"C'è chi crede in dio o nel denaro. Io credo nel cinema, nel suo potere. L'ho scoperto da ragazzino, mi ha aiutato a fuggire da una realtà in cui ero infelice. È una delle forme d'arte più alte che l'uomo ha concepito. Credo nel suo futuro."
(John Carpenter)

martedì 30 ottobre 2012

Godzilla il re dei mostri: Il sauro radioattivo di Honda e Tsuburaya

Godzilla il re dei mostri: Il sauro radioattivo di Honda e Tsuburaya

Sta per uscire nelle librerie italiane il mio secondo libro, scritto con la collaborazione di Andrea Gigante e Gordiano Lupi per le edizioni Il Foglio Letterario: dopo quella di Halloween, stavolta sotto la lente c'è una saga ancor più corposa, quella di Godzilla, il re dei mostri nipponici, generato dalla bomba atomica nel 1954 e protagonista di numerose pellicole lungo un arco di tempo che copre 50 anni.

Non è il primo libro sul tema che viene pubblicato in Italia, ma è forse quello con un'ambizione in più: realizzare un saggio che vada al di là dei semplici ricordi nostalgici o dell'informazione cinefila, con contributi critici e analisi che permettano a questa figura di emergere come un simbolo legato tanto ai terrori atomici dei Cinquanta, quanto all'evoluzione della società giapponese (e non solo) nel corso dei decenni.

Inoltre il volume rappresenta anche un'occasione per correggere il tiro rispetto a molte informazioni errate e a pregiudizi diffusi sul kaiju eiga, il cinema dei mostri giapponesi, qui trattato con rispetto e con l'importanza che va attribuita ad un autore come Ishiro Honda, che di Godzilla fu il primo, il più importante e il più prolifico regista.

L'uscita del libro rappresenta poi anche la chiusura di un cerchio personale iniziato alcuni anni fa quando sono diventato amministratore del sito (e relativo forum) Fantaclassici - Godzilla Italia, dedicato proprio al kaiju eiga (anche il coautore Andrea Gigante è amministratore della stessa community).

Il saggio si compone di 310 pagine e analizza tutti i film di Godzilla, propone approfondimenti sui suoi artefici, sulle avventure televisive del sauro atomico, ne contestualizza la portata nella Storia e nella cultura popolare e include un ricco apparato con un'analisi dei vari costumi del mostro e una galleria fotografica.

Di seguito l'indice:

INDICE

Introduzione

PARTE PRIMA
Un mostro di successo

C'era una volta in Giappone: L'inizio
Storie dall'Isola dei mostri: Il personaggio
Gojira - La battaglia contro il nemico interiore - Il film di Honda Inoshiro, tra riferimenti sociologici e proiezioni nella Japan Animation (a cura di Giorgio Mazzola)
La casa dei mostri: Storia della Toho
Ishiro Honda: Pietà per i mostri
Tomoyuki Tanaka: Il trionfo della volontà
Eiji Tsuburaya: Il piacere del gioco
Akira Ifukube: Il ruggito di Godzilla
L'invasione dei telemostri: Godzilla e il piccolo schermo
L'eredità del re: Gamera e gli altri

PARTE SECONDA
I film

Godzilla (1954) di Ishiro Honda
Il re dei mostri (1955) di Motoyoshi Oda
Il trionfo di King Kong (1962) di Ishiro Honda
Watang! Nel favoloso impero dei mostri (1964) di Ishiro Honda
Ghidorah, the Three-Headed Monster (1964) di Ishiro Honda
L'invasione degli astromostri (1965) di Ishiro Honda
Il ritorno di Godzilla (1966) di Jun Fukuda
Il figlio di Godzilla (1967) di Jun Fukuda
Gli eredi di King Kong (1968) di Ishiro Honda
All Monsters Attack (1969) di Ishiro Honda
Godzilla furia di mostri (1971) di Yoshimitsu Banno
Godzilla contro i giganti (1972) di Jun Fukuda
Ai confini della realtà (1973) di Jun Fukuda
Godzilla contro i robot (1974) di Jun Fukuda
Distruggete Kong: La Terra è in pericolo! (1975) di Ishiro Honda
Il ritorno di Godzilla (1984) di Koji Hashimoto
Godzilla contro Biollante (1989) di Kazuki Omori
Godzilla contro King Ghidora (1991) di Kazuki Omori
Godzilla contro Mothra (1992) di Takao Okawara
Godzilla vs. Mechagodzilla (1993) di Takao Okawara
Godzilla vs. SpaceGodzilla (1994) di Kensho Yamashita
Godzilla vs. Destoroyah (1995) di Takao Okawara
Godzilla 2000: Millennium (1999) di Takao Okawara
Godzilla vs. Megaguirus (2000) di Masaaki Tezuka
Godzilla, Mothra and King Ghidorah: Giant Monsters All-Out Attack (2001) di Shusuke Kaneko
Godzilla Against Mechagodzilla (2002) di Masaaki Tezuka
Godzilla: Tokyo S.O.S. (2003) di Masaaki Tezuka
Godzilla: Final Wars (2004) di Ryuhei Kitamura
Godzilla (1998) di Roland Emmerich
Il futuro di Godzilla

