"C'è chi crede in dio o nel denaro. Io credo nel cinema, nel suo potere. L'ho scoperto da ragazzino, mi ha aiutato a fuggire da una realtà in cui ero infelice. È una delle forme d'arte più alte che l'uomo ha concepito. Credo nel suo futuro."
(John Carpenter)

venerdì 30 novembre 2012

Torino 30+7

Torino 30+7

Gli anni Settanta sono stati il miglior decennio del XX secolo e il Torino Film Festival è lì a ribadirlo: un periodo turbolento, magmatico, che già presentava tutti i segni della crisi della modernità, eppure era un fermento continuo di creatività e nuovi furori. Tre film della settima giornata è come se sintetizzassero queste affermazioni attraverso una trattazione a tutto campo dei “favolosi Seventies”.
Si parte con l'ottimo Call Girl, di Mikael Marcimain (in Concorso), che racconta il clima nella Svezia del 1976, divisa fra la lotta per la parità dei sessi (portata avanti dai partiti progressisti) e il giro di prostituzione che arrivava ai livelli più alti dello stato, coinvolgendo proprio i paladini dei diritti civili, smascherati nella loro solenne ipocrisia. Il tutto è raccontato attraverso la vicenda di due minorenni, finite nel meccanismo stritolatore a base di sesso, denaro, cocaina e tentativi delle autorità di insabbiare tutto. Che la nazione nordica avesse i suoi scheletri dell'armadio - in piena opposizione al ritratto edulcorato che si è propagandato per decenni - non è una novità: basterebbe citare i romanzi di Stieg Larsson, riferimento inevitabile anche per la figura del detective solitario che si batte per portare il marcio allo scoperto. La struttura si muove dunque fra una parte più intimista e fortemente empatica nei confronti delle ragazze, e dinamiche più spettacolari e di ampio respiro, che rendono la progressione incalzante (memorabile lo score vagamente carpenteriano) e il finale nichilista ancora più duro da digerire. Da segnalare la performance della sempre magnifica Pernilla August, qui nel ruolo della “matrigna” che tira le fila del mercato del sesso.
Basta poi spostare lo sguardo dall'altra parte dell'Europa per ritrovarci nell'Irlanda del Nord scossa dalle divisioni fra cattolici e protestanti, al limite della guerra civile. In questo scenario, un giovane idealista di nome Terri Hooley apre il suo soprendente negozio di dischi, Good Vibrations, che è anche il titolo del film di Lisa Barros D'Sa e Glenn Leyburn (in Festa Mobile). L'attività, infatti, diventa la culla del movimento punk rock di Belfast, che il film presenta come una valvola di sfogo dalle tensioni sociali dell'epoca e come una iniezione di vitalità e divertimento in un mondo squarciato. Good Vibrations e il piccolo mondo di Terri, infatti, diventano un'oasi in cui le divisioni politiche vengono superate in nome del fermento creativo portato dalla nuova tendenza musicale. I due registi lavorano sulle dinamiche della commedia per restituire il clima di euforia e rischiano la carta dell'eccessiva edulcorazione (sebbene non nascondano mai il difficile scenario sociale). Pur con i distinguo del caso si resta così affascinati dalla vicenda e dallo splendido panorama musicale descritto. Il pubblico accoglie con scroscianti applausi.
Dunque il fermento culturale dei Seventies è acclarato, la disgregazione politica e sociale anche: a completare il quadro ci pensa un classico come La rabbia giovane di Terrence Malick, presentato nella sezione Figli e Amanti (dove è stato scelto da Daniele Vicari e Michele Riondino) e che appare in perfetta continuità con il discorso sin qui seguito. La vicenda dei due ribelli senza causa Kit e Holly mostra infatti già tutti i segni del percorso d'autore di Malick, ma con un forte precipitato politico per come le imprese assassine dei due riflettono i disordini umani, materiali e sociali dei Seventies. Il decennio, in fondo, è tutto qui: nella tenerezza dei due amanti, nel romanticismo di un viaggio che è anche un recupero del rapporto con la natura in opposizione alla città, negli scenari mozzafiato delle Badlands e nella violenza immotivata e senza scampo dei giovani in fuga senza una meta. Un film a suo modo necessario e definitivo.
Si chiude con un progetto del tutto diverso e fuori da ogni possibile collocazione temporale: la sezione Onde ci porta infatti Invisible, di Victor Iriarte, racconto di un film di vampiri che... non esiste. La storia è infatti illustrata attraverso sintetiche didascalie su fondo nero, suoni, frammenti di dialogo e, in parallelo, le prove in sala di registrazione di Maite Arroitajuaregi, intenta a creare la colonna sonora con l'ausilio di incredibili performance vocali e vari strumenti. Dunque allo stesso tempo un'operazione che mette lo spettatore nella condizione di dover immaginare un film letteralmente invisibile, unita al processo creativo dell'unica componente non visiva della pellicola: la banda sonora. Un esperimento pertanto radicale, ma anche immaginifico e poetico, con cui risulta interessante confrontarsi.

