passaggi il palcoscenico, la rappresentazione pubblicitaria o il mercato del sesso “soft” delle riviste per soli uomini: l'intento è chiaramente quello di mostrare come l'indagine alla base della “storia” non inventi nulla che non sia già presente in una società che è già più avanti della censura, i cui mutamenti aspettano di essere registrati, e che è pure a suo agio con il sesso inteso come tema squisitamente merceologico e artistico.

Siamo perciò di fronte a un'operazione teorica arguta, ma anche a un precursore di un sentire che, da sociale, sta già diventando puramente cinematografico: non a caso il film è spesso considerato pure l'apripista della Ocker Comedy, principalmente per alcune scelte di casting. Il protagonista è infatti Graeme Blundell, che darà poi vita al dittico di Alvin Purple (autentico “eroe” della commedia scollacciata australiana) e che qui è stato scelto dal regista John B. Murray per una sua qualità à la Buster Keaton: in effetti, con il suo volto imperturbabile, Blundell costruisce un protagonista tenero nella sua timidezza, spesso usato come grimaldello per scardinare alcune potenziali seriosità di un testo che vuole informare, ma anche divertire. A suggello di questa struttura a metà fra intrattenimento e indagine seria c'è anche la comparsa di Barry Humphries, già nei panni della zia Edna Everage, personaggio che in effetti ha una vita abbastanza autonoma dai film di Barry McKenzie.

L'idea di portare a galla un fermento nascosto e un immaginario già fortemente riconoscibile, si può dunque riflettere nel tentativo stesso di creare un prodotto filmico con una profonda specificità australiana, che funga da incentivo per un'industria ancora inesistente. Murray è aiutato nella sua impresa dal produttore Philip Adams, figura di spicco degli ambienti intellettuali australiani e, a quanto pare, autentico artefice dell'operazione: i due, inizialmente, pensano a un documentario sul football, salvo poi decidere di puntare su un argomento più audace, attraverso l'auto distribuzione. Alle spalle c'è infatti il precedente di 2000 Weeks, film indipendente di Tim Burstall (guarda caso il futuro regista di Alvin Purple) che, in maniera del tutto autonoma e con una distribuzione letteralmente “porta a porta”, ha dato vita a un successo. Lo scontro con la censura, naturalmente, non è indolore: la classificazione “R” (e il conseguente allargamento dei controlli) arriverà infatti solo un anno dopo l'uscita del film (e, anzi, si può chiaramente pensare che sia la pellicola stessa ad accelerare il processo), ragion per cui regista e produttore sono esattamente consapevoli di rompere un tabù.

Il risultato dei compromessi con l'ente di controllo è l'inserimento di un “Bunyip nudo”, a coprire le sequenze più “forti”: per chi non lo sapesse, il bunyip è una creatura del folklore australiano, tipica della mitologia aborigena, che nella stilizzazione prescelta dagli autori ha la forma di un bislacco incrocio fra un coniglio e un canguro. La scelta porta con sé molteplici implicazioni: da un lato, infatti, gli autori evidenziano l'intervento della censura, rimarcando ciò che essa ha voluto forzatamente celare. In ogni sua apparizione, infatti, il disegno del Bunyip riprende esattamente ciò che nel documentario viene oscurato; allo stesso modo, quando la censura è di tipo sonoro (e copre quindi dialoghi considerati “proibiti”), una didascalia spiega ciò che non viene sentito. In questo modo Murray letteralmente sbugiarda l'intervento censorio, denunciandone l'intromissione e la pochezza.

Allo stesso tempo, però, la bizzarra invenzione fa da divertente commento alle immagini e amplifica il confronto fra messinscena e verità alla base dell'intera operazione, diventando autentica invenzione stilistica: non a caso, Philip Adams ricorda come ogni apparizione del Bunyip fosse salutata con grande favore dal pubblico, impressionato positivamente dalla trovata e dal modo in cui l'icona rielaborava stilisticamente i fatti narrati.