APPENDICE
Per approfondire

I costumi di Godzilla
Filmografia
Edizioni Home Video
Bibliografia
Webgrafia

Appendice fotografica


Davide Di Giorgio, Andrea Gigante e Gordiano Lupi
Godzilla il re dei mostri: Il sauro radioattivo di Honda e Tsuburaya
Edizioni Il Foglio Letterario, Piombino 2012, pp. 310, € 15,00

venerdì 12 ottobre 2012

Magic Mike

Magic Mike

Tampa, Florida. Mike Lane ha l'ambizione di aprire un'attività per conto suo, ma intanto si divide fra vari lavori. In un cantiere conosce il giovane Adam (detto “Kid”) e lo introduce nel mondo dello spogliarellismo maschile: Mike è infatti la stella di prima grandezza dell'Xquisite, gestito dall'altrettanto ambizioso Dallas, che sogna di ingrandirsi e trasferire l'attività a Miami. Sulle prime Adam è impacciato, si ritrova sul palco più per caso che per scelta, ma impara in fretta e inizia a commettere sciocchezze come perdere la “roba” che doveva vendere per un pusher. Nel frattempo, Mike diventa amico di Brooke, la sorella di Adam, che guarda con scetticismo al mondo dei locali notturni.


C'è un momento, nel film, in cui Adam viene invitato da un collega a “provare” le grazie di sua moglie. Il ragazzo esegue, e allo stesso tempo i due uomini si scambiano attestazioni verbali di affetto. In quel breve scambio di battute, che poi il montaggio tronca quasi bruscamente, è come se Steven Soderbergh scoprisse le carte ed esplicitasse in maniera molto più diretta che nel resto del film lo scopo del progetto: raccontare lo slittamento di senso della nostra realtà e della nostra società.

In effetti, così come il ragazzo “ama” il collega per l'intercessione del corpo di sua moglie, così Magic Mike racconta la fragilità del mondo contemporaneo e i disastri portati dai nuovi modelli economici attraverso l'esibizione in odore (apparente) di exploitation dello spogliarellismo maschile. La differenza che passa fra Magic Mike e un qualsiasi film pensato soltanto per solleticare i bassi istinti del pubblico specializzato, infatti, sta proprio nell'elaborata consapevolezza con cui il regista oppone la perfezione esteriore del corpo maschile come strumento spettacolare ai drammi interiori di persone in cerca dell'occasione e del successo.

Pertanto, il protagonista Mike assume i contorni di una figura disallineata, anche tragica se vogliamo. Certo, nessuno ascoltando la sua fluente parlantina e osservando i suoi modi simpatici penserebbe mai a un protagonista in difficoltà. Il dramma, se vogliamo usare questa espressione, sta nella sua doppia natura e nel conflitto irrisolto fra persona e personaggio che solo l'amica Brooke riesce a vedere e che, ad altri livelli, è incarnato anche da Adam. Mike, infatti, è il re del night, ma non si sente parte stabile della compagnia, in quanto è sempre orientato verso il sogno di un'attività in proprio, negatagli dalle contingenti regole economiche e dalla crisi del sistema finanziario (la banca gli nega il prestito, pur davanti alla grossa somma di denaro che lui è pronto a depositare in contanti). Mike vive, insomma, in uno stato di precarietà interiore che viene suo malgrado oggettivizzato quando le regole per codificare la realtà diventano quelle contraddittorie dell'economia.

