"C'è chi crede in dio o nel denaro. Io credo nel cinema, nel suo potere. L'ho scoperto da ragazzino, mi ha aiutato a fuggire da una realtà in cui ero infelice. È una delle forme d'arte più alte che l'uomo ha concepito. Credo nel suo futuro."
(John Carpenter)

venerdì 25 gennaio 2013

Django Unchained

Django Unchained

Il dr. King Schultz, cacciatore di taglie nel selvaggio West, libera lo schiavo nero Django, che può aiutarlo a rintracciare i criminali che gli interessano. Una volta compiuta l'impresa, i due continuano le loro scorribande per poi concentrarsi sull'obiettivo più ambizioso: ritrovare Broomhilda, la moglie di Django, venduta a Calvin Candle, negriero e proprietario di una celebre piantagione di cotone. Il piano sarebbe quello di introdursi nella tenuta con la scusa di comprare un mandingo da lotta, salvo poi includere nell'accordo anche Broomhilda. Ma Stephen, il nero al soldo di Candle, mangia ben presto la foglia...


Ai tempi di Jackie Brown, si parlò del fatto che Quentin Tarantino fosse particolarmente “ossessionato” dalla cultura black, al punto da ritenervisi quasi affine. La cosa fu in verità liquidata con una certa fretta, complice da un lato il consueto bisogno di incasellare il nuovo lavoro, dall'altra perché la si riteneva strettamente (e strumentalmente) legata alla necessità di promuovere un film nato come omaggio alla blaxploitation.

Eppure è proprio a quell'affinità che bisogna tornare, a proposito di Django Unchained. La storia, anche in questo caso si ripete: da più parti si guarda soltanto all'omaggio al western italiano e al Django di Sergio Corbucci - che, per inciso, era più “presente” nella celeberrima “scena dell'orecchio” de Le iene, che qui. In effetti, se dovessimo esaurire il discorso unicamente nel citazionismo avremmo ben poco da dire: c'è chi, diligentemente, ha già fatto l'elenco puntuale dei rimandi, ma la sensazione che assale durante la visione è che questi elementi siano inevitabili cascami di una poetica che stavolta ha altro da dire. Almeno agli occhi di chi scrive, il film è meno teorico di altri realizzati dal regista, poco orientato al voler “rifare” e più spinto verso l'esigenza di raccontare qualcosa che sente proprio. Con un'urgenza che Tarantino non avvertiva dai tempi di Kill Bill.

D'altronde, se l'odissea della Sposa rifletteva la profonda stima che Tarantino prova per l'universo femminile, stavolta in ballo c'è, per l'appunto, quella cultura nera cui si sente vicino: è qualcosa di molto più forte del revisionismo di maniera che affliggeva Bastardi senza gloria. E' qualcosa che chiama in causa una sorta di liberazione (“unchained”) del regista stesso da una formula che già rischiava di ripiegare verso la maniera.

Pertanto, ciò che stupisce in prima battuta è la rabbia che emerge dal film, il furore sordo che Django trattiene nella prima parte della storia e che poi lascerà esplodere nel finale. Il tutto nel modo che non ti aspetti, se è vero che a intrattenere il pubblico e a deviare nettamente l'attenzione è il loquace dr. Schultz del sempre grande Christoph Waltz. Ed è interessante notare come il discorso caro a Tarantino si articoli proprio all'interno del perimetro descritto dai suoi attori feticcio.

Dall'altro versante della barricata, a ispessire e a rendere ancora più imprevedibile il viaggio che Tarantino offre allo spettatore, c'è infatti l'altrettanto fido Samuel L. Jackson, autentico “cattivo” del film, che pure si offre in secondo piano rispetto al più pirotecnico Calvin Candle di Leonardo Di Caprio. Il gioco, raffinato, è condotto sul rapporto di forza tra chi sta in primo piano, pur non incarnando appieno la virulenza della posta in gioco, e chi, da dietro le quinte, determina invece le svolte significative del racconto.

In questo senso, Tarantino crea un'opera al rovescio, sotto tutti i punti di vista: è un western americano (perché affronta uno dei drammi della Storia d'oltreoceano come la schiavitù) filtrato però da rimandi italiani; racconta una storia crudele, di sofferenze e privazioni, ma spesso si abbandona all'arma dell'ironia, chiamando in causa certe trovate degne di un La vita a volte è molto dura, vero Provvidenza? E riesce in questo modo a intrattenere un rapporto ambivalente anche con la possibile deriva manicheista che l'idea di un mondo diviso fra bianchi e neri potrebbe istintivamente suggerire.

Quando infatti vediamo il proprietario terriero razzista impersonato da Don Johnson, configurarsi come una macchietta dai risvolti estremamente patetici, capiamo che Tarantino sente talmente forte il cancro incarnato dal razzismo, da non concedere alcuna grandezza agli incappucciati e alle loro farneticazioni, riducendoli – anche a costo di determinare una brusca battuta d'arresto nel ritmo – a semplici pagliacci.