Sebbene oggi chiaramente datato, The Naked Bunyip rimane quindi un importante documento di una nazione che usciva da un'impasse creativa e produttiva, ed è in grado di regalare momenti teneri alternati ad altri più divertenti. Per gli appassionati di atmosfere anni Settanta, si tratta inoltre di un reperto imperdibile e la title track Let's Make Love di Janet Laurie & Gerald Lester è di quelle che restano impresse a lungo, per come riescono a catturare il complesso sistema di sentimenti che la narrazione evoca.

Come altre pellicole di questo percorso dedicato all'Ozploitation, anche questa è inedita in Italia e reperibile attraverso i canali dell'import. Questo resoconto è basato sulla visione del DVD della Umbrella Entertainment (come sempre non sottotitolato), che presenta, fra gli extra, anche le parti originariamente “coperte” dal Bunyip, utili a capire meglio gli interventi della censura.


The Naked Bunyip
Regia: John B. Murray
Sceneggiatura: John B. Murray, Ray Taylor
Origine: Australia, 1970
Durata: 139'

lunedì 6 agosto 2012

Knockout: La resa dei conti

Knockout: La resa dei conti

Mallory Kane è un agente speciale sotto copertura che lavora per un'agenzia privata. Ora è in fuga, braccata dal suo superiore, Kenneth, che dopo l'ultima missione ha tentato di incastrarla e di farla eliminare, presago del fatto che lei aveva intenzione di mollare il suo lavoro. Il piano però non è andato come previsto grazie alle capacità di Mallory, che ora ha preso in ostaggio un ragazzo cui raccontare la sua storia e che può fidarsi solo di suo padre. Deve perciò vendicarsi di chi l'ha tradita e scoprire il motivo della sua condanna a morte. Tutto questo mentre il governo degli Stati Uniti sembra interessato a reclutarla, una volta che tutto sarà finito.


Steven Soderbergh continua a divertirsi e a sovvertire i generi, pur nel rispetto delle regole che li codificano. Dopo il disaster-movie di Contagion, stavolta tocca all'action, peraltro affrontato da una prospettiva opposta rispetto a quella che ci si aspetterebbe: il regista, infatti, non costruisce prima la storia per poi trovare l'interprete. Fa esattamente il contrario: si invaghisce (professionalmente) di Gina Carano, lottatrice di arti marziali miste che ha visto combattere in tv e decide di farne l'eroina di un film. Questa prospettiva “a rovescio” per certi versi si adatta perfettamente a un film che ci introduce al personaggio nello scenario rassicurante di una tavola calda, salvo poi sovvertire tutto mostrandocela indiavolata mentre atterra il muscoloso collega Channing Tatum. Ne segue un lungo flashback che determina la struttura a puzzle destinata a far combaciare i pezzi solo nel finale.

In effetti, quello che vediamo ha la leggerezza consueta del divertissement soderberghiano, ma quell'aria un po' astuta dell'esperimento in cui si tenta di mescolare gli elementi realizzando un anomalo “film d'azione d'autore”, che guarda a certe spy story degli anni Settanta, collocate però in un contesto contemporaneo che da solo è capace di rendere Knockout l'antitesi dei vari Mission: Impossible. A proposito del quarto capitolo della saga con Ethan Hunt, infatti, scrivevo che l'apparato ultramoderno e la muscolarità da grandi mezzi tipica del format blockbuster celavano un'anima retrò che nel suo apparire moderna era in realtà totalmente classica, in quanto fedele riproposizione degli schemi del Bond-movie (matrice dell'action spionistico moderno).

Bene, con Knockout la sensazione è opposta: vediamo un film che si offre come reperto vintage ma che in realtà è perfettamente radicato nel nostro tempo, perché rifugge la creazione di possibili fronti contrapposti in favore di un mondo senza identità, dominato da una visione economicista, dove i personaggi si combattono e complottano fra loro in nome del potere e del guadagno (alla fine è sempre una questione di soldi ammette Kenneth). Il problema della verità che delimiti e definisca un'identità (da sempre un pallino per Soderbergh) si rispecchia poi nell'abile uso del cast, in cui la protagonista sconosciuta (quella su cui si devono concentrare le simpatie dello spettatore) è contrapposta a un reticolo di nomi noti (Michael Douglas, Michael Fassbender, Antonio Banderas, Ewan McGregor, Bill Paxton) giocando così con le risonanze che i volti evocano in chi guarda. Anche in questo caso si tratta quindi di regole che vengono sovvertite e rendono il gioco quasi teorico.