Come già in altre opere del regista, il tono è sempre a metà fra l'empatia verso personaggi ben delineati e una tendenza all'astrazione che si ritrova in una forza visiva capace di esaltare il valore della messinscena: abbiamo così numeri musicali quasi sempre frontali rispetto allo spettatore (come a riprodurre la teatralità della scena e dei balletti), un ritmo contemplativo rispetto ai momenti di vita quotidiana e una qualità molto alta dei dialoghi, dove si tirano in ballo una grande quantità di concetti. Soderbergh conosce la macchina cinema come pochi e ne sfrutta sapientemente a suo vantaggio i codici: sarà anche troppo teorico, come qualcuno insinua, ma è di una fattura talmente lucida e coerente nella sua indipendenza da non lasciare indifferenti.

Pertanto, il regista non è interessato soltanto alla dinamica di genere, ma a un ritratto più allargato che comprenda le fragilità e i punti critici della società contemporanea. In questo senso Magic Mike diventa un film politico, che racconta il fallimento di un modello sociale attraverso una classica parabola da “american dream” che sembra quasi una parafrasi di Flashdance, ma ne è invece una sua versione rovesciata. Prova ne sia il fatto che la potenziale storia d'amore, stavolta, non si risolve con l'affermazione professionale, come avveniva nel classico di Adrian Lyne, ma al contrario con la rinuncia del protagonista al trasferimento nella capitale della Florida. Lavoro e realizzazione umana, dunque, non vanno più di pari passo, ma devono essere sfalsati perché il protagonista risolva il suo conflitto.

Sembra quasi che il Sogno Americano sia diventato l'Incubo Americano, insomma, per come sacrifica l'umanità dei personaggi. In questo senso, come già accennato, è Adam a costituire l'altro importante fulcro della storia: il suo percorso, infatti, è esattamente quello codificato dalla tradizione delle storie di successo, fatto che lo rende quasi una figura “negativa”. Da perdigiorno che viene sorpreso sul posto di lavoro (precario) a sottrarre una lattina di bevanda in più, a idolo delle folle che si inebria del suo carisma e arriva anche a procurare guai ai colleghi, ma senza curarsene troppo. Soderbergh evita comunque il manicheismo e non fa mai esplodere del tutto la conflittualità fra i due protagonisti, ma l'asimmetria dei rispettivi percorsi è comunque capace di fornire linfa e complessità al discorso che più gli interessa.


Magic Mike
(id.)
Regia: Steven Soderbergh
Sceneggiatura: Reid Carolin
Origine: Usa, 2012
Durata: 110'


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giovedì 11 ottobre 2012

Reality

Reality

Luciano lavora a Napoli in una pescheria, è marito e padre di famiglia ed è una persona gioviale, che cerca di far quadrare il bilancio e non cedere alle difficoltà della vita. Spinto dai familiari, un giorno partecipa per gioco a un casting per la nuova edizione del Grande Fratello, senza aspettarsi nulla. Con sua grande sorpresa, invece, viene convocato a Roma per una seconda fase di selezione e da quel momento si convince di essere stato scelto. Per questo passa i mesi seguenti in uno stato di profonda tensione, inizia a vedere possibili spie della trasmissione dappertutto, fino a sfociare in un comportamento ossessivo che lo porterà a mettere a rischio tutto quello che ha, compresi gli affetti familiari.


Realtà e Reality. Due termini che normalmente dovrebbero essere lo stesso, in due lingue differenti, ma che invece al giorno d'oggi hanno finito per diventare distinti e determinare un intervallo: quello fra la concretezza del vero e la sua rappresentazione mediatica. Il problema inizia quando non si riesce più a distinguerle e la vita quotidiana si trasforma in un grande spettacolo: Matteo Garrone si è fatto carico di indagare la contraddizione insita in quell'intervallo e lo ha fatto nel modo più poetico e intelligente che si potesse pensare, attingendo a tradizioni di lunga data, dimostrando come l'arte – più di ogni altra cosa – sia un punto d'osservazione privilegiato.

