"C'è chi crede in dio o nel denaro. Io credo nel cinema, nel suo potere. L'ho scoperto da ragazzino, mi ha aiutato a fuggire da una realtà in cui ero infelice. È una delle forme d'arte più alte che l'uomo ha concepito. Credo nel suo futuro."
(John Carpenter)

giovedì 28 marzo 2013

Un giorno devi andare

Un giorno devi andare

Augusta è fuggita dall'Italia per combattere il suo dolore e ritrovare se stessa. Seguendo l'amica suor Franca è giunta in Amazzonia, per confrontarsi con un'esperienza lontanissima da quella della vita cui è abituata. Ma ben presto capisce che il “professionismo” religioso non fa per lei e cambia strada. Sarà solo la prima di varie svolte nella perenne ricerca del proprio equilibrio. Nel frattempo, in Italia, la madre l'attende preoccupata...


“Una donna sente tutto con il corpo, gli uomini sono più focalizzati sulla mente”. Partiamo da questa frase dell'attrice Pia Engleberth (suor Franca nel film), perché ci fornisce un buon punto di partenza e di approccio alla terza pellicola di Giorgio Diritti: e ci permette anche di razionalizzare meglio l'andamento un po' ondivago del film, attento cioè a restituire la forza espressiva del paesaggio amazzonico (ovvero il corpo) senza però farsi fagocitare dal lirismo, dalla tendenza a perdersi in uno spazio talmente privo di confini da risultare a suo modo totalizzante e autosufficiente. Diritti si trattiene (usa la mente) e in questo senso riesce a comporre un film che, pur nella sua valenza documentaria rispetto alla realtà che esplora, sa essere anche un'esperienza – e viceversa.

Per certi versi è il film che Terrence Malick non riesce più a fare: paragone forse eccessivo, d'accordo, ma denota un pensare alto e altro che ormai vediamo di rado nel cinema italiano. L'aspetto più interessante è questa poesia della quotidianità, che non diventa mai né cifra stilistica principale, né impedimento alla sperimentazione. Al contrario, il regista si lascia ogni tanto abbandonare a qualche elaborazione visiva molto interessante, che crea un efficace contrappunto rispetto al naturalismo della fotografia. Abbiamo così vari momenti che si intrecciano lungo il racconto e che di volta in volta sembrano riflettere varie caratteristiche del cinema di questo anomalo autore: la concretezza di Ermanno Olmi (alla cui scuola Diritti si è formato), l'afflato libertario di un cinema non necessariamente italiano nella forma, e una tendenza alla narrazione che sta addosso ai personaggi, più direttamente vicina ai canoni della nostra industria. Si pensi agli intermezzi con la famiglia di Augusta, peraltro anche i più deboli e didascalici, i più evidentemente “fiction”, anche nella recitazione così compassata, in contrasto alla naturalezza delle scene amazzoniche.

Al centro di tutto, in fondo, c'è una protagonista in cerca di se stessa e che per questo agevola l'indeterminatezza ricercata dal progetto: una donna che, fra le righe, capiamo essere fuggita dopo aver appreso di non poter generare figli, ma che alle spalle ha pure la perdita di un padre che sembra averla particolarmente segnata. Diritti però cerca di dribblare le trappole della psicologia spicciola, lasciando questi particolari sullo sfondo, concentrandosi invece sui contrasti che Augusta genera nell'immediato, con la sua presenza “aliena” in uno spazio che lo spettatore percepirà comunque come eccezionale (nel senso vero e proprio di eccezione).

Ecco quindi le incertezze spirituali della donna, una certa qual ambiguità sessuale che non a caso le vale l'accusa di vestire e comportarsi come un uomo: non che si parli di pansessualità, sia chiaro, ma più che altro di una a-sessualità, una incapacità a vivere la propria dimensione fisica e umana fino in fondo, nonostante le occasioni che le si presentano (ed è una bella sfida con un'attrice molto fisica come Jasmine Trinca). Su tutto domina in particolare una tendenza al nomadismo, al continuo spostarsi di luogo in luogo: ogni qual volta sembra infatti che Augusta abbia trovato la sua dimensione, ecco che qualcosa la spinge a fuggire ancora. Si tratta, nella maggior parte dei casi, di una dinamica del rimpiattino, perché il motivo che, al fondo, fa sempre continuare il viaggio è che ogni volta la protagonista scopre di non essersi riuscita a lasciare il proprio mondo “occidentalizzato” alle spalle.