Alla fine la struttura è intrigante e Soderbergh riesce a muoversi come sempre con fluidità fra le varie situazioni, passando in rassegna luoghi e volti senza particolare soluzione di continuità, inframezzando momenti più calmi con improvvise esplosioni d'azione che nel loro ricercato realismo appaiono rudi ma essenziali. L'azione, insomma, non prevale sull'intreccio né sui vari elementi che pure compongono un amalgama alquanto denso: c'è il sex appeal della protagonista, il gioco di seduzione con luoghi di lusso che rimandano alla saga degli Ocean, un'ampia varietà di scenari capace di conferire movimento, un fitto schema delle apparenze e una colonna sonora che detta i tempi di un anomalo action jazzato. Un prodotto di classe, insomma, che dimostra come si possa pensare un action differente, realistico, mai povero e non passatista.


Knockout: La resa dei conti
(Haywire)
Regia: Steven Soderbergh
Sceneggiatura: Lem Dobbs
Origine: Usa, 2011
Durata: 90'

venerdì 3 agosto 2012

Machete Maidens Unleashed!

Machete Maidens Unleashed!

Può apparire quasi scontato il fatto che dopo il grande successo riscosso da Not Quite Hollywood, Mark Hartley abbia realizzato un secondo documentario, sempre a tema exploitation. Possiamo magari pensare a una furba manovra, di quelle orchestrate a tavolino, in cui il regista si è guardato intorno, con un atlante in una mano e un volume di storia del cinema dall'altra, in cerca della cinematografia più esotica e meno nota alle platee internazionali. Invece se una cosa non possiamo imputare a Mark Hartley è il cinismo, tanto che il film nasce da input abbastanza diversi e in modo abbastanza casuale. Tutto parte dall'idea di realizzare sì un secondo documentario, ma su Roger Corman e la factory dei cosiddetti “cormaniani”, che, come i cinefili ben sanno, comprende nomi poi diventati importanti, come Joe Dante, Jonathan Demme e via citando. Ma l'argomento è già sfruttato e quindi l'intenzione svanisce in un cassetto.

A questo punto si inserisce un secondo progetto, in cui Hartley pare si trovi coinvolto, ovvero il documentario The Search for Weng Weng: fortemente voluto da Andrew Leavold, collega indipendente australiano, il film in questione intende ripercorrere le tracce di un autentico fenomeno exploitation dei primissimi anni Ottanta, quello della trilogia filippina ispirata al ciclo di James Bond, ma che aveva per protagonista... un nano, Weng Weng appunto! Non se ne fa nulla perché Hartley scopre che l'attore è ormai deceduto e che la storia non offre dunque materiale abbastanza consistente per reggere la durata di un intero lungometraggio (fra l'altro non è dato sapere se poi Leavold sia riuscito a portare a termine il progetto, c'è un blog dedicato che però è fermo al 2010). Il seme comunque è ormai piantato e il risultato che ne deriva è Machete Maidens Unleashed!, che riassume perfettamente tutto questo percorso.

Le Filippine che hanno generato il culto di Weng Weng e del suo Agente 00, sono state infatti per un certo periodo il teatro di coproduzioni a basso costo con l'America, che hanno generato un cinema ancor più selvaggio di quello Ozploitation e altrettanto sconosciuto: è l'occasione giusta per raccontare una nuova produzione sommersa e, allo stesso tempo, omaggiare quel Roger Corman che di quelle coproduzioni fu uno dei più accaniti contributori (e beneficiari). Inoltre, non va sottovalutata la portata estremamente controversa del tema, vista la turbolenta situazione politica dello stato asiatico negli anni Settanta, complice la presidenza di Ferdinand Marcos, che nel 1972 impose il coprifuoco instaurando la dittatura... e nonostante questo era ben contento di permettere agli americani di girare sul suo territorio storie che spesso inneggiavano a fughe da dittature parafasciste!