Call Girl - trailer
Good Vibrations su Facebook
La rabbia giovane - trailer
Invisible - trailer

giovedì 29 novembre 2012

Torino 30+6

Torino 30+6

Con la pioggia che continua a flagellare le strade, chiudersi al caldo nel cinema è decisamente la soluzione migliore, una sorta di grosso incentivo a non badare all'inevitabile stanchezza, dopo sei giorni di intense visioni. La nuova giornata del Torino Film Festival è stata all'insegna delle sperimentazioni e per questo ha visto in prima fila le proposte dalla sezione Onde, l'angolo dedicato alle opere di ricerca, curato da Massimo Causo con la collaborazione di Roberto Manassero.
La prima cartuccia sparata in apertura di giornata è il bel film francese Les gouffres (ovvero “Le voragini”), scritto e diretto da Antoine Barraud, nel quale è possibile ritrovare subito quegli smarrimenti e quelle “fughe e discese” evocate dai selezionatori nelle note di introduzione alla sezione. Protagonista è infatti una donna che, in una non meglio precisata zona del Sudamerica, attende il ritorno del marito, apparentemente disperso dopo essersi recato a esplorare delle voragini scoperte di recente. Lo smarrimento diventa tanto sensoriale quanto panico ed elementale (tanto da far azzardare paragoni con il cinema del primo Peter Weir): il viaggio della donna nelle voragini del titolo è quindi sia reale che metaforico, e dona al film la caratura di horror metafisico, tutto giocato sull'asprezza degli ambienti, i corpi degli indigeni che sembrano abitare le cavità e un uso espressivo delle sfocature che restituiscono lo sfasamento percettivo dell'esperienza. Al film (di soli 65 minuti) è accostato il bel corto portoghese Os vivos tambem choram (“Anche i vivi piangono”), in cui un portuale di Lisbona sogna di fuggire in Svezia. Ci riuscirà? Anche in questo caso il viaggio si carica di slanci onirici, che ci restituiscono un bell'esempio di cinema libero e vitale. Una piccola folgorazione.
Restiamo sempre in Portogallo e facciamo un salto alla proiezione serale, che ha visto (sempre nell'ambito di Onde) protagonista Miguel Gomes, omaggiato da una personale, inaugurata da Tabu, suo ultimo lungometraggio già presentato a Berlino. Una sperimentazione sui codici espressivi del muto (immagine in bianco e nero, formato 4/3, dialoghi spesso sostituiti dalla sola voce narrante) per una storia densa e in bilico fra passato e presente. La struttura narrativa è infatti scissa in due storie ben distinte, che solo a un certo punto si capiranno essere collegate, e formano una tenera storia d'amore raccontata con i codici dell'avventura e financo del feulleiton. Ne viene fuori un film mosaico, composito pur nella sua apparente compostezza, e per questo molto interessante.
Cambiando completamente sezione, continuiamo però il viaggio nei film che rielaborano l'estetica del cinema muto con Blancanieves, fra le pellicole più apprezzate di questa edizione (la sezione è Festa Mobile, mentre il regista è Pablo Berger). Come si può intuire dal titolo, è la favola di Biancaneve, riveduta e corretta in salsa spagnola, tanto che stavolta il padre della fanciulla è un torero, così come i nani... e infine anche la stessa Biancaneve sfiderà il toro nell'arena per riannodare i fili di una vita messa in crisi dalla perfida matrigna - una strepitosa e magnetica Maribel Verdù che cattura fin dal nome: Encarna! Come lo stesso regista ha dichiarato, il progetto è di lunga data, ma si è potuto metterlo in piedi solo dopo il successo di The Artist, con cui presenta delle analogie. Ancor più dopo averlo visto in sequenza rispetto al rigoroso Tabù emerge infatti una certa tendenza alla “carineria” e all'esercizio di stile abbastanza fine a se stesso. Ad ogni modo, considerando la filiazione fiabesca, si può anche soprassedere rispetto a queste perplessità e constatare come la storia si segua comunque con piacere grazie a un ritmo brioso e a una messinscena elegante e priva di flessioni.
In questo percorso non cronologico, si arriva in fondo con le due pellicole dell'immancabile sezione Rapporto Confidenziale, dedicata a ossessioni e fobie. Nel primo caso abbiamo Smashed, di James Ponsoldt, che racconta il dramma dell'alcolismo. La prospettiva però presenta una novità: il punto non è mostrare (come al solito) il decadimento fisico dell'attrice di turno - nel caso specifico Mary Elizabeth Winstead, finalmente in un ruolo decente dopo tanti film inutili; al contrario, il punto sta nel mostrare la ricaduta della scelta di smettere di bere sull'ambiente circostante, sugli amici e i genitori che non capiscono e, paradossalmente, remano contro. In virtù di questa scelta il film si dimostra soprattutto la storia di una scoperta del proprio microcosmo e della propria identità dopo anni di “sballo” e di vita inerziale: va aggiunto, però, che l'impianto segue in maniera abbastanza puntuale i canoni del film “indie” americano, in un continuo andirivieni di ironia e serietà, personaggi tipizzati e una certa verbosità. Da vedere sapendo a cosa si va incontro.
Sul versante delle fobie invece c'è un'altra piccola folgorazione del festival, l'anglo-irlandese Citadel, di Ciaran Foy, in cui il giovane Tommy è perseguitato da misteriose figure che, dopo avergli ucciso la moglie, ora attentano alla vita della figlioletta. Sono esseri attratti dalla paura e per affrontarli Tommy dovrà imparare a convivere con il terrore che ormai connota la sua vita. Ad aiutarlo (forse) ci saranno un prete dai modi spicci e un bambino cieco. Al di là della “mitologia” che il racconto mette in piedi (e che presenta alcune incongruenze), il film ritrae molto bene il senso di annichilimento del protagonista e, nella parte finale, crea un'atmosfera da incubo carica di grande tensione, nonostante le evidenti ristrettezze del budget. Speriamo in una distribuzione italiana!