Il film, in questo senso, è ammantato anche da una perenne malinconia da innocenza perduta, con la “civilizzazione” che torna sempre a presentarsi alla porta di Augusta attraverso varie forme: quelle della “cristianizzazione” coatta, quella della “globalizzazione” economica e degli spostamenti in massa di gente dalle proprie abitazioni verso i prefabbricati, con la scusa di una vita migliore; ma anche quella di un rapporto difficile tra gli stessi indigeni e quella natura così primitiva, violata non a caso dall'inquinamento, dalle bottiglie che ingombrano la superficie del Rio delle Amazzoni. Fiume che – quasi per contrappasso – spazza poi via le case quando è ingrossato dalla pioggia.

Augusta rifugge tutto questo e il film, sebbene abbastanza attento a non scadere nella trappola dell'opera a tesi, la segue in questa continua regressione (nel senso non negativo del termine) verso un primitivismo che la porta infine a restare sospesa nel nulla. Perché la posta in gioco è appunto tornare a sentire con il corpo, riappropriandosi di una dimensione personale che permetta il raggiungimento di una qualche completezza: non a caso fra le scene più significative di un finale che resta comunque aperto, c'è Augusta che gioca con un bambino. In quel momento è come se fosse diventata quella madre che non aveva potuto essere. E l'esperienza raggiunge una, seppur momentanea e forse anche precaria, conclusione.


Un giorno devi andare
Regia: Giorgio Diritti
Sceneggiatura: Giorgio diritti, Fredo Valla, Tania Pedroni
Origine: Italia, 2012
Durata: 110'

martedì 26 marzo 2013

Killer Joe

Killer Joe

Chris è un giovane spacciatore e deve 6000 dollari al suo fornitore: per racimolare la somma necessaria decide di eliminare sua madre, in modo da riscuoterne l'assicurazione sulla vita. A compiere materialmente l'omicidio sarà Joe Cooper, un poliziotto locale che “arrotonda” le sue entrate come killer. Chris ha un complice nel padre, che lo aiuterà a organizzare la cosa. Joe accetta di fare il lavoro, ma poiché i due non sono in grado di garantirgli la caparra, chiede (e ottiene) di poter fare l'amore con Dottie, la sorella innocente di Chris. Così, il ragazzo deve barcamenarsi fra l'esigenza di racimolare il denaro e il forte senso di protezione per la sorella, che non sopporta di vedere trattata da Joe come la sua donna. E quando poi si scopre a chi è intestata davvero l'assicurazione sulla vita della madre, Chris inizia a trovarsi nei guai...


Avevo perso un po' di vista William Friedkin, che effettivamente non girava un film da più di un lustro. Ma ancora più temevo che l'ambiguità, da sempre suo marchio di fabbrica, si fosse un po' stemperata nella confusione che affliggeva due film pure interessanti come Regole d'onore o Bug (quest'ultimo peraltro molto amato in rete). Invece, per fortuna, il regista di Cruising e L'esorcista non ha perso il tocco e il suo ritorno avviene nel segno di un'altra grande pellicola! Killer Joe, peraltro, è un po' uno speculare del già citato Bug: come quello è infatti tratto da una pièce teatrale di Tracy Letts (anche sceneggiatore) e trova la sua maggior forza espressiva nelle scene d'interni, quando i personaggi lasciano esplodere i conflitti e le tensioni umane, parentali e sessuali che il racconto dissemina lungo il suo percorso.

Stavolta però ci sono due valori aggiunti: il primo è il tono. Friedkin riesce ad affrontare gli argomenti a lui cari attraverso un tono in perenne opposizione alle apparenze. Il film, infatti, è serissimo nel mettere in scena un ritratto di degradazione umana a dir poco devastante, ma lo fa con l'arma dell'ironia e del grottesco. Killer Joe è insomma un noir, ma appare quasi una parodia del genere, per la costante ricerca di un sopra le righe che diventa perfetta forma espressiva di un universo impazzito. Il regista riesce così a rendere il grottesco un linguaggio flessibile, in grado di colpire lo spettatore divertendolo, ma senza mai celare lo squallore dello scenario che racconta.

