"C'è chi crede in dio o nel denaro. Io credo nel cinema, nel suo potere. L'ho scoperto da ragazzino, mi ha aiutato a fuggire da una realtà in cui ero infelice. È una delle forme d'arte più alte che l'uomo ha concepito. Credo nel suo futuro."
(John Carpenter)

sabato 1 dicembre 2012

Torino 30+8

Torino 30+8

Dopo una fisiologica flessione nella parte centrale della settimana, l'arrivo del weekend riporta il pubblico nelle sale torinesi: ad accoglierlo ci sono storie intime su scenari di ampio respiro, spesso mozzafiato o intrisi dei destini della Grande Storia. Si parte dall'India, da dove arriva I.D., di Kamal K.M. (in Concorso). Un uomo muore mentre sta tinteggiando le pareti di un appartamento. L'inquilina cerca in tutti i modi di conoscere l'identità dell'operaio, che fa parte dei lavoratori a giornata e che (forse) proviene dagli slum, una delle zone più povere del paese. Il viaggio della donna è l'occasione per un'immersione dal sapore prima kafkiano e poi via via sempre più ipnotico in una realtà multiforme: lo scenario tentacolare di Mumbai si trasforma ben presto in un paesaggio apocalittico, raccontato con sguardo curioso e tocchi di malinconia che rendono il tutto quasi magico. Ma, soprattutto, spicca una miscellanea di suoni che trovano il loro apice nel linguaggio, un mix di indiano e inglese, in grado di creare un effetto piacevolmente straniante.
Anche la sezione Rapporto Confidenziale flirta con l'idea dell'apocalisse: lo fa con Fin/The End, primo lungometraggio dello spagnolo Jorge Torregrossa, in cui un gruppo di ex studenti si ritrova per una rimpatriata a quasi vent'anni dalla loro ultima volta insieme. Fra loro scorrono tensioni che affondano nelle vicende del passato, ma l'aspetto più particolare è che strani fenomeni atmosferici stanno precipitando il mondo verso il baratro. Le persone spariscono tutte all'improvviso e lentamente anche il gruppo inizia a perdere pezzi. Il confronto con le esperienze passate si rispecchia in un mondo senza futuro, in cui il regista riflette – anche in questo caso – tanto un distorto ideale di bellezza (il film ha a suo modo una caratura poetica) quanto un angosciante monito a un'umanità che non è stata capace di seminare nulla di virtuoso. Se l'impianto sembra strizzare l'occhio a serie come Ai confini delal realtà, alcuni passaggi del finale rimandano alle cose migliori di Narciso Ibanez Serrador, dove il fantastico è sempre lasciato sullo sfondo di un racconto dalla forte caratura umana. Nel cast ritroviamo la splendida Maribel Verdù che già si è fatta notare in Blancanieves (peraltro è presente anche in una terza pellicola, Como estrellas fugaces).
La risposta più vitale della giornata si ritrova negli spazi angusti di un polmone d'acciaio, quello in cui è rinchiuso il protagonista di The Sessions (sezione Festa Mobile), dell'ex regista televisivo Ben Lewin. Prendendo ispirazione da una storia vera, Lewin racconta l'iniziazione sessuale di un uomo paralizzato dalla poliomelite e che viene educato alla scoperta del proprio corpo da Cheryl (la sempre bravissima Helen Hunt), una partner surrogata. I presupposti per un film patetico o afflitto da forzata “carineria” c'erano tutti, ma, anche se la struttura narrativa non si discosta molto dai canoni di certi racconti americani contemporanei, stupisce la levità con cui un argomento pure così spinoso viene trattato. Merito di attori perfettamente in parte, fra cui svetta uno strepitoso William H. Macy, prete dalla visione liberale, che bypassa splendidamente le fobie sessuofobiche del cattolicesimo. Ne viene fuori un film toccante, in cui – per una volta – il sesso non è materia per umorismi pruriginosi (sebbene il tutto sia anche divertente), ma un elemento necessario per la conoscenza di se stessi, uno di quegli fattori che rendono la vita complessa e affascinante.
D'altra parte, che il mondo sia un posto difficile, arriva a ricordacelo Shadow Dancer (ancora Festa Mobile), di James Marsh, che ci fa tornare ai conflitti in Irlanda del Nord, attraverso la vicenda di un'attivista dell'IRA costretta a collaborare con i servizi segreti britannici e a rivelare i traffici in cui sono invischiati i suoi fratelli. Diversamente ne farebbe le spese il figlioletto. Il suo contatto con le autorità è il redivivo Clive Owen, tenuto a bada da una irreprensibile direttrice che ha le fattezze di Gillian Anderson, la Scully di X-Files qui in inedita versione bionda. La materia è ottima per il potenziale drammatico che potrebbe esprimere, fra intrecci di potere, reminiscenze di un periodo storico difficile e dinamiche umane e familiari che pesano sulle azioni dei personaggi. Ma, nonostante i colpi di scena finali, il risultato è debole e poco incisivo, e trasmette il sapore di un'occasione sprecata. Idealmente lo si può comunque ricollegare alle atmosfere di Call Girl e di Good Vibrations, visti nei giorni passati, con cui può formare un'ideale trilogia a cavallo fra complotto e società allo sbando.

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