Os vivos tambem choram - trailer
Tabu - trailer
Blancanieves - teaser trailer
Smashed - trailer
Citadel - trailer

mercoledì 28 novembre 2012

Torino 30+5

Torino 30+5

Scende la pioggia su Torino e l'atmosfera si fa seria: potrebbe apparire un paradosso dopo il lunedì delle visioni oscure, ma in questo caso la “serietà” cui si fa accenno è quella del cinema che guarda al reale e orienta la sua attenzione sui problemi della società o della Storia (quella rigorosamente con la maiuscola). Per carità, niente di cui spaventarsi perché, come si potrà notare, al solito la ricetta è ricca di ingredienti.
L'inizio è infatti affidato a K-11, di Jules Stewart, ex montatrice ipertatuata che balza agli onori della cronaca soprattutto per essere la mamma di Kristen, l'eroina di Twilight. Ma le atmosfere del suo film non potrebbero essere più distanti da quelle di Edward e Bella: l'ambientazione è infatti un anomalo braccio di detenzione carceraria, dove vengono stipati drogati, transessuali e pedofili. L'accostamento delle figure è politically incorrect e in effetti si capisce subito che la Stewart vuole giocare con i cliché, inseguendo modelli “alti” come John Waters o Russ Meyer, al punto che la “regina” di questo “girone infernale” è una novella Tura Satana (un'incredibile performance di trasformismo da parte dell'attrice messicana Kate del Castillo). La ricetta è talmente bizzarra da essere affascinante, ma il finale “buonista” finisce naturalmente per scontentare i cinefili più incalliti.
A spostarsi poi nell'altro titolo della sezione Rapporto Confidenziale si rischia di andare fuori percorso: cosa potrà mai avere di realista un film come Shopping Tour (di Mikhail Brashinsky), in cui una madre russa e il figlio adolescente si ritrovano in balia di finlandesi decisi a sbranarli dopo aver attraversato il confine? E' presto detto: il film insegue il filone del “Point of View Cinema” e viene narrato attraverso i filmati amatoriali che il giovane realizza dal suo telefono cellulare. Una sorta di REC “in movimento”, che ha il pregio di divertirsi a mettere in scena una situazione paradossale e volutamente autoparodistica, ma attraverso uno stile e un tono serissimi. Ecco dunque che i finlandesi sbranano gli stranieri in ossequio a una... antica tradizione culturale (!). E così, anche qui il gioco sui cliché è servito. Un film simpatico, ma che praticamente è monco di un finale (meglio avvisare per tempo gli spettatori che potrebbero restare delusi).
Nessuna possibilità di mancare l'obiettivo, invece, con il film in concorso Az do mesta As/Made in Ash, che è addirittura il rappresentate per l'Oscar della Cecoslovacchia ed è diretto dalla giovane Iveta Grofova: è la storia, indubbiamente drammatica e seria, di una ragazza slovacca inviata dai genitori nella Repubblica Ceca per trovarsi un lavoro. Ma l'occupazione sfuma in fretta e le strade che si aprono per la malcapitata sono la prostituzione o magari accettare l'offerta di un tedesco che la vorrebbe portar via in Germania. Una proposta fragile (l'uomo è sposato), che si scontra con i sogni traditi di una giovane che attende l'ex fidanzato dalla Slovacchia. Il racconto è dolente, ma ha il pregio di cercare un interessante punto di incontro fra una trattazione documentaristica della situazione e una tensione espressionista che lavora sull'inquadratura, con uso lirico del fuori fuoco e fugaci sequenze animate che elaborano il passaggio dalla dimensione ideale in cui la protagonista è immersa a un mondo reale pieno di trappole.
Infine la pellicola più controversa del lotto, il francese Le fils de l'autre, di Lorraine Levy (Festa Mobile): due famiglie, una ebraica e una palestinese, scoprono che i loro figli (ora adolescenti) sono stati scambiati nella culla. La situazione, già complessa di per sé, è naturalmente aggravata dai celeberrimi problemi che uniscono e dividono Israele e Palestina e che costringono i due ragazzi a fare i conti non solo con la propria identità, ma anche con le differenti opportunità offerte dalle rispettive condizioni. Come da prassi, il cinema francese si dimostra narrativamente empatico con il dramma dei personaggi, delicato in molti passaggi e cerca di far sì che lo spettatore si senta un tutt'uno con figure lacerate e in cerca di un punto d'equilibrio. La materia però è talmente incandescente che la reticenza con cui la storia evita di andare a fondo nelle implicazioni enormi portate dal dramma finisce per rendere il film esemplificativo (soprattutto nella seconda parte) e ne smorza molte buone intenzioni. La vicenda ha comunque il merito di fare luce su un problema irrisolto, riletto in chiave non tanto storica quanto umana e “intima”, lasciando sullo sfondo le figure che rappresentano l'autorità (uno dei due ragazzi è figlio di un colonnello dell'esercito israeliano). E infatti i riconoscimenti internazionali non stanno mancando: il pubblico italiano potrà comunque giudicare con i suoi occhi fra un paio di mesi, quando la pellicola sarà distribuita nelle nostre sale.