Hartley, insomma, racconta ancora una volta un mondo dalla doppia identità, dove capitalismo sfrenato e istinti libertari si intrecciano liberamente e trovano peraltro nella figura dello stesso Corman il paradigma delle proprie contraddizioni: il grande produttore indipendente, infatti, era ossessionato dal guadagno e dal successo, ma allo stesso tempo si poneva come alfiere di un cinema politico, capace di respirare le istanze libertarie che animavano il complesso quadro storico-politico dell'epoca. Il fatto stesso che lo sguardo di Hartley sia trasversale (in quanto proveniente da un documentarista australiano che racconta la storia di una cinematografia altra, che si contamina con il contesto indipendente “Off-Hollywood”) permette di comprendere meglio la cifra controversa di questo particolare momento dell'industria cinematografica americana e filippina. Attenzione, però: tutto questo è ciò che ribolle sotto traccia. In superficie, Machete Maidens Unleashed! è infatti una autentica “B-Movie Feast” che omaggia la cifra più chiaramente eccessiva di produzioni sgangherate, dove abbondano nudi, mostri, azione a rotta di collo, ragazze armate di mitra e machete (appunto) e la consapevolezza che la sicurezza degli interpreti è opzionale di fronte alla necessità di portare a casa il risultato con il minor sforzo (economico) possibile, in modo da massimizzare il guadagno.

Hartley affronta la materia usando lo stesso stile “pop” di Not Quite Hollywood, ma facendo anche attenzione a seguire un percorso lineare. Possiamo così riassumere la storia di questo cinema american-filippino sotto il nome di tre registi: Eddie Romero (specialista in horror con mostri e nudi), Ciro H. Santiago e Bobby A. Suarez (a loro agio con l'azione e la blaxploitation), mentre i generi citati comprendono anche una grande parentesi dedicata ai Women In Prison, ovvero i film di donne in fuga da prigionie, che forse meglio di tutti gli altri riassumono i presunti istinti “libertari” di Corman (che pure confessa di non averli amati per la loro cifra estremamente spinta dal versante sessuale).

Il tutto culmina nell'anomala “legittimazione” che l'idea di girare nelle Filippine trova nello sbarco di Francis Ford Coppola per le riprese del suo capolavoro Apocalypse Now: da questo versante Hartley trova non solo la quadratura del cerchio, ma anche il punto di contatto fra le pratiche basse della filippino-exploitation e il cinema “alto” (facendo anche luce sul presunto uso di veri cadaveri sul set coppoliano). Dall'altro versante c'è invece il Manila International Film Festival, fortemente voluto dal regime di Marcos nel 1981 per spronare l'industria locale... e che per ironia della sorte è stato proprio la fucina da cui è emerso il fenomeno Weng Weng (della serie: ultimi “bagliori” di un'era).

Va comunque aggiunto che, passato il momento di esaltazione e divertimento per l'ennesima pagina di cinema sommerso che Hartley riporta a galla, non si può non notare come il materiale proposto sia veramente di basso profilo: diversamente dall'Ozploitation, queste coproduzioni filippine sono infatti povere e non descrivono una realtà produttivamente e artisticamente interessante come quella australiana. Ragion per cui il film finisce per decadere in un'aneddotica spicciola dove risulta più interessante il divertimento per le condizioni assurde di lavoro che per i film in quanto tali. Dunque non aspettatevi di scoprire nuovi tesori, ma se il bizzarro è il vostro credo, il documentario potrà comunque fornirvi carne da mordere. Da precisare che, al pari di Not Quite Hollywood anche questo film è inedito in italia e va rintracciato attraverso i canali dell'import (c'è un'ottima edizione DVD americana a cura della Dark Sky Film, su cui si basa questa recensione).

