"C'è chi crede in dio o nel denaro. Io credo nel cinema, nel suo potere. L'ho scoperto da ragazzino, mi ha aiutato a fuggire da una realtà in cui ero infelice. È una delle forme d'arte più alte che l'uomo ha concepito. Credo nel suo futuro."
(John Carpenter)

mercoledì 27 febbraio 2013

Warm Bodies

Warm Bodies

R. è uno zombie. Passa le sue giornate in un mondo precipitato nell'Apocalisse, dove gli umani vivono asserragliati dietro mura fortificate e si avventurano all'esterno solo per procacciarsi il cibo. Proprio durante una di queste spedizioni, R. si imbatte in Julie, che sembra risvegliare qualcosa in lui. La ragazza viene così condotta nella zona infestata e lentamente fra lei e R. si instaura un rapporto di solidarietà, che sembra far intravedere una possibile “guarigione” dei morti viventi e un loro ritorno alla vita. Ma ci sono due problemi di cui tener conto: uno è la diffidenza degli umani, che non accetteranno mai un compromesso con quelli che ritengono soltanto dei mostri. E l'altro riguarda gli “ossuti”, l'ultimo stadio dell'infezione zombie, che ha portato alcuni morti a diventare degli esseri spietati e pronti a tutto pur di impedire il ripristino dello status quo.


Non è uno zombie, ma di sicuro Jonathan Levine è un regista (e sceneggiatore) fuori dagli schemi, che realizza pellicole intriganti e porta avanti una visione che sempre più assume la forma di un percorso autoriale compiuto. Il suo esordio con All the Boys Love Mandy Lane (del 2006) è purtroppo rimasto inedito in Italia (complice anche il fallimento di chi lo aveva acquistato per il nostro mercato), ma un paio d'anni fa l'ottimo 50 e 50 è piombato come un fulmine a ciel sereno a sparigliare le carte della commedia “indie” americana (ne avevo scritto da Torino): la pellicola, infatti raccontava le vicissitudini di un ragazzo ammalato di cancro unendo l'ironia tipica del genere a uno sguardo disincantato e anche molto duro sulla realtà e sui complessi rapporti sentimentali che regolano la stessa. Warm Bodies è l'ulteriore tassello dello schema, che rinnova l'idea di un dialogo con la morte come chiave di volta per capire le dinamiche che regolano la vita.

Pertanto, possiamo subito archiviare le facili polemiche dei puristi che hanno accolto con diffidenza (se non proprio astio) l'idea della love story fra l'umana e lo zombie, temendo il ripetersi del fenomeno Twilight – peraltro cavalcato dalla produzione con la scelta della bella Teresa Palmer, molto somigliante a Kristen Stewart, e con il fatto stesso che alle spalle c'è un romanzo di un certo successo. Ma, per il resto, siamo su terreni diversi, grazie proprio a Levine, che trasforma la scontata love story adolescenzial-soprannaturale in una divertita e sagace esplorazione dei temi a lui più cari.

Lo zombie (che racconta la sua vicenda in soggettiva, sfruttando l'espediente della voce fuori campo) diventa così uno stadio intermedio fra due differenti situazioni dell'essere, ponendosi come improbabile ago della bilancia fra gli “ossuti” e gli umani. I primi rappresentano la totale negazione di ogni possibile rapporto fra simili, mossi come sono dal puro istinto violento; i secondi invece incarnano la componente problematica di un mondo che si finge ben integrato, ma che in realtà è fortemente diviso. Prova ne sia il fatto che, accanto alla dinamica umana/zombie, l'altra direttrice del racconto è data dal rapporto conflittuale tra la stessa Julie e suo padre, leader della comunità umana barricata dietro le mura.

L'aspetto più interessante, però, non sta tanto nel facile discorso sentimental-sociologico, quanto nella messinscena che corteggia un'idea di “rivitalizzazione” di un immaginario datato: il percorso di riappropriazione del sé che R. compie (transitando dallo stadio di zombie a quello di essere umano) si accompagna infatti alla continua riscoperta di stilemi, codici e oggetti del passato, dai dischi in vinile alle cianfrusaglie “vintage” che il non morto conserva nel suo nascondiglio, alle foto Polaroid, a pellicole come Zombi 2 (citato esplicitamente), fino alla bellissima colonna sonora che comprende brani d'epoca di Bruce Springsteen, John Waite, Guns N' Roses, Roy Orbison e molti altri. A tenere insieme il tutto è poi una dinamica di umanità divisa e barricata che rimanda ai capostipiti romeriani (in particolare a La terra dei morti viventi, di cui il film può essere considerato quasi una variazione più “rosa”).