Nelle maschere irresistibili che connotano la vicenda di Luciano, infatti, possiamo vedere un omaggio alla tradizione teatrale partenopea, così come nel protagonista stesso un discendente dei tanti volti agrodolci della commedia all'italiana (e fa solo venire i brividi pensare che l'attore è in realtà un ergastolano condannato per strage, giusto per rimarcare un altro possibile gioco di sovrapposizioni). Non è un caso che Garrone rievochi questi modelli. Lo fa per appartenenza a filoni che possedevano un'ampia vena satirica, unita a una capacità unica di veicolare le loro istanze con grande immediatezza. Ma lo fa anche perché, a un livello secondario, il film è completamente avvolto dall'idea della rappresentazione e, quindi, non può che rimandare a modelli di fiction.

Se la commedia italiana e la tradizione teatrale delle “maschere” costituiscono modelli nobili, Reality evoca comunque fin dal principio altri possibili esempi di rappresentazione, mostrandone la loro perfetta compenetrazione con gli schemi culturali e sociali dell'Italia. Abbiamo quindi il matrimonio e la sua coreografia spettacolare (con tanto di visita del “divo” baciato dal successo televisivo e foto di gruppo); oppure la pescheria, dove Luciano è su una pedana-palco da cui chiama a raccolta i clienti come un esperto entertainer. L'idea del “palco” si ritrova anche nel piccolo balcone dal quale Luciano regala la mobilia di casa agli avventori che crede essere emissari dello show televisivo. In ogni momento della sua vita, quindi, Luciano è già un “personaggio”, in cerca di una legittimazione.

Garrone fa però un doppio passo in avanti, chiamando in causa sacro e profano. Non va infatti dimenticato che un altro momento di rappresentazione, profondamente legato a un rituale, è quello della Via Crucis cui Luciano va ad assistere nel prefinale. E in effetti tutto il film è attraversato sottilmente anche da una vena cristologica che ci rimanda alla religiosità come sublimazione di una ritualità rappresentata: questo diventa evidente sia nella letterale odissea che il protagonista patisce e che lascia intravedere i segni di un'ossessione degna di un invasato religioso, sia nel momento in cui “chiede udienza” al divo Enzo mostrandosi attraverso una grata che ha il sapore dello spazio angusto di un confessionale.

D'altronde, non è il “confessionale” uno degli spazi più celebri proprio del Grande Fratello? E quindi è logico che a un livello primario la trasmissione tv sia quella che riassume tutti gli spunti fin qui enumerati, sia il motore degli eventi e la sua sintesi, che trova facile sponda in quella società che vorrebbe asetticamente raccontare, ma che invece sottilmente plasma e plagia. Garrone non cade nel manicheismo di credere che la tv sia il Male, ma - esattamente come accadeva con i suoi film precedenti - si pone nella posizione dell'osservatore, proponendo frequenti riprese dall'alto e iscrivendo il film fra il movimento a scendere iniziale e quello a salire del finale, che sembra quasi richiamare ancora una volta un motivo religioso, quello dell'ascesa dell'anima.

Il rischio, a questo punto, è quello di un film arido e pianificato a tavolino, magari succube della scrittura più che della possibilità di elaborare gli spunti visivamente. Ma non è questo il caso: Garrone dimostra infatti una malinconica empatia per il suo personaggio e chi gli sta attorno e si dimostra più interessato al suo dolore che alla natura ossessiva del suo male (d'altra parte da questo versante verrebbe agilmente surclassato dal grandissimo Amir Naderi di Vegas). Perciò abbandona spesso le riprese dall'alto per incollarsi ai volti degli attori e quasi li accarezza: la sua “osservazione” non è quindi giudizio morale, ma più che altro una fascinazione estetica per un mondo che sotto lo sguardo della sua macchina da presa mostra la sua trasfigurazione.

In questo modo Garrone riesce a entrare nella mente del protagonista, marcando il passaggio dalla Realtà al Reality attraverso l'intercessione della massima fiction possibile: quella della fiaba. Così, quando, nel magnifico finale, Luciano arriva alla casa del Grande Fratello e la osserva dai vetri esterni prima di “varcare la soglia”, non sembra di vedere Alice prima che attraversi lo specchio? Per questo la scena ha il sapore di un sogno, una consistenza assolutamente fantastica. È in quel momento che tutte le direttrici convergono: Luciano varca il cancello del suo Paradiso. Che però è soltanto suo, è lo spazio che gli permette di riconciliarsi con la propria ossessione, di non essere più un “caso” medico e di ritrovarsi al centro del mondo più agognato, ma solo e ignorato da tutti. Un finale potentissimo e lirico, il più giusto che si potesse chiedere a questo film straordinario.