Al momento Hartley è al lavoro su una terza pellicola, che completerà questa trilogia di documentari sul cinema sommerso: il titolo è Electric Bogaloo e racconterà la storia di una famigerata casa di produzione americana degli anni Ottanta, la Cannon di Menahem Golan e Yoram Globus. Speriamo bene!


Machete Maidens Unleashed!
Regia e sceneggiatura: Mark Hartley
Origine: Australia, 2010
Durata: 88'

mercoledì 1 agosto 2012

The Adventures of Barry McKenzie

The Adventures of Barry McKenzie

Barry “Bazza” McKenzie riceve in eredità dallo zio appena scomparso una cospicua somma di denaro. Perché possa fruirne, però, deve rispettare una condizione: trascorrere un periodo nella Vecchia Inghilterra, sulle orme del “glorioso” lignaggio dei McKenzie. Un'occasione che vale oro per lui che non ha mai abbandonato la patria australiana: non che Barry abbia mai voluto farlo, beninteso, tanto che la vita londinese inizia ad andargli stretta fin da subito. Le molte avventure e occasioni di scontro con i rigidi cerimoniali degli inglesi mal si conciliano infatti con i suoi modi semplici, e le migliori occasioni arrivano ancora una volta dalle bevute con i connazionali. Reclutato per recitare in spot televisivi, partecipare a dibattiti, o per onorare contratti discografici, Barry affronta ogni situazione con ingenuo candore e modi “scorretti” che portano immancabilmente tutto a degenerare nel caos.


Se l'horror crea i cult-movie e l'action i blockbuster, la commedia è senza dubbio il genere deputato a plasmare i fenomeni. Non stupisce pertanto che la prima, vera, grande icona dell'Ozploitation sia quella di Barry McKenzie: il suo arrivo sul grande schermo si pone a metà strada fra la “promozione” di un fenomeno preesistente (pensiamo ai comici attuali, che “nascono” sulla ribalta televisiva e poi diventano campioni d'incassi al botteghino) e il cinefumetto. Barry McKenzie nasce infatti come protagonista di una striscia umoristica creata dal comico, attore e sceneggiatore Barry Humphries, pare con l'ausilio dell'autore satirico John Cook (entrambi recitano nel film, l'uno nei triplici panni di zia Edna, un hippy e del dr. DeLamphrey, l'altro del regista televisivo Dominic). La pellicola che ne scaturisce rivendica quindi con forza l'identità profondamente australiana del format e segue in questo senso le direttive della nascente industria cinematografica “aussie”.

Facciamo un passo indietro: nel 1969 il governo inizia un piano di investimenti per permettere alla scena filmica australiana di diventare un'autentica industria e questo porta, l'anno dopo, alla creazione dell'Australian Film Development Corporation. Contestualmente, le maglie della censura si allargano e viene introdotta la classificazione “R” (vietato ai minori) che lascia mano libera ai registi e all'introduzione di temi che oggi chiameremmo “politicamente scorretti”. Non è tutto: in questa prima fase, infatti, non si pensa alla possibile esportabilità dei prodotti e, quindi, le pellicole hanno ancora un carattere fortemente nazionale: Barry McKenzie è la figura che si pone al crocevia di tutte queste istanze. E' una pellicola marcatamente australiana, sostenuta da fondi pubblici, fortemente “di cassetta” e si avvantaggia delle libertà concesse dalla censura mostrando un protagonista beone e sboccato, che si muove come una piccola forza distruttiva, vomitando (letteralmente!) su chi non gli va a genio ed è affiancato da compatrioti non meno sui generis, bravi a cercare la baldoria e capaci di estinguere gli incendi urinandoci sopra (d'altra parte, con tutta quella birra in corpo...).