L'altro punto di forza è il casting, in cui Friedkin continua questo discorso di rovesciamenti e, allo stesso tempo, crea risonanze eccellenti. Se vedere Emile Hirsch nell'inedito ruolo di “cattivo” o il granitico Tomas Hayden Church come vecchio padre fallito può già apparire interessante, è nella scelta di Juno Temple e, soprattutto, di Matthew McConaughey che l'autore colpisce nel segno. La prima riesce infatti a fare propria l'ambiguità friedkiniana risultando allo stesso tempo tenera e non priva di una sensualità anche disturbante per come l'idea della sua violazione fisica si sposa alla perdita dell'innocenza. Non a caso Dottie ci viene sì presentata come una ragazzina tenera e un po' svanita, una sorta di fiore cresciuto nel mezzo del nulla, ma anche come un corpo adulto che genera sogni conturbanti nello stesso fratello Chris. La tensione sessuale e quella parentale, insomma, sono legate in modo molto fitto. E Dottie è poi anche il personaggio più complesso, come dimostra la sua preminenza nel finale.

McConaughey è invece Joe, personaggio apparentemente fuori contesto, con la sua parlata sempre modulata sui toni bassi (rigorosamente da gustare in versione originale), il suo abito nero che lo connota come personaggio iconograficamente ben definito, ma allo stesso tempo ne annulla quella fisicità che pure il regista non dimentica quando ci mostra l'attore completamente nudo. Joe, insomma, oscilla fra la sovrastrutturazione iconica di un corpo perfettamente costruito (che sembra uno scampolo impazzito di Cruising improvvisamente calato nel corpo del film) e lo stemperarsi di un personaggio che si muove dietro le quinte, fra le pieghe della legalità, nel doppio ruolo di tutore della legge e di suo distruttore. Anche qui Friedkin elabora visivamente il concetto quando trasfigura Joe nella sua ombra, ritagliandone l'inconfondibile sagoma con il cappello.

Eppure Joe è, alla fin fine, l'elemento di coesione di questo universo in disfacimento: non a caso è lui a officiare la cena finale che dovrebbe sancire il suo ingresso “in famiglia”. Qui Friedkin gioca di sponda con le risonanze create dall'attore, ricordando la sua partecipazione a Non aprite quella porta IV: tutta la scena finale della cena appare infatti una trasfigurazione in senso lato degli umori impazziti che serpeggiano nella saga di Leatherface, e ci ricordano che Killer Joe è – a conti fatti – un film horror, perché possiede la lucidità politica del genere, lo sguardo critico nei confronti delle istituzioni precostituite (come la famiglia). Perché sa giocare con i cliché e i personaggi e nel mettere in scena il disfacimento di un nucleo familiare, ne rafforza la portata iconica e tragica. Ed è un cinema di corpi, esaltati e allo stesso tempo violati, sempre incapaci di celare la mostruosità dell'animo o, magari, di sottolinearla attraverso il gioco degli opposti. Un lavoro che fa capire davvero come il casting e la regia qui sfiorino la perfezione.


Killer Joe
(id.)
Regia: William Friekdin
Sceneggiatura: Tracy Letts (dalla sua pièce teatrale)
Durata: 100'
Origine: Usa, 2011

sabato 16 marzo 2013

5 anni nel Nido

5 anni nel Nido

Non ci avevo mai fatto caso, ma il Nido è praticamente nato alle Idi di Marzo: era una domenica (se ben ricordo) di cinque anni fa, decisamente più soleggiata e sopportabile di questo sabato 16 marzo 2013 flagellato da un'insolita e improvvisa calata di freddo. E quindi oggi si taglia il traguardo del primo lustro, centrando una ricorrenza finalmente “tonda”: cosa che, lo ammetto, fa un bell'effetto.

Dunque è tempo di bilanci, ancora una volta: il progetto partì sull'onda dell'entusiasmo contagioso mostrato da altri colleghi per la blogosfera (alcuni poi l'hanno anche abbandonata mentre io sono ancora qua), ma in modo non avventurista, ponderando i pro e i contro. L'approdo al quinto anno si sposa così allo sforamento del tetto dei 400 post (questo che scrivo ora è il numero 413). Nello stesso tempo, il blog ha assunto una struttura più definitivamente “cinefila”, le deviazioni sono diventate più rade, complice il fatto che in questo difficile periodo bisogna fare delle scelte e seguire i più disparati rami dell'entertainment è diventato complesso. Quindi meglio stare sulla certezza offerta dalla passione per il cinema. Che poi spesso si lega comunque ad altri settori, basti pensare all'iniziativa editoriale del libro Godzilla il re dei mostri (sul quale ci sarà a breve un altro aggiornamento). Siamo pur sempre in una società transmediale, dopotutto.