martedì 27 novembre 2012

Torino 30+4

Torino 30+4

Arrivati (quasi) a metà del guado, il Torino Film Festival lascia spazio alle visioni più oscure, all'indagine nella zona d'ombra della società, qualunque sia la latitudine. Se, ad esempio, partiamo dall'Inghilterra veniamo calati nei panni degli ultimi abitanti di un condominio, tenuti sotto tiro da un cecchino. Il film è Tower Block (Rapporto Confidenziale), diretto da James Nunn e Ronnie Thompson, un thriller teso e basato su una sola idea, portata avanti con convinzione ed efficacia, e non senza riverberi di un certo cinema “politico” anni Settanta (inevitabile pensare a Bersagli di Peter Bogdanovich, sebbene sotto un'ottica non altrettanto metanarrativa). Il regista, non a caso, rivendica di aver voluto trasporre su schermo le tensioni del presente, in particolare le sommosse di Londra del 2011, anche se tutto è perfettamente iscritto in un meccanismo di genere, non privo di alcuni tocchi ironici.
Va ancora peggio (ovvero meglio) in America, da dove giunge Compliance, di Craig Zobel (ancora Rapporto Confidenziale). Siamo nel posto più tranquillo del mondo, ovvero un fast-food di una cittadina come tante. Ma la calma è rotta dalla telefonata di un sedicente poliziotto, che accusa una cassiera di aver derubato una cliente e costringe così la sua principale (e gli altri che le si avvicenderanno) a perseguitare la ragazza in modi sempre più laceranti, fino all'umiliazione sessuale. Il tutto sempre impartendo gli ordini via telefono. Un film a tesi, certo, ma anche un'analisi intelligente sull'incapacità di elaborare gli stimoli esterni e di eseguire ciecamente gli ordini, con un lavoro di regia e di scrittura che inquieta per come riesce a rendere credibile quanto è apparentemente assurdo. Un film bellissimo, che resta incollato addosso.
A questo punto urge tirare un po' il fiato ed ecco giungere in soccorso il superclassico Il mucchio selvaggio di Sam Peckinpah (presentato in una sfavillante copia in pellicola con la versione integrale) che inaugura la sezione Figli e amanti, in cui i registi italiani presentano i loro film preferiti. A scegliere il capolavoro di Peckinpah è un'insospettabile Francesca Comencini (!). Segue la commedia à la James Bond Modesty Blaise, avventura pop con un umorismo costantemente sopra le righe, ispirata all'omonimo fumetto, non del tutto convincente, ma da vedere, anche perché è fra le opere meno “reperibili” di Joseph Losey, cui è dedicata la retrospettiva principale del programma. In mezzo ci finisce anche il pessimo Christmas with the Dead (di nuovo Rapporto Confidenziale), apocalisse zombie portata da una strana tempesta magnetica nella notte di Natale, che vanta la progenitura di Joe Lansdale (produttore esecutivo e autore del racconto di partenza), ma che affonda immediatamente in una messinscena al limite dell'amatoriale. Unica scena degna di nota: gli zombie che si dimenano al ritmo di una musica diffusa da uno stereo come in una bizzarra parodia di un flash mob. Il resto è noia e dilettantismo.
E le visioni oscure? Già finite? Tutt'altro, perché la chiusura di giornata (e di Rapporto Confidenziale) ci porta il remake di Maniac, che arriva al Torino Film Festival preceduto da una lunga sequela di elogi. Le buone parole sono meritate: il film disturba e rinnova la forza malsana dell'originale, pur all'interno di una struttura che la sceneggiatura di Alexandre Aja e Gregory Levasseur tende a razionalizzare. In questa versione infatti, l'andamento è meno rapsodico rispetto all'originale (dove il buon William Lustig sembrava inseguire l'ispirazione del momento) e la storia tra il killer Frank e la fotografa Anna (interpretata dalla meravigliosa Nora Arnezeder, che non fa rimpiangere Caroline Munro) è molto più centrale, tanto da diventare il fulcro dell'intero racconto. Il regista Franck Khalfoun prende quell'indistinta atmosfera in cui realtà e sogno coincidono, su cui si chiudeva l'originale, e la eleva a cifra stilistica di tutto il film, girando l'intera storia in soggettiva. Noi “vediamo” il mondo attraverso il mostro, in una compresenza di realtà, flashback e visioni distorte: ma c'è anche un lavoro preciso sull'estetica metropolitana anni Ottanta, tanto che la storia affascina non solo nelle violente e morbose scene di scotennamento, ma anche semplicemente nelle riprese della città notturna (servite da una magnifica colonna sonora di Bob). E poi c'è l'idea di casting assolutamente geniale di passare dal volto allucinato di Joe Spinell a quello di un Elijah Wood che eleva a potenza il suo personaggio di Sin City, rendendo Frank un mostro di inquietante fragilità. Un film che rende merito all'idea di “re-imagining”, troppo spesso usata a sproposito per i remake e che alla fine ti lascia quel latente senso di colpa già tipica dell'originale, facendoti sentire un po' complice delle nefandezze narrate.

Tower Block - trailer
Compliance - trailer
Christmas with the Dead - trailer
Il mucchio selvaggio - trailer
Modesty Blaise - trailer
Maniac 2012 - trailer