Così, seguendo una tradizione che rimanda un po' a certo cinema americano classico, è come se il film sbattesse in faccia allo spettatore il valore della semplicità e del dover re-iniziare dalle piccole cose che già fanno parte del nostro bagaglio di umanità e che sono ormai dimenticate da una società distratta e lontana dal desiderio di stabilire un legame con gli altri: e qui si torna alla stessa morale di 50 e 50. Non a caso, nell'unica scena in cui si vede il mondo “di prima”, tutti gli umani sono ritratti come tristi e isolati, quasi nascosti dietro schermi e telefoni, nell'unica forma di interazione che ormai ritengono possibile. E' una scena ironica, ma ha una sua funzionalità e efficacia tematica non da poco.

Su tutto domina anche uno stilema un po' fiabesco, con la bella che redime la bestia, il meccanismo alla Romeo e Giulietta (c'è anche una “scena del balcone”), mentre gli “ossuti” sembrano usciti da una pellicola di Ray Harryhausen – fatto salvo l'uso “invasivo” della CGI, che comunque crea un efficace contrappunto con la carnalità degli umani e dei non morti. Una commedia horror composita, insomma, condotta con brio e anche una buona dose d'azione, a rendere più completo il tutto e più definite le capacità registiche di Jonathan Levine. Da vedere senza pregiudizi.


Warm Bodies
(id.)
Regia e sceneggiatura: Jonathan Levine (dal romanzo di Isaac Marion)
Origine: Usa, 2013
Durata: 95'

mercoledì 13 febbraio 2013

Le recensioni del libro su Godzilla

Le recensioni del libro su Godzilla

Con la distribuzione e la promozione ormai in pieno svolgimento, iniziano a fare capolino in rete le recensioni del mio libro Godzilla il re dei mostri: Il sauro radioattivo di Honda e Tsuburaya.

In questo post ne propongo degli stralci, insieme ai link, in modo da regalare ai visitatori del blog uno spaccato quanto più completo possibile dei pareri che il volume è stato in grado di suscitare.

“In ordine cronologico, gli autori passano in rassegna tutti i lungometraggi in cui ha imperversato Godzilla, soffermandosi giustamente sull’evoluzione del personaggio nel corso degli anni. Il distacco critico è obiettivo ma non scende troppo in tecnicismi e non perde di vista la lavorazione dietro ad ogni film.
[...]Grazie alle informazioni contenute nel libro per recuperare i vari film, il neofita si ritrova per le mani un’ottima guida alla visione.”
Manuel Uberti, AsianFeast.org

“Trattasi di uno studio analitico del fenomeno Gojira [...] che gli appassionati del genere - ma anche i cinefili senza paraocchi - non devono perdersi assolutamente.
Trecento e rotte pagine (con diverse foto in b/n) per esplorare i significati reconditi e manifesti di una saga inaugurata nel 1954 dal film di Ishiro Honda, e da lì pressoché infinita. […] Un libro assolutamente da consigliare.”
Mario Bonanno, SoloLibri.net


A queste va aggiunto l'articolo di Simona Bonanni per Horror.it, che non è propriamente una recensione, quanto un pezzo di presentazione dell'opera, scritto poco prima dell'uscita:

“La triade Di Giorgio – Gigante – Lupi ci propone in questo volume un’analisi di tutte le pellicole “godzilliane” tra il 1954 e il 2004, approfondendone il contesto socio-politico e simbolico, senza tralasciare i dovuti approfondimenti sui suoi creatori, toccando il tema delle avventure televisive del personaggio e completando il tutto con un’analisi sui costumi della gigantesca creatura. Il libro è inoltre corredato da una imperdibile galleria fotografica.
[...]In un panorama di saggi che si ripetono fino all’ossessione, promette di essere una lettura interessante ed inconsueta.”
L'articolo completo