Reality
Regia: Matteo Garrone
Sceneggiatura: Matteo Garrone, Massimo Gaudioso, Maurizio Braucci, Ugo Chiti
Origine: Italia, 2012
Durata: 115'

martedì 9 ottobre 2012

Battleship

Battleship

Alex Hopper è un tipico ragazzo che spreca il suo potenziale dietro frequenti bravate: ad esempio a un certo punto si fa arrestare per furto dopo essere entrato in un minimarket... e il suo scopo era solo portare del cibo a una ragazza per fare colpo su di lei! La prescelta, Samantha, è peraltro la figlia del severo Ammiraglio Shane, cui Alex si ritrova subordinato quando il fratello, stufo delle sue bravate, lo costringe ad arruolarsi in Marina. I nodi vengono al pettine durante un'esercitazione alle isole Hawaii che coinvolge numerose nazioni con le loro navi militari. In quel giorno, infatti, Alex deve chiedere la mano di Samantha al padre; ma quel giorno è anche quello prescelto da una razza aliena per una missione perlustrativa sul nostro mondo in seguito al richiamo emesso dalla NASA sette anni prima. Gli alieni non sono benevoli: armati di una tecnologia impressionante, tengono in scacco le navi mentre cercano di stabilire una trasmissione che richiami dal pianeta madre nuove truppe. Alex si ritrova al comando di una nave e deve affrontare gli alieni e impedire che riescano a ultimare il trasmettitore.


Come già in Hancock, Peter Berg dimostra di prediligere un cinema basato su concept che più pop non si potrebbe: nel caso specifico, infatti, Battleship è basato sul tradizionale gioco della Battaglia Navale, e, in particolare, sulla versione da tavolo della Hasbro con luci e suoni nota come “Affonda la flotta”. Ci sarebbe di che ammirare la follia insita in un simile progetto e forse anche per rasserenare gli scettici la produzione ha cercato un evidente richiamo ai Transformers di Michael Bay (basati sul più popolare fra i franchise della Hasbro), sia per il look “meccanico” degli alieni invasori, sia per l'evidente filiazione stilistica dal modello, con tanto di fotografia saturata, ampi movimenti della macchina da presa e una colonna sonora ancora una volta affidata all'epico Steve Jablonsky.

Come entra in gioco lo sguardo di Berg in una struttura così apparentemente “chiusa” e codificata? Semplicemente assecondando le ragioni più profonde del “colpito e affondato”, ovvero il contatto a distanza fra realtà differenti. Infatti, così come Hancock raccontava il problematico approccio a un mondo diviso fra supereroi capaci di compiere imprese “bigger than life” e quello degli umani con cui pure il protagonista cercava di armonizzarsi, così Battleship racconta ancora una volta un “incontro ravvicinato” fra una razza avanzata tecnologicamente e un pianeta bramato come nuova terra in cui insidiarsi (dopo la distruzione del mondo natale portata dalla guerra - e anche qui si torna a Transformers).

In effetti, superata la lunga introduzione, Battleship diventa il racconto di due realtà in collisione, dove però lentamente si passa dall'evidente superiorità degli invasori a numerosi punti di eguaglianza fra le razze: anche gli alieni, infatti, sotto la corazza hanno un aspetto vagamente umanoide, sono fatti di carne, respirano e sognano perciò il nostro mondo come un Eden perduto: sono, insomma, a tutti gli effetti delle creature animate da un principio guida che quasi fa guadagnare loro il rispetto dello spettatore, un po' come Hancock imparava ad essere amato dagli umani. Al contrario, la nostra razza fa sfoggio delle sue potenzialità belliche, con parate militari che esaltano l'innovazione tecnologica in grado di innalzarci dal nostro livello abituale, elevandoci letteralmente a potenza. Lo schema narrativo diventa dunque chiaro e si basa su precisi rispecchiamenti: gli alieni bramano il mondo degli umani, che pure sognano una la tecnologia bellica di alto livello come quella degli invasori.