A proposito di cinema, questa attualmente in corso è un'annata talmente buona che la lista dei film da recuperare (ovvero “da recensire”) è sensibilmente più lunga che in passato. Ne riparleremo a fine stagione, ma intanto questo permette di gettare un ponte verso il futuro. Come ho già scritto in passato, però, non faccio tabelle di marcia, perché il divertimento nel portare avanti questo progetto non deve essere sminuito dal “dovere” (visto e considerato che, in fondo, un blog non rientra nella sfera del lavoro vero e proprio).

Naturalmente, come sempre, un sentito grazie va a chi frequenta questo spazio, con l'augurio di ritrovarci anche i prossimi anni, ogni 16 marzo. Vi ricordo anche il blog gemello La luna di Cybertron, che, fra alti e bassi, continua pure la sua corsa monitorando le iniziative (pure lì principalmente “visive”) legate al mondo dei Transformers.

Collegati:

venerdì 15 marzo 2013

Spring Breakers

Spring Breakers

Quattro amiche adolescenti, Brit, Candy, Cotty e Faith, decidono di raggiungere la Florida per passare un memorabile “Spring Break” (la settimana di vacanze primaverili). Per racimolare i soldi necessari, Brit, Candy e Cotty non esitano a rapinare un fast food e poi si lanciano nell'avventura. La vacanza si rivela indimenticabile, ma ben presto la continua ricerca di esperienze forti porta il gruppo a finire in prigione per consumo di droga e poi a gravitare nell'orbita di Alien, un giovane spacciatore. Faith è la prima a mollare il gruppo, mentre le altre proseguono la loro avventura.


E' stato il film evento della Mostra di Venezia 2012, dove però ha fatto parlare di sé soprattutto in virtù della sua natura “scandalosa”, con tanto di dissertazioni e “misure” da sarto sulla forza più o meno dirompente dell'operazione. Non che Harmony Korine non cerchi la provocazione, beninteso: il solo fatto di avere cooptato due ex ragazze prodigio della scuderia Disney (la Vanessa Hudgens di High School Musical e, soprattutto, la Selena Gomez anche celebre baby popstar) è lì a ribadire come l'operazione abbia una sua natura demistificatoria, o comunque ben conscia del potenziale iconico insito nelle attrici. Però poi, quando lo vedi sullo schermo, ti rendi conto che Spring Breakers è altro dalla programmatica operazione-scandalo. E', anzi, un viaggio lisergico e malinconico in una dimensione onirica, fra i più entusiasmanti dell'annata!

Nel mettere mano per la prima volta a un film privo delle asperità stilistiche del passato, infatti, Korine non perde la voglia di sfruttare la vicenda per una sperimentazione visiva in grado di rendere la visione un'autentica esperienza. Non a caso il legame artistico con James Franco (co-protagonista nel ruolo di Alien) nasce nel mondo della videoarte. La realtà della Florida viene destrutturata in un caleidoscopio di immagini e musiche, che restituiscono allo spettatore la cifra eminentemente “acida” di un mondo che esiste solo in virtù della propria iconicità pop, fatta di suoni, colori e percezioni distorte: grazie ad essi lo Spring Break ha una sua fattualità in quanto fenomeno e stereotipo. Il trampolino ideale per poi lanciarsi nell'astrazione e costruire l'impalcatura esistenziale, che diventa più evidente nella seconda parte. Qui il film riesce infatti a creare una risonanza intelligente con opere come Zabriskie Point o il Michael Mann di Miami Vice: diventa, insomma, messinscena di uno spazio altro, le cui coordinate sono garantite da un complesso sistema di riferimenti da cui non si può prescindere, all'interno del quale le protagoniste – che pure vorrebbero ritrovarsi – possono finalmente perdersi.

Una volta messo in scena questo mondo, insomma, Korine lascia che i suoi personaggi si muovano nello stesso, come preda di una sorta di assenza di gravità. I corpi ammiccanti perdono la loro fisicità per diventare essi stessi icone in caduta libera, forme che si perdono fra i segni di questa irrealtà. L'aspetto più intrigante è come questo svuotamento di sostanza finisca per creare una contrapposizione fra l'immanenza dei segni che connotano l'universo e questa tensione continua al nulla e alla perdita. In virtù di questo approccio – che spesso vede immagine e dialoghi negarsi a vicenda – il film si carica di una qualità malinconica, affine tanto al disperato fuggire di Antonioni, quanto alla futile ricerca di un edonismo che non può garantire la felicità di Mann (ovviamente fatti sempre i debiti distinguo).