Ma, tolti questi orpelli, il film propone un ritratto sociale sfaccettato, dove non prevalgono le solidarietà delle “razze”: Schultz (bianco) aiuta Django (nero), il quale non si mostra solidale verso la “causa” (maltratta anzi gli altri neri con cui ha a che fare), ma agisce per vendicare un male che lo ha toccato da vicino privandolo della donna amata (altro rovesciamento rispetto al Django di Corbucci, che invece era già disilluso da questo versante). E a opporsi ci sono Candle (bianco) che trova il suo più grande alleato in un inserviente nero (Stephen), insensibile al richiamo della razza e fedele al suo padrone al punto da determinare totalmente le svolte del finale (con buona pace di chi si aspetta che magari il richiamo del sangue faccia capolino...). Tarantino ama “sporcarsi”, esattamente come fa il suo antieroe, e ci ricorda in questo modo come il western italiano che il progetto chiama nominalmente in causa fosse in fondo un genere di disillusioni, dove alla fin fine contavano le gesta dei singoli e non le dinamiche di massa (come invece avveniva in quello americano classico).

Pertanto, Tarantino trova la quadratura del suo discorso, e può lasciarsi andare al classico scontro finale, dove propone due fra le soluzioni più stranianti. La prima è il rifiuto del tipico duello, sostituito da una sparatoria ultrasplatter, modulata sui codici dei film di John Woo. Già, proprio il regista di A Better Tomorrow e The Killer, che, dopo essere stato tirato per la proverbiale giacca dal cinema americano per tutti gli anni Novanta, è oggi finito nel dimenticatorio. Il che ci riporta all'urgenza tarantiniana di muoversi su un territorio che sente proprio, al di là delle mode.

La seconda è l'uso “serio” della colonna sonora de Lo chiamavano Trinità: che in un colpo solo salda le atmosfere del western ironico con la serietà della missione del suo Django. E se non è un rovesciamento di prospettive questo...


Django Unchained
(id.)
Regia e sceneggiatura: Quentin Tarantino
Durata: 165'
Origine: Usa, 2012

giovedì 24 gennaio 2013

Django

Django

Dopo la guerra di secessione, il pistolero Django viaggia verso un paese fantasma, al confine tra Stati Uniti e Messico, trascinando una bara. Il luogo è diviso fra le truppe razziste e incappucciate, al soldo del maggiore Jackson, e i rivoluzionari messicani del generale Rodriguez. Incattivito dopo la morte della donna che amava e interessato soltanto a sparire lontano, Django elimina il grosso della banda di Jackson e mette poi la sua abilità di pistolero al servizio di Rodriguez, per rubare l'oro necessario a rifarsi una vita. Ma il gioco delle parti è spietato e l'unica luce in questo fosco scenario è rappresentata da Maria, la donna che forse potrebbe aprire nuovamente il suo cuore...


Con una copia ammessa nella collezione del Museo d'Arte Moderna di New York, vale a poco giocare la solita carta del progetto incompreso o misconosciuto, anche se effettivamente per vedere in italia Django, fino a qualche anno fa si era costretti a fare i proverbiali salti mortali. Ora che invece il nome è sulla bocca di tutti per l'omaggio di Quentin Tarantino, si può provare a tracciare un bilancio di quello che, a suo modo, rappresenta il vero prototipo del western italiano. Per quanto fondamentale e iconico, infatti, il capostipite Per un pugno di dollari rappresenta (come tutto il cinema di Sergio Leone) ancora una “variante d'autore”, che ha finito suo malgrado per fare storia a sé: è l'equivalente del cinema di Don Siegel rispetto al poliziesco tricolore, un modello irraggiungibile e quindi, inevitabilmente, altro.

Al contrario, Django si pone immediatamente come un perfetto epigono del modello leoniano, talmente riuscito da diventare non solo originale, ma anche ideale matrice per tanto cinema a venire: un'infarinatura anche lieve di western nostrani basterebbe a dimostrare come Corbucci sia nel mirino di tanti fra quelli che sono venuti dopo, che condividono con lui una maggiore affinità. Vero è che “l'altro Sergio” (così era definito Corbucci) è a tutti gli effetti un regista di valore, che nel western trova una sua dimensione tale da creare opere potenti, e non merita perciò di essere considerato soltanto un imitatore.

Lo scarto in fondo è tutto qui, quello che marca la distanza fra l'imitazione e l'originalità: perché, se prendiamo Django per ciò che racconta, il plagio di Per un pugno di dollari diventa lampante. Qui come lì c'è un pistolero solitario, che arriva in un villaggio dove spopolano due bande contrapposte, e gioca un po' con una, un po' con l'altra fino a uscirne unico vincitore. Anche l'uso iconico della mitragliatrice lo aveva già “inventato” Leone. La sceneggiatura è davvero poca cosa, come spesso accade nel cinema (sebbene poi piaccia tirarla sempre in ballo a sproposito). Quello che cambia e che definisce la sostanza del film è la tecnica, lo sguardo: l'invenzione stilistica, insomma, che rende l'epigono autonomo rispetto al prototipo.