Per questo, ben presto il gioco non si orienta tanto sull'annichilire velocemente l'avversario, ma sul comprenderne le strategie. Qui il film cala il suo asso realizzando un capolavoro di ingegno narrativo: il momento di snodo, infatti, quello in cui si realizza la parità delle forze tra i fronti in campo prima dell'inizio del rivolgimento finale che condurrà alla vittoria degli umani, è proprio quello che realizza fattivamente lo schema classico della battaglia navale tradizionale. Umani e alieni non “si vedono”, ma devono cercare di comprendere tatticamente lo schema dei reciproci movimenti, provando la tipica strategia del “colpito” e “affondato”. Genio assoluto: come riassumere in un solo momento le finalità commerciali della pellicola e le motivazioni tematiche del racconto. Dopo aver visto una simile trovata, chi potrebbe mai ritenere “impossibile” trarre una storia da qualsiasi cosa?

Come poc'anzi evidenziato, la seconda parte porta al rivolgimento della situazione: è interessante notare come la vittoria avvenga sostanzialmente perché uno dei due fronti riesce a valorizzare i propri punti di forza, ristabilendo una distanza con l'avversario. Gli umani, infatti, abbandonano i panni ipertecnologici per puntare su un ritorno alle origini delle loro capacità belliche, a una guerra più “sporca” e meno “chirurgica”, fatta di vecchi bombardieri e veterani che tornano in campo. Il film diventa così quasi un viaggio a ritroso verso l'essenza dello scontro (si tira in ballo – anche se un po' a sproposito – pure L'arte della guerra di Sun Tzu), e cerca il punto di equilibrio fra l'essenzialità del concept su cui si basa il gioco ispiratore (la Battaglia Navale appunto) e la tensione cara a Berg del confronto fra realtà diverse. Stavolta gli eroi non hanno bisogno di sacrificarsi come Hancock e il dramma viene fortunatamente evitato: tutto sta comunque nel comprendere i propri sentimenti e le proprie motivazioni attraverso un rispecchiamento con un fronte speculare.

Non a caso l'intera vicenda è accompagnata dal percorso di formazione di un giovane avventato che deve imparare a cooperare con i compagni e a mettere da parte le proprie intemperanze: è come se Berg ci dicesse che, d'accordo, è un film-giocattolo, ma forse può anche essere qualcosa di più se si impara a guardare oltre. Chi, comunque, non volesse andare al di là dello spettacolo, può godersi le scene di mero impatto visuale, che di certo il film dispensa con grandissima generosità.


Battleship
(id.)
Regia: Peter Berg
Sceneggiatura: Jon e Erich Hoeber
Origine: Usa, 2012
Durata: 131'

lunedì 8 ottobre 2012

Night of Fear

Night of Fear

Dopo aver incontrato il suo amante, una donna sale in auto per tornare a casa, ma durante il viaggio finisce fuori strada e si ritrova bloccata nel bosco: è l'inizio di un incubo. Un minaccioso figuro con il volto sfregiato la aggredisce e la bracca, mentre la malcapitata cerca una via di fuga e si ritrova costretta a barricarsi nella casa del suo aguzzino. A sue spese scoprirà il macabro hobby dell'uomo: allevare topi, educandoli a nutrirsi di carne umana!


Terry Bourke, “producer, director, writer, egotistical bastard” nelle parole dell'attore Roger Ward, è una di quelle figure dimenticate, ancor più dopo la sua scomparsa, avvenuta nel 2002. Eppure a lui si può attribuire la nascita del cinema horror australiano vero e proprio. In realtà la genesi di Night of Fear è più anomala di quanto non si creda: in origine, infatti, il film doveva essere il pilot di una serie televisiva, fatto che ancora oggi ne giustifica la durata di soli 50 minuti. Bourke lo scrisse e diresse, oltre a produrlo insieme al suo socio Rod Hay: i due strinsero un accordo con l'emittente ABC, forti del fatto che gli executive del network volevano allargare il loro campo d'influenza e che l'horror era allora un genere quasi del tutto inesplorato per la realtà australiana. Siamo infatti, sempre nel periodo del “giro di boa”, all'inizio di quegli anni Settanta dove l'industria era tutta da inventare e il fascino del proibito diventava una carta da giocare, sia dal versante artistico che da quello finanziario.