lunedì 26 novembre 2012

Torino 30+3

Torino 30+3

Si riparte dall'Asia e precisamente dalla Corea del Sud, che sforna un altro gangster movie, Beom-Joi-Wa-Eui Jeon-Jaeng/Nameless Gangster: Rules of Time (sezione Festa Mobile), accolto in patria come un degno epigono dei Bravi ragazzi scorsesiani: merito del protagonista, il sempre immenso Choi Min-Sik (Old Boy, I Saw the Devil) che, al pari del Ray Liotta d'annata, non ci pensa due volte quando si tratta di tradire parenti e amici per farla franca. Ma qui si va anche oltre: il personaggio di Choi è un vigilante che riesce a entrare nel giro della malavita “che conta” sfruttando i suoi legami con un'antica famiglia coreana, ma cambia poi bandiera alla bisogna, dimostrandosi un individuo meschino e pusillanime. Il grandissimo attore aggiunge così un altro personaggio magnificamente sfatto e ripugnante alla sua carriera, mentre il regista Joong Bin-Yoon si dimostra molto lucido nel suo j'accuse: nella sua visione storica e sociale, infatti, i legami di sangue (su cui nominalmente si fondano queste associazioni malavitose) non sono altro che un vuoto cascame di convenzioni prive di qualsivoglia logica e sostanza, al punto che riescono a spianare la strada a un individuo tanto assetato di potere quanto privo di scrupoli.
La famiglia diventa pertanto il filo conduttore delle pellicole visionate oggi. Dall'America arriva quindi Arthur Newman (in Concorso), su un eponimo protagonista (Colin Firth) che cerca di rifarsi una vita cambiando identità e abbandonando la moglie e il figlio. Durante il suo viaggio conosce e si innamora di Mike (la bella Emily Blunt), anche lei in fuga dagli affetti e "nascosta" dietro un nuovo nome. Per un po' i due si divertono ad assumere varie identità e a vivere fugaci avventure amorose, perpetrando una felice illusione, poi la realtà arriva a presentare il conto. Tutto come da prassi per questi tipici racconti di fuga dal proprio microcosmo, ma nell'insieme il film si lascia seguire, grazie alla sensibilità con cui il regista Dante Ariola empatizza con i personaggi: prendere o lasciare.
Si fa decisamente più sul serio con l'ultima opera di Sion Sono: Kibo no Kuni/The Land of Hope (Rapporto Confidenziale), con cui l'autore giapponese rielabora il dramma di Fukushima. Una famiglia viene infatti divisa dal disastro di una centrale nucleare. I genitori anziani decidono di restare nella loro casa situata ai margini della zona contaminata. Il figlio, invece, viene spinto ad andare via con la moglie, incinta del primo erede e che per questo sviluppa una fobia che la spinge a indossare camici sterili e a rendere asettica la sua stanza. Ossessioni e legami affettivi, tutto in puro stile Sion Sono, che stavolta si tiene sotto controllo, mostrando un inedito pudore e rispetto per un dramma che, seppur rielaborato in chiave personale, ammicca chiaramente a dinamiche che ormai avverte come universali. Forse anche per questo il racconto è un po' prolisso, come se avesse paura di lasciare per strada qualche possibile implicazione, ma il percorso dell'autore resta comunque coerente e ammirevole.
Finale in gloria con un classico che non ha bisogno di presentazioni, Viaggio in Italia, di Roberto Rossellini (anche questo in Festa Mobile), debitamente restaurato, che suggella la crisi della coppia raccontando la trasferta napoletana di una famiglia londinese incapace di comunicare. Alla luce dei paragoni con i film precedenti, l'opera di Rossellini si staglia ancora di più come una delle più moderne partorite dall'autore. La copia vista a Torino è quella non doppiata, con Ingrid Bergman e George Sanders in presa diretta, che ristabilisce così il senso di alterità degli inglesi rispetto al contesto partenopeo. Impossibile chiedere di più.

domenica 25 novembre 2012

Torino 30+2

Torino 30+2

Il gran giorno di Rob Zombie! Il suo attesissimo The Lords of Salem conferma le migliori aspettative e apre una giornata quasi totalmente dedicata ai percorsi horror della sezione Rapporto Confidenziale. Un film potente e di rara bellezza, per certi versi anche spiazzante: dimenticate le corse folli e pop dei reietti del diavolo, Lords of Salem è un film tutto giocato sul dramma “in interni” di una deejay (Sheri Moon Zombie) che percepisce su di sé i segni di un'antica maledizione dopo aver ascoltato una oscura melodia. Il film che ne scaturisce è quindi costruito interamente sui volti, sulle attese e sulle visioni blasfeme che guardano ai grandi visionari degli anni Settanta, da Jodorowski a (soprattutto) il primo Ken Russell. Si accettano previsioni se la censura italiana avrà il coraggio di farlo passare senza tagli! Intanto registriamo come Rob Zombie sia fra i pochi oggi a saper unire tutto l'armamentario classico del cinema di genere con una visione autoriale ambiziosa e autosufficiente. Con tutta probabilità ci si tornerà su!
Il contraltare perfetto è dato dall'antologia (anch'essa abbastanza attesa) V/H/S, in cui una gang irrompe in una villa per cercare una videocassetta su cui sarebbe registrato materiale compromettente. Il proprietario giace cadavere su una poltrona e c'è una montagna di cassette da visionare per trovare quella giusta – scelta che costituisce il pretesto per introdurre i vari episodi. La sfida si potrebbe dichiarare vinta già soltanto per la curiosa originalità delle storie (che in più di un caso fanno saltare sulla poltrona). Ciò che più interessa, però, è l'estetica che, partendo dal “solito” found footage, costruisce una visionarietà fatta di pixel incontrollati, scene sovrascritte, fantasmi che fanno impazzire l'inquadratura, filmati amatoriali, videochat, apparizioni improvvise e un finale alla Poltergeist che garantisce una chiusa spettacolare. Anche in questo caso, pur nell'impianto puramente di genere, si avverte una cifra che è quasi underground e che, oltre a dar vita a un autentico tour de force stilistico, fa correre la memoria a esperimenti come quelli tentati da Nicolas Provost con Long Live the New Flesh (visto peraltro proprio a Torino negli anni passati).
In mezzo l'incerto Chained di Jennifer Lynch, sulla (mala) educazione di un bambino, cresciuto da un serial killer e che - al contrario degli esempi citati - non riesce a trovare il punto di equilibrio fra racconto di genere e apologia del malsano; gli fa eco l'inglese The Liability, in concorso, dove un giovane viene costretto dal patrigno a fare da autista a un sicario alle sue dipendenze. Anche in questo caso manca un punto di equilibrio fra un ritratto sociale virato al nero e un umorismo che vorrebbe essere grottesco, ma è più che altro forzatamente “simpatico”. Grande cast, comunque, con Tim Roth nel ruolo del sicario e Peter Mullan in quello del patrigno, che strappano l'applauso del pubblico.
A margine va invece segnalato l'eccentrico Wrong, di Quentin Dupiuex (che dirige, scrive, monta e cura la fotografia), regista amante del grottesco: la storia di un uomo caduto in depressione dopo la scomparsa del suo cane è raccontata con ironia affettuosa e un gusto del nonsense che, se pure non dissipa i sospetti di una certa furbizia da lungometraggio “indie” americano, riesce comunque a regalare lampi di emozione e a divertire con la forza di alcune trovate e di taluni personaggi.
Wrong è accompagnato dallo splendido cortometraggio Bobby Yeah, di Robert Morgan, l'autentica rivelazione della giornata: immaginate David Lynch che si dà all'animazione in stile Jan Svankmajer, ma filtrando il tutto dal punto di vista del Rob Bottin de La cosa! Un mix assolutamente imprevedibile, che dovrebbe restituire efficacemente l'idea di questa orgia di corpi deformi che si mescolano in un tripudio di splatter e visioni da incubo, sorrette da una robusta iniezione di umorismo nero. Ne viene fuori un mini-film bizzarro e a suo modo poetico, assolutamente da non perdere e che costituisce la summa più perfetta di una giornata alla costante ricerca di un “centro di gravità” fra artigianato e autorialità pura.