E quando uso termini come “sguardo” o “invenzione” non mi riferisco a quelli elementi da sempre tirati in ballo fino alla nausea, come la violenza esasperata e il taglio più crudele. Che ci sono, beninteso, ma non si esauriscono nella loro mera esibizione, diventando anzi corollario di una visione coerente e compatta. E questo nonostante, poi, nelle interviste del caso tutti cerchino di attribuirsene una parte di merito, come a dire che il film nasce dal lavoro collettivo, mentre il buon Corbucci veniva sul set a girare dopo essersi alzato tardi. Sarà anche così, ma poi tutti questi elementi si saldano in un insieme che si relaziona perfettamente a una poetica d'autore già ben definita.

Il che ci porta a una sorprendente rivelazione: Django funziona perché è un film di pura regia, è Corbucci a renderlo vivo, a creare un'estetica potente nella sua ricercata vicinanza degli opposti: set scarni e fangosi, pochi personaggi, tutto ridotto quasi all'essenziale, ai pochi sguardi che gli attori si scambiano e che dicono più di tante parole. Il volto di Franco Nero o quello della bellissima Loredana Nusciak dicono già quanto serve dei rispettivi personaggi, che non a caso non sono approfonditi nelle loro psicologie. In questi aspetti si ritrova la presunta matrice “giapponese” del racconto, evidente anche nella menomazione finale dell'eroe: è improbabile che all'epoca Corbucci conoscesse eroi portatori di handicap alla Zatoichi (che negli stessi anni spopolava in Giappone), ma il paragone è comunque interessante a indicare come le corde dell'inconscio collettivo fossero le stesse fra Occidente e Oriente (e non a caso Django in Giappone è stato anche distribuito con successo...).

Dall'altro versante di questa estetica essenziale c'è la cifra esagerata, operistica, ma anche fumettistica, con i cappucci rossi, i corpi imbrattati dal sangue o dalla terra, l'orecchio tagliato e poi fatto persino ingoiare, la capacità soprannaturale dell'eroe di abbattere ogni nemico e l'iconografia potente della bara trascinata nel fango, a quanto pare ripresa proprio da un non meglio definito fumetto dell'epoca. L'aspetto che tutti ricordano, come lo stesso Corbucci era consapevole sarebbe avvenuto.

Il bello è che, come sempre, tutto questo permette al film di riverberare umori più alti, e di diventare cartina di tornasole di una disillusione che marca la distanza fra il western americano (solare e orientato alla palingenesi, al racconto epico della nascita di una nazione) e quello europeo, generalmente incattivito e “contro”, scettico circa le possibilità di cambiare il mondo. La storia non a caso propone un duello a distanza fra razzisti e rivoluzionari straccioni, interessati ugualmente al potere. E in mezzo un eroe cinico che punta sì al denaro, ma alla fine compie il suo percorso di redenzione che lo porterà ad amare di nuovo (e i rimandi cristologici non fanno altro che dare maggior linfa all'odissea del personaggio). Dovremo aspettare il John Carpenter delle due Fughe (da New York e da Los Angeles) per trovare un ritratto sociale altrettanto spietato e una maggiore consapevolezza teorica nell'uso dei simbolismi. Il che significa che già in questo caso i semi piantati sono quelli giusti!


Django
Regia: Sergio Corbucci
Sceneggiatura: Sergio Corbucci, Bruno Corbucci, Franco Rossetti, Josè G. Maesso, Piero Vivarelli
Origine: Italia/Spagna, 1966
Durata: 94'

martedì 22 gennaio 2013

Presentazione del libro su Godzilla

Presentazione del libro su Godzilla

Dopo l'uscita nelle librerie, la promozione del libro Godzilla il re dei mostri: Il sauro radioattivo di Honda e Tsuburaya entra nel vivo con la prima presentazione italiana al pubblico.

L'incontro si terrà sabato 2 febbraio alle ore 19:00 presso la libreria Dickens di Taranto, in via Medaglie d'Oro 129, uno dei luoghi storici della cultura cittadina.

Saremo presenti io e il coautore Andrea Gigante, mentre Massimo Causo (critico cinematografico, nonché coautore con me del libro su Halloween) sarà il moderatore dell'incontro.

Sarà l'occasione buona per una chiacchierata informale con i presenti, per raccontare i retroscena che hanno portato alla creazione del libro, per parlare degli obiettivi che il volume si prefigge e, perché no, per dare sfogo alla passione per il cinema nel suo complesso!

L'ingresso e libero, se siete in zona non mancate, altrimenti vale comunque l'augurio di buona lettura a tutti!



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martedì 1 gennaio 2013

Buon 2013!

Buon 2013!

Ognuno ha il suo film delle feste, da molto tempo il mio è Il mago di Oz, di Victor Fleming.


L'immagine di Dorothy con lo Spaventapasseri, l'Uomo di Latta e il Leone Codardo, però ha anche un altro significato: anticipa le due Oz-uscite che apriranno il 2013, ovvero la pubblicazione in DVD di Nel fantastico mondo di Oz (sequel disneyano uscito alla fine degli anni Ottanta) e l'arrivo nelle sale di Il grande e potente Oz, prequel del classico di Victor Fleming diretto dal grande Sam Raimi.

Un modo poetico e pieno di meraviglia per iniziare il nuovo anno: tanti auguri a tutti!