Con un budget ridotto a disposizione, Bourke utilizzò volti e maestranze della tv, prima fra tutti la protagonista Carla Hoogeveen, che il regista aveva incontrato negli uffici della ABC. La ristrettezza dei mezzi è qualcosa che ancora oggi si può notare, insieme a certe asperità della fotografia che tradiscono l'origine televisiva: Bourke però pensava in grande e, soprattutto, aveva l'ambizione di realizzare un cinema horror senza complessi d'inferiorità rispetto a quello delle altre realtà internazionali. Per questo il film venne girato in pellicola 35mm (poco usuale per gli standard televisivi dell'epoca) e, come spesso accade, il lavoro ha finito suo malgrado per anticipare alcune tendenze del cinema a venire. Se oggi, infatti, siamo abituati a lavorare sulla traccia del confronto continuo fra la parte “occidentalizzata” dell'Australia e gli spazi aperti dell'Outback, Night of Fear al contrario ci precipita in una realtà fatta quasi totalmente di interni, in una casa immersa tra i boschi che sembra presa direttamente dai futuri prototipi dell'horror anni Settanta americano (pensiamo al seminale Non aprite quella porta o al coevo L'ultima casa a sinistra). Quel rapporto di reciproca influenza tra l'horror americano e quello australiano, cui si faceva accenno a proposito di Wolf Creek, ha insomma radici lontane.

Il che ci conduce a un punto nodale del film: il suo equilibrio fra la specificità di una ricetta autoctona e una universalità che rende i luoghi del racconto assolutamente privi di riferimenti certi. Il bosco in cui si muove il maniaco è un altrodove non localizzato, che si apre pertanto a qualità oniriche. In effetti - ed è l'aspetto più intrigante del film - colpisce la qualità fiabesca di un racconto che pure si pone come estremamente fisico e realistico. Burke ottiene questo doppio registro attraverso il confronto fra una fotografia scarna (televisiva, appunto) e un elaborato lavoro di montaggio, che isola singoli elementi, innesta inquadrature disturbanti a velocità quasi subliminale, a tratti rompendo anche la linearità della narrazione. La coesistenza di realtà e incubo è poi suggellata da una sequenza onirica vera e propria in cui la protagonista è vittima del suo carnefice, completamente nudo e coperto solo da un ripugnante teschio insanguinato. Il crescendo emotivo culmina infine nella celeberrima scena in cui la donna è assalita dai topi allevati dall'uomo, mentre questi si gode la scena masturbandosi. La scena, ispirata dal vicino successo di Willard e i topi, doveva essere girata con un vetro in grado di assicurare l'incolumità di Carla Hoogeveen: all'ultimo momento, però, Bourke chiese all'attrice di recitarla senza alcuna protezione, in nome di un maggiore realismo! L'effetto, va da sé, risulta perciò assolutamente efficace anche oggi.

Altrettanto intrigante è la scelta di escludere del tutto i dialoghi: il film è praticamente muto e si affida alla forza delle immagini, delle situazioni e dei suoni, esaltando la qualità particolarmente onirica del racconto, pur nella messinscena di perversioni particolarmente umane (tassidermia, zoofilia e, naturalmente, sadismo). Questo fatto avrebbe potuto assicurare a Night of Fear una circolazione anche dalle nostre parti, ma come sempre il mercato italiano è rimasto sordo e il film è tuttora inedito (questo resoconto, ancora una volta, è basato sull'edizione DVD import della Umbrella Entertainment).

A fronte di questo mix di atmosfere angoscianti e impatto ripugnante delle immagini, la censura dell'epoca non fu tenera con Bourke: nell'Ottobre del 1972 si arrivò infatti a un primo montaggio che fu però respinto per “indecenza”. Il film dovette così attendere il marzo 1973 prima di trovare il via libera, grazie a un appello favorevole, e alla fine l'ostracismo censorio fu usato a scopi pubblicitari rendendo l'operazione un successo (lo slogan di lancio fu “Il film che non volevano farvi vedere”).

La pellicola, comunque, uscì direttamente in sala e dell'annunciata serie tv non se ne fece nulla: la formula però resta quella originale e così, dopo il prologo, abbiamo ancora oggi la sigla del format, previsto in 12 puntate e intitolato Fright. Per ironia del destino, nello stesso periodo l'Inghilterra produsse un altro film con lo stesso titolo (Fright, appunto, diventato da noi L'allucinante notte di una baby sitter e diretto da Peter Collinson), fatto che costrinse la distribuzione a doversi anche barcamenare fra gli imprevisti causati dall'omonimia.


Night of Fear
Regia e sceneggiatura: Terry Bourke
Origine: Australia, 1972
Durata: 50'