Lords of salem - trailer
V/H/S - trailer
Chained - trailer
The Liability - trailer
Wrong - trailer
Bobby Yeah - trailer

sabato 24 novembre 2012

Torino 30+1

Torino 30+1

Torino, con quell'aria un po' malinconica da noir francese, riesce sempre a sorprenderti, per il fermento che manifesta e per come vive intensamente il “suo” festival, esponendone le insegne in ogni dove: sui marciapiedi, nelle vetrine, nelle biglietterie edificate alla bisogna fra le insenature dei palazzi... una città che sembra essa stessa un'enorme vetrina, che vive mentre si esibisce e che, per questo, sembra aver trovato un perfetto equilibrio fra il porgere il proprio “prodotto” e l'assaporarlo essa stessa per prima. L'apparenza a volte può essere sostanza e a confermarlo arrivano i film, accolti da una mole di pubblico decisamente impressionante, anche superiore al consueto (almeno per ciò che riguarda il primo giorno di proiezioni).
Sono tre le pellicole visionate oggi, tutte incentrate su gesti che cercano di andare al di là del loro valore intrinseco, per creare risonanze o per fornire l'approdo a un percorso umano e professionale. Si parte con il compianto Koji Wakamatsu e il suo 11.25 Jiketsu no Hi, Mishima Yukio no Wakamonotachi (The Day Mishima Chose His Fate), ritratto di Yukio Mishima, il romanziere giapponese che nel 1970 occupò il Ministero della Difesa per convincere le forze armate a seguirlo nella sua crociata nazionalista: il suo intento era infatti spingere la Dieta a emendare la Costituzione per ripristinare lo status “divino” dell'Imperatore (cancellato dopo la disfatta della Seconda Guerra Mondiale). Wakamatsu aderisce alla visione di Mishima, non tanto perché ne condivida necessariamente l'ideologia, quanto perché tenta di restituire il valore della fede in un gesto che sia “sufficiente in sé” e costituisca perciò un fine da perseguire con orgoglio e con la volontà di migliorare il Paese. Ma proprio questa adesione superficiale rende la materia poco densa e non aiuta nemmeno una messinscena piatta e didascalica nella sua verbosità.
All'opposto, dalla Francia, si pone il monsieur Oscar di Holy Motors, con i suoi vari appuntamenti di lavoro che continuano a motivarlo per la “bellezza dei gesti”: possono essere di vario tipo, acrobatici (in una coreografia eseguita per la motion capture), violenti (quando portano all'omicidio) o brutali, quando l'attore (Denis Lavant) torna a interpretare il personaggio di monsieur Merde, già visto in Tokyo! (del 2008), che azzanna e divora tutto ciò che incontra, seminando il panico tra la gente, mentre le sue gesta sono accompagnate dall'inconfondibile colonna sonora di Godzilla, composta da Akira Ifukube. Il viaggio di Monsieur Oscar attraverso Parigi sembra quasi un geniale rovesciamento del Cosmopolis di David Cronenberg: tanto l'autore canadese racchiude tutto il mondo del suo protagonista nell'abitacolo della limousine, tanto Leos Carax spinge invece il suo attore a uscire ogni volta dalla stessa vettura sotto spoglie sempre diverse, vivendo il mondo da prospettive nuove. Un'opera composita, che è un inno alla creatività, ma anche una malinconica elegia della finzione che reifica un mondo dove l'umanità sembra giocarsi le sue ultime chance. Visivamente molto vario e affascinante, il film di Leos Carax era fra i più attesi del festival e non ha deluso le aspettative.
Il gesto forse più concreto è però quello di chi verga la sua scelta sulla scheda referendaria, come accade in NO, di Pablo Larrain, che rievoca il 1988 del voto destinato a far cadere la sanguinaria dittatura cilena di Pinochet. Per farlo, Larrain racconta la storia di René Saveedra, il pubblicitario che ideò la campagna per il NO, incentrata su messaggi positivi che inneggiavano all'allegria, totalmente spiazzanti per la sua stessa fazione, interessata invece a mettere il dito nella piaga dei rastrellamenti e delle repressioni perpetrate dal regime dopo il Colpo di stato del 1973. Il che ci riporta al Mishima di Wakamatsu: tanto quello è rigido e didascalico, tanto l'opera di Larrain è al contrario mimetica (per come simula l'estetica della tv anni Ottanta) e magmatica nei sentimenti contrastanti che mette in campo. Il regista, infatti, non tace nulla, neppure i dubbi che lacerano la fazione del NO e fornisce un ritratto umano che è anche storico, dove l'allegria del messaggio trova un contraltare efficacissimo nell'espressione dolente del protagonista Gael Garcia Bernal.
Tutte e tre le pellicole rientrano nella sezione Torino XXX, dedicata ad alcuni dei registi che il festival ha lanciato e che hanno fatto grande la sua storia, in un gioco di scambi (e di gesti) reciproci molto fecondo: il miglior biglietto da visita per l'edizione 2012 e il più valido bilancio del lavoro svolto finora.