Il film diventa, così, il primo “Oz” a superare il milione di dollari d'incasso nella storia australiana, e legittima il genere dell'”Ocker Comedy”, dove “Ocker” sta per il classico stereotipo dell'australiano rozzo e privo di cultura: una figura che allo stesso tempo fa satira sui costumi della propria terra e prende in giro (fingendo di ossequiarlo) il ritratto imperante all'estero, dove l'Oceania è considerata la periferia dell'impero - quello britannico ovviamente. Barry McKenzie non è il primo “eroe” del genere (il primato spetta infatti a Stork, dell'anno prima), ma è quello più rappresentativo e che - con i dovuti distinguo - fornisce anche la matrice per personaggi a noi più noti, come il Crocodile Dundee interpretato da Paul Hogan. Dove il modello si distingue dagli epigoni è per il carattere assolutamente non compromissorio delle sue storie. Possiamo infatti affermare che Barry è Dundee se l'avessero inventato i Monthy Python: il creatore Barry Humphries convoglia nella sceneggiatura tutta la forza dissacrante del tipico umorismo sovversivo dell'epoca, che rompe gli schemi, e si offre attraverso giochi visivi e lessicali all'insegna delle esagerazioni e del nonsense, utili a tenere insieme la struttura alquanto episodica dell'intera storia. Che poi il tutto peschi abbondantemente dalla scena underground e dagli umori della contestazione coeva è esplicitato in modo abbastanza chiaro dalla scena del “concerto” che vede Barry conquistare una platea di hippy (contro cui il film pure non manca di assestare qualche gustosa stoccata).

Oggi, in verità, assuefatti come siamo al “gusto del cattivo gusto”, la portata rivoluzionaria dell'operazione risulta più mitigata, e i giochi verbali risultano di difficile comprensione, a meno di non conoscere bene - oltre alla società dell'epoca - lo slang australiano, che il film contrappone con efficacia a quello inglese attraverso il felice escamotage narrativo dello “straniero in terra straniera” (e del colono nella madrepatria). Colpiscono più le gag visive, come il leitmotiv della birra che sgorga a fiumi dalle lattine ricoprendo gli imperturbabili bevitori, ma ugualmente si riesce ad apprezzare anche il ritratto impietoso che gli autori dedicano al gioco degli stereotipi: Barry è infatti tanto rozzo e volgare da costituire l'esca perfetta per il pubblico incline a lasciarsi ingannare dai cliché; ma, ancora più significativo è il fatto che la realtà inglese dipinta dal film è piena di uomini avidi, repressi, forti una di presunta superiorità che li porta a tentare di sfruttare il “fenomeno” straniero come se fosse un'attrazione da circo, salvo poi pagarne le conseguenze attraverso la carica satirica e distruttiva che il protagonista veicola con estrema naturalezza (attirandosi, inevitabilmente, le simpatie dello spettatore).

Con il senno di poi, appare inoltre dirompente il fatto che a dirigere un film di questo tipo ci sia nientemeno che Bruce Beresford, oggi conosciuto come autore “serio”, nonché vincitore dell'Oscar 1990 per il paludato A spasso con Daisy (e che infatti ha poi rinnegato questi suoi trascorsi). La sua regia scolastica si dimostra raramente capace di andare al di là del semplice mettere in scena le varie gag e rende l'incedere della storia macchinoso e troppo lungo. Va comunque citata la bizzarra sequenza onirica in cui Barry viene aggredito dai nativi, resta senza birra e diventa uno scheletro! Non siamo insomma di fronte a un caso come quello che ha visto John Belushi trovare in John Landis un autore capace di veicolarne la carica eversiva. Per certi aspetti, però, questo rende ancora più significativo il lavoro di scrittura di Humphries e l'interpretazione di Barry Crocker (che è anche un bravo cantante), autentica architrave della pellicola.

Il carattere fortemente autoctono dell'operazione ha immancabilmente fatto sì che il film restasse inedito in Italia. Anche in questo caso bisogna quindi ricorrere all'import e mai come stavolta la mancanza dei sottotitoli può costituire un handicap capace di scoraggiare più d'uno spettatore.


The Adventures of Barry McKenzie
Regia: Bruce Beresford
Sceneggiatura: Bruce Beresford, Barry Humphries
Origine: Australia, 1972
Durata: 108'