Spring Breakers naturalmente metabolizza il fatto di venire dopo questi modelli alti e deve fare i conti con la realtà in cui si muove, ma la tensione è alquanto simile. Perciò il film smette presto di essere “solo” un banale esempio di estremismo e diventa un sogno “congelato” in un non-tempo: la ripetitività di certe formule visive è come se volesse istillare nello spettatore la consapevolezza della continua reiterazione degli stessi gesti, nonostante la progressiva escalation cui la situazione conduce, con tanto di graduale allontanamento di alcuni membri del gruppo. In questo senso, Faith appare il personaggio chiave, sicuramente il più complesso, costretto com'è fra le inibizioni della Fede e il desiderio di conoscenza condiviso con le amiche: non a caso è proprio lei che a un certo punto parla di “fermare il tempo” per poter assaporare per sempre la gioia del momento.

E' come se Korine avverasse il suo desiderio, ma solo per mostrarne il perdersi cui l'esperienza giocoforza conduce. E senza che questo sottintenda moralismo alcuno. Anzi, il bello è proprio la totale mancanza di uno sguardo morale, che lascia perciò fuori le facili disquisizioni sull'”estremismo” per diventare – lo ribadisco – messinscena di un'esperienza. Anche per questo la chiusa può considerarsi sostanzialmente un lieto fine, una sorta di “superamento della prova”. La miglior conclusione possibile per un film a suo modo capace di trascendere le facili apparenze e di diventare un'opera astratta, carica di meraviglia e poesia.


Spring Breakers – Una vacanza da sballo
(Spring Breakers)
Regia e sceneggiatura: Harmony Korine
Origine: Usa, 2012
Durata: 94'

mercoledì 6 marzo 2013

Nel fantastico mondo di Oz

Nel fantastico mondo di Oz

Dopo essere tornata dal regno di Oz, Dorothy è afflitta da una forma di depressione che spinge gli zii a sottoporla a una cura a base di elettroshock. La bambina, però, riesce a fuggire dalla clinica e, trascinata via dalla corrente del fiume, si ritrova ancora una volta a Oz: ma il regno è in rovina, lo Spaventapasseri (che aveva assunto la reggenza) è sparito e la Città di Smeraldo è abbandonata a se stessa, con bande di Rotanti che imperversano per le strade e il Leone Codardo e l'Uomo di Latta ridotti a statue di pietra, insieme a tutti gli abitanti. La colpa è del malvagio Re degli Gnomi, che ha lanciato un maleficio su Oz assumendo il potere. Dorothy deve fermarlo, insieme a nuovi compagni: il robot Tik Tok, il divano volante Gump, il tenero Jack Testadizucca e Billina, la sua gallina del Kansas, che una volta arrivata a Oz ha acquisito il dono della parola.


La recente uscita in DVD permette a Nel fantastico mondo di Oz di uscire finalmente dal novero dei film più citati che visti, dopo le sporadiche trasmissioni tv e la vecchissima pubblicazione in videocassetta. Si tratta di un recupero che fa il pari con il “ritorno a casa Disney” delle suggestioni create da Frank Baum: in origine, infatti, la Mgm decise di produrre Il mago di Oz proprio perché il successo di Biancaneve e i sette nani aveva reso palese come il pubblico fosse pronto ad accettare una piena incursione nei territori del fantasy. Naturalmente, visto che stavolta si gioca in casa, la Disney non può citare direttamente la pellicola del 1939 e mette perciò in piedi un seguito che unisce vari romanzi di Baum successivi al primo (Il meraviglioso regno di Oz, Ozma, regina di Oz e Tic-Toc di Oz). A dirigere c'è Walter Murch, ex collaboratore di George Lucas, famoso soprattutto come montatore e qui alla sua unica regia: l'inesperienza nel ruolo, peraltro, procurò non pochi problemi all'autore, al punto che lo stesso Lucas dovette fare da garante, permettendogli di finire il lavoro. Tanta fiducia non fu comunque ripagata dal botteghino, dove il film fu un sonoro flop, condannando poi la pellicola all'oblio.