mercoledì 21 novembre 2012

Torino 2012

Torino 2012


Ancora un paio di giorni e si alzerà il sipario sul Torino Film Festival: dell'edizione 2012 si sta parlando più del solito, soprattutto in virtù delle polemiche che hanno tenuto e tengono banco sui media, e che sembrano destinate a far passare in sordina due aspetti importanti. Il primo è che stavolta si taglia l'importante traguardo delle trenta edizioni; il secondo è che il programma presentato qualche settimana fa in conferenza stampa sembra particolarmente ricco di proposte allettanti: per fortuna questo aspetto una certa qual copertura mediatica l'ha avuto, quindi rimando ai link in calce per chi volesse una panoramica generale dell'offerta, che comprende comunque la retrospettiva su Joseph Losey, un corposo programma di horror nella sezione "Rapporto Confidenziale", le sperimentazioni di "Onde" (con tanto di personale su Miguel Gomes), e poi concorsi e documentari. Qui mi preme piuttosto fare qualche altra considerazione.

Questa infatti sarà anche l'ultima direzione di Gianni Amelio, che in quattro anni ha fatto un buon lavoro: quando c'è stato da criticare qui non ci si è tirati indietro e oggi si può affermare che Amelio, Emanuela Martini e tutto lo staff hanno dato vita a una formula che è stata capace di far evolvere il format originario del festival, unendo il rigore dell'era Moretti alla sperimentazione di quella D'Agnolo-Vallan, senza dimenticare la cinefilia di Della Casa (cito i direttori dal 1999 a oggi, ovvero da quando seguo il festival). Quindi una formula che è stata capace di innovare nella tradizione, un punto che è bene tenere fermo sia nell'approccio alla nuova edizione (per i confronti del caso con il passato) sia perché siamo a un giro di boa, in attesa di vedere cosa accadrà dal 2013 in poi.

In virtù di queste considerazioni, ciò che - da spettatore e addetto ai lavori - auspico maggiormente è il ritrovare la stessa curiosità che ha sempre contraddistinto la manifestazione. Di solito a questo punto si tirano fuori le carte e si spara il nome più grosso, però dopo tanti anni mi attira di più il gusto della scoperta. Negli ultimi anni al festival ho scoperto nomi interessanti come Joe Cornish (Attack the Block), Sean Byrne (The Loved Ones), Bruce McDonald (Pontypool), Gareth Evans (The Raid), ho potuto “saggiare” direttamente la forza underground di autori come Bruce La Bruce (L.A. Zombie) e approfondire grandi figure “nascoste” come Christophe Honoré (L'homme au bain, ma va citato anche il più “mainstream” Les bien aimées) o Eugène Green (Le pont des arts); ho poi visto sbocciare il talento di registi un tempo acerbi come Kim Jee-Woon (I Saw the Devil) e Jaume Balaguerò (Mientras Duermes/Bed Time), ho riscoperto maestri come Woody Allen (Midnight in Paris) e ritrovato amori mai sopiti come John Carpenter (The Ward). Questo senza contare quei nomi che già conoscevo a grandi linee e che si sono poi palesati in tutta la forza espressiva delle loro opere: mi riferisco a Nicolas Winding Refn e Sion Sono, omaggiati da splendide personali. Molti di questi nomi saranno probabilmente sconosciuti ai più o magari faranno saltare sulla sedia chi frequenta i forum online dove molte delle pellicole citate sono giustamente assurte allo status di cult-movie nell'indifferenza di un mercato che le ha snobbate o relegate in pochi e angusti angoli della distribuzione estiva o dei DVD.

Ecco, con un concorso lungometraggi che negli anni si è rafforzato ed ha raggiunto quella forza che negli anni Novanta sembrava perdere a tutto vantaggio delle retrospettive, e che non ha paura di mescolare generi e nomi fra i più disparati, anche quest'anno sono più attratto dall'idea di scoprire qualche nuovo talento che di trovare conferma nei nomi consolidati. Torino è il posto giusto per entrambe le cose: c'è la possibilità che qualcosa di buono e nuovo esca fuori e anche che l'ultimo lungometraggio di Rob Zombie sia un grande film. In una parola: che sia un festival divertente, di quel divertimento che solo chi bazzica le sale in cerca di un'emozione capisce.

Come già l'anno scorso (imprevisti permettendo) l'intenzione è quella di dedicare dei report quotidiani al festival, raccolti sotto l'etichetta Diario Torino Film Festival. Per chi invece sarà della partita, al solito, ci si vede in sala!



Collegati:

lunedì 19 novembre 2012

Argo

Argo

1979. Lo scoppio della rivoluzione islamica travolge la monarchia Persiana trasformandola nel moderno Iran. Lo Shah Reza Pahlavi trova asilo politico negli Stati Uniti e gli studenti universitari islamici, per protesta, assaltano l'ambasciata americana di Teheran. Nel trambusto generale, sei dipendenti dell'ambasciata riescono a fuggire e riparano nella residenza dell'ambasciatore canadese: dagli Stati Uniti, la loro situazione precaria viene seguita con attenzione, mentre i piani alti della nazione cercano di gestire la crisi più grande che vede tutti gli altri dipendenti dell'ambasciata prigionieri. Gli studenti islamici, infatti, pretendono la consegna dello Shah in cambio della loro liberazione. Così il Ministero degli Esteri americano, di concerto con la CIA, studia un piano per aiutare i sei a uscire dal paese: le proposte presentate sono insufficienti e si decide quindi di seguire il piano varato da Tony Mendez, agente speciale specializzato in casi del genere. L'idea è fingere che i sei siano parte di una troupe cinematografica canadese presente sul posto per effettuare alcuni sopralluoghi allo scopo di girare un film di fantascienza. Mendez li raggiungerà con i documenti falsi e poi ripartirà con loro.