Mi permetto di concludere la carrellata con un parere postato da un utente di Fantaclassici, il forum di cui sono amministratore. E' chiaro, giocando in casa ho vita facile, ma il rimando non vuole essere autoreferenziale, ma soltanto finalizzato a tributare un ringraziamento a parole che mi hanno profondamente commosso – oltre al fatto che, con la sua opinione, King Ghidorah (questo il nickname dell'utente) dimostra di aver capito perfettamente lo scopo del volume:

“Con riferimento alla prima parte, l’elemento distintivo è sicuramente l’approccio culturale. Non si è di fronte ad un mero snocciolare di fatti, date o curiosità. Si ‘entra’ nella storia, cercando di cogliere quelle peculiarità della cultura giapponese che sono la chiave di lettura necessaria per comprendere perché il mito è tale. Per comprendere insomma che dietro l’inspiegabile fortuna di una tuta di gomma ci sono elementi che ci hanno affascinato inconsapevolmente e che finalmente adesso possono essere inquadrati ad un livello più adulto.
[...]La parte dedicata ai film è originale quanto l’altra. Al di là del fatto che rispetto a testi precedenti si trovano le pellicole della saga Millennium, qui siamo di fronte a vere e proprie recensioni autoriali e non a semplici schede informative più o meno approfondite. Questo trattamento di solito lo abbiamo visto riservato al capostipite del 1954 mentre qui è declinato su 29 film.
[...]Elemento trasversale a tutta l’opera è la quantità incredibile di notizie e curiosità che però non sono mai gettati lì alla ‘nerd-way’. Personalmente, pur non essendo un neofita del genere, ho appreso un’incredibile quantità di cose.”

martedì 5 febbraio 2013

Cloud Atlas

Cloud Atlas

Sei storie:
1849: Mentre è in viaggio per mare, Adam Ewing, rampollo di una famiglia dell'alta società, trova il clandestino Autua, che lo aiuterà quando il malvagio dr. Goose tenterà con l'inganno di avvelenarlo per privarlo delle sue ricchezze.
1936: Il giovane musicista gay Robert Frobisher aiuta il compositore Vyvyan Ayris a comporre il suo capolavoro (il “Cloud Atlas”), ma infine l'uomo tenterà di estrometterlo dal successo.
1972: La giornalista Luisa Rey entra in possesso dei documenti che provano la pericolosità di una centrale nucleare, ma la multinazionale che possiede l'impianto cerca di fermarla.
2012: L'editore Timothy Cavendish azzecca il best-seller della vita, ma i fratelli dell'autore gli chiedono una somma talmente elevata che l'uomo è costretto a nascondersi. Suo fratello ne approfitta per farlo rinchiudere in una casa di riposo. Ma l'uomo progetta un'evasione.
2144: A Neo Seoul, il clone Sonmi 451, nato per servire, entra in contatto con il ribelle Hae-Joo Chang, che le mostra i segreti del sistema e l'aiuta a consegnare un messaggio all'umanità.
2321: Dopo la caduta. Zachry aiuta Meronym, venuta dagli ultimi luoghi civilizzati, a raggiungere l'avamposto dal quale lanciare una richiesta d'aiuto verso un nuovo pianeta che possa ospitare la razza umana.


Nell'accogliere l'ultima opera dei Wachowski (qui coadiuvati da Tom Tywker), nessuno sembra aver pensato a Pulp Fiction, per la logica dell'incastro di storie parallele. Rispetto a Tarantino c'è comunque meno lavoro di scomposizione e ricomposizione dei piani temporali (Pulp Fiction, infatti, vede le storie incastrarsi in più punti: il prima di una è quindi anche il dopo di un'altra e così via); al contrario, in questo caso le opere sono ambientate in epoche tra loro molto distanti e quindi non si incontrano, pur generando dei collegamenti che spesso emergono alla fine o sono rivelati solo attraverso piccoli indizi, che sta all'abilità dello spettatore cogliere per comprendere appieno la complessità del tutto (magari anche rivedendo il film più volte).