A rivederlo oggi, non si tarda a capire le ragioni dell'insuccesso: Murch compone infatti un film che, più che un seguito, è una vera antitesi del capolavoro del 1939. Il film di Fleming, va ricordato, negli Stati Uniti è considerato un'autentica istituzione, al punto da essersi radicato in profondità nell'immaginario popolare: cercare di rovesciarlo di segno è sì una scelta coraggiosissima da parte di Murch, ma anche un azzardo non da poco, che gli ha perciò alienato i favori del pubblico. Tutto ciò che nell'opera MGM è solare e colorato, qui diventa cupo e quasi monocromatico: non c'è nessuna soluzione di continuità fra il Kansas devastato dal dopo tornado e ancora sferzato dalle intemperie e un regno di Oz ormai in rovina, spoglio e abitato da personaggi che la natura “analogica” degli effetti speciali rende quanto mai concreti e “fisici”, così distanti dal tono naif e stilizzato della pellicola del '39. Il sembiante caratteristico della Strega dell'Ovest è sostituito da una inquietante Principessa Mombi con teste intercambiabili, i folli Rotanti e un Re degli Gnomi di roccia che nel finale minaccia di divorare Dorothy e compagni, in una scena di grande impatto drammatico.

Paradossalmente, però, è proprio il tono dark ad avere attirato nel tempo gli appassionati, al punto che oggi il film è ricordato come uno dei più autorevoli esponenti del raro e sorprendente filone “gotico” disneyano, che negli anni Ottanta conobbe uno dei suoi picchi, con pellicole come Gli occhi del parco (1980), Il drago del lago di fuoco (1981), Qualcosa di sinistro sta per accadere (1983) e il cartoon Taron e la pentola magica (1985): tutti titoli oggi abbastanza dimenticati, segnali di un periodo commercialmente difficile per la Disney, che si risolse però in una serie di sperimentazioni decisamente lontane dal consueto target infantile. Un periodo, perciò, su cui bisognerebbe tornare a riflettere. Inoltre, ci sono spunti anche per il dopo: a una visione odierna, infatti, è difficile restare indifferenti al personaggio di Jack Testadizucca, che sembra l'antenato del Jack Skeletron di Nightmare Before Christmas: viene da chiedersi, insomma, se Tim Burton abbia visto e amato il film o se, più semplicemente, non sia un fan dei libri di Baum. Tutto questo senza considerare, infine, l'insperata e felicissima scelta di casting, che affida il ruolo della dolce Dorothy a Fairuza Balk, futura “bad girl” hollywoodiana, interprete di film come Giovani streghe.

In questa sede, però, interessa di più il rapporto reale/fantastico così centrale nella pellicola del 1939 e qui scardinato dalla sintassi “realistica” di Murch - in barba al “fantastico” così esplicitamente chiamato in causa dal titolo italiano: la scelta (ripresa dal classico) di far interpretare i personaggi del mondo reale e quelli di Oz agli stessi attori reitera l'idea del viaggio nel regno fantastico come una catarsi, attraverso cui Dorothy sconfigge le sue paure. Ma, stavolta, cambia totalmente il senso: Dorothy infatti è ormai straniera nel Kansas, avvertita come “strana” da una società che ha perso i valori tradizionali esaltati dal film del 1939 e guarda a un futuro avveniristico, con l'introduzione della corrente elettrica e delle più moderne tecniche mediche. Sebbene il dottor Worley tenti di rassicurare la bambina “umanizzando” la macchina dell'elettroshock (che ha occhi, naso e bocca), c'è ben poco spazio per la fantasia, che da un lato deve ritagliarsi un ruolo preminente con la forza (il fantasma di Ozma che “rapisce” Dorothy e le permette di fuggire), dall'altra soccombe agli istinti più oscuri delle forze malvagie, che riescono a rovesciare il regno di Oz.

Pertanto stavolta Dorothy vuole tornare a Oz e anche il rientro a casa finale lascia una porta aperta a futuri viaggi, risolvendo così la contraddizione insita nel film originale (perché Dorothy preferisce al meraviglioso Oz il grigio Kansas?). Murch, insomma, fa suo il desiderio del pubblico, pur negando allo stesso tutti gli elementi tipici dell'“immaginario di Oz”. Ne viene fuori un film stranamente crepuscolare, con un'ansia un po' da Eden perduto, sin troppo lento e “povero” per gli standard odierni - ma anche per quelli dell'epoca, basterebbe confrontarlo con il lussureggiante Legend, giusto per rimanere in ambiti comunque dark. Alcune suggestioni saranno comunque riprese nel più riuscito Labyrinth, di Jim Henson.

Un classico dimenticato, dunque? Più che altro un interessante esperimento di rielaborazione di un universo considerato altrimenti “intoccabile”: almeno per questo, Nel fantastico mondo di Oz merita un doveroso rispetto.


Nel fantastico mondo di Oz
(Return to Oz)
Regia: Walter Murch
Sceneggiatura: Gill Dennis e Walter Murch (dai libri di L. Frank Baum)
Origine: Usa, 1985
Durata: 113'