Giunto alla sua terza regia, Ben Affleck si conferma un autore di razza, capace di unire il gusto classico della narrazione a un percorso autoriale coerente, pur quando si trova a dover gestire i difficili equilibri di un racconto storico. Argo, infatti, non è soltanto il resoconto di un'incredibile vicenda del recente passato, ma, al pari del precedente The Town, è ancora una volta la cronaca del senso di appartenenza a una comunità che coinvolge tutti i personaggi. Il sentirsi parte di un gruppo è infatti l'elemento caratterizzante delle relazioni che determinano il senso stesso del racconto e che generano soprattutto un dramma: se, infatti, l'elemento più forte è quello stabilito dalla tesa vicenda dei sei americani costretti a nascondersi dalle autorità iraniane, il dramma non è meno vero per il protagonista Tony Mendez (interpretato dallo stesso Affleck), che fra una pausa e l'altra del suo lavoro cerca un momento per potersi dedicare alla famiglia lontana e al figlio che ha sempre trascurato; o ancora per la cameriera dell'ambasciatore canadese, che deve scegliere fra l'affetto per i suoi principali e l'obbedienza alle leggi del suo Paese.

Ciò che però colpisce è come ancora una volta l'Affleck regista lavori nel capovolgere gli equilibri stabiliti dall'ordine precostituito: tanto i legami personali diventano infatti l'unico elemento determinante perché ogni personaggio possa essere legittimato nel proprio ruolo, tanto il sistema in cui gli stessi agiscono è scosso alle fondamenta dall'esibizione della propria fragilità. Se quindi la monarchia persiana è nei fatti rivoluzionata dall'instaurarsi del regime islamico, la consolidata America – che ci viene mostrata in tutto il suo organigramma politico, dal Presidente Jimmy Carter passando per ministri, funzionari d'altro grado, speaker televisivi e agenti della CIA – è ritratta con sguardo critico, in quanto implicita fautrice del caos mediorientale: sono stati infatti i suoi appoggi al regno dello Shah (enunciati in modo esplicito dalla voce narrante in apertura) a produrre loro malgrado il dramma degli ostaggi.

Quella che si palesa agli occhi dello spettatore è pertanto una vicenda umana, iscritta in un gioco delle parti dove le autorità risultano colpevoli di quanto sta accadendo, e dove i “buoni” della situazione non possono perciò che essere dei fuorilegge (come i sei dipendenti dell'ambasciata) o dei personaggi che tecnicamente “non esistono” (la spia Tony Mendez). Il circolo vizioso nel quale la storia va lentamente inserendosi può dunque essere spezzato soltanto dalla finzione, quella portata avanti dai meccanismi hollywoodiani: da qui l'idea del finto film da mettere in piedi per permettere agli americani di fuggire.

Affleck gestisce molto bene questo elemento giocando con i segni della cultura pop: chiama in causa i fumetti (negli storyboard che i titoli di coda esplicitamente definiscono “alla Jack Kirby”), celebri saghe cult come Il pianeta delle scimmie e Guerre stellari, usa presenze iconiche (Victor Garber rimanda alla serie spionistica Alias) e lancia divertenti frecciate al mondo hollywoodiano, rappresentato degnamente dalla scritta devastata sulle colline di Los Angeles, che però nella bizzarria di personaggi come Lester Siegel (un sempre grandissimo Alan Arkin) è l'unico a fornire certezze.

Coerentemente con quanto visto in The Town, il gruppo si solidifica attorno all'idea del mascheramento. Non a caso uno dei motori della vicenda è il truccatore premio Oscar John Chambers (impersonato dal grande John Goodman), qui nella parte del Virgilio che guida Mendez tra i “gironi infernali” della Mecca del Cinema. I sei fuggiaschi dell'ambasciata americana devono poi modificare il loro look e imparare letteralmente un copione da recitare alla bisogna alle autorità iraniane. Nel mettere in scena il suo inganno, Affleck non cade in ogni caso nel manicheismo e perciò permette al piano di riuscire grazie all'intervento dell'unico membro del gruppo scettico circa la possibilità di successo della missione, che “smaschera” la sua conoscenza della lingua Farsi al posto di blocco per perpetrare la messinscena cinematografica.

Il meccanismo è a scatole cinesi, al punto che il concetto di mascheramento può essere ricondotto anche al lavoro svolto sul casting e esplicitato dai titoli di coda, che mostrano gli attori e i loro “doppi” presi dalle foto d'epoca, rimarcando l'eccellente lavoro di mimesi e trucco. Il tutto trova poi un perfetto corrispettivo nella cornice stessa del film, che si apre su immagini disegnate e esibisce il logo Warner Bros degli anni Settanta, in una vertigine di cortocircuiti sensoriali dove soltanto l'esibizione sfacciata della finzione può permettere a una storia di affetti concreti di stagliarsi in tutta la sua “realtà”. Per questo, alla fine Mendez trova il suo posto nel luogo che gli appartiene (la famiglia), al Canada va un merito (quasi del tutto “esteriore”) per il successo della missione, mentre le didascalie di quanto realmente accaduto si ritagliano un posto fra giocattoli e modellini delle più celebri storie di fantascienza.


Argo
(id.)
Regia: Ben Affleck
Sceneggiatura: Chris Terrio (ispirato a The Master of Disguise di Antonio J. Mendez e The Great Escape di Joshuah Bearman)
Origine: Usa, 2012
Durata: 120'