Allo stesso tempo, però, c'è in comune con il classico tarantiniano un identico amore per le possibilità offerte dall'occasione di giocare con il cinema nelle sue più diverse declinazioni: un gioco che qui si configura attraverso un progetto magniloquente, un autentico mosaico di generi. Si spazia perciò dal racconto storico (con tanto di pirati) alla fantascienza postatomica, passando per il thriller anni Settanta (in odore di blaxploitation), il melodramma gay e quella commedia un po' sopra le righe tipica di certo cinema britannico.

Già soltanto la capacità di riuscire a mescolare percorsi così diversi, indovinando perfettamente i tempi, basterebbe quindi a innalzare Cloud Atlas fra le opere più significative degli ultimi tempi: tre ore che scorrono veloci, generando interesse e curiosità, mentre le storie si danno il cambio continuamente, esaltando i codici basilari dell'esperienza cinematografica. Tensione, avventura, passione amorosa, ironia e un pizzico di malinconia che si stempera più spesso nel sense of wonder si uniscono così con incredibile naturalezza. I dialoghi abbondano, certo, ma il cuore è dato dalle azioni e dagli stili che passano in rassegna le varie parti.

Ma c'è dell'altro: c'è la coerenza di un discorso autoriale che i Wachowski continuano a portare avanti raccontando ancora una volta la rottura di uno schema che non è soltanto quello della linearità narrativa, ma anche e soprattutto quello in cui sono costretti i personaggi. Il tratto comune delle sei storie è infatti la costante ricerca di una liberazione da un destino avverso, superando il quale non solo il singolo, ma tutta l'umanità riesce a evolvere, generando infine quelle connessioni che rendono la storia omogenea nella sua diversità.

Il film diventa così da un lato il tentativo di stare pienamente nei codici espressivi offerti dai generi, quelli in grado di generare una capacità mitopoietica che renda il racconto appassionante; e, dall'altro, un'operazione che forzi gli stessi in modo da creare una distanza, quella che serve allo spettatore per non perdere mai di vista il progetto generale. Ecco dunque il make up così insistito e in più parti “finto”, in un gioco che sembra ammiccare consapevolmente all'arte del mascheramento tipica della rappresentazione cinematografica. Il momento della creazione rappresenta dunque tanto un intenso lavoro di ricerca delle singole note che comporranno infine il sestetto “Cloud Atlas” - e che quindi hanno valore in sé - quanto un esaltazione del risultato finale che, pur formato da singoli elementi, ha valore in quanto intero.

Proprio questa oscillazione fra il particolare e l'universale permette al film di reggersi sul doppio registro di una vicenda che si lascia seguire attraverso le singole storie, ma riesce poi a ritagliarsi lo spazio per far trionfare la sua tensione a un dopo, a un superamento delle barriere imposte dalla contingenza dei singoli momenti e, financo dal corpo stesso. Qui risiede uno degli aspetti più interessanti del film, ovvero la sua natura transgender che si ritrova nei continui cambiamenti di look (e persino di sesso o etnia) operati sugli attori, man mano che gli stessi si ritrovano a ricoprire ruoli diversi attraverso le varie storie. Più che alle vicende autobiografiche di Larry/Lana Wachowski appare calzante un parallelo con il processo di trasformazione del bruco in farfalla, modulato sull'evoluzione degli umani, sulle potenzialità offerte loro da una tecnologia che spesso non riesce però a liberare davvero l'animo dalla tendenza a richiudersi in meccanismi costrittivi, che sfociano naturalmente in una “scala sociale” fatta di oppressi ed oppressori.

E questo ci riporta naturalmente a Matrix, ancora una volta il fulcro della poetica dei due autori, chiamato esplicitamente in causa nella storia del Clone e nelle visioni infernali dei macchinari che regolano la vita della città e la produzione in massa dei servitori. Anche in questo si nota come Cloud Atlas sia una ricapitolazione del corpus d'opera già tracciato dai due autori e, allo stesso tempo, una sua evoluzione: una parte per il tutto.


Cloud Atlas
Regia e sceneggiatura: Lana Wachowski, Andy Wachowski, Tom Tykwer (dal romanzo di David Mitchell)
Origine: Usa/Germania/Hong Kong, 2012
Durata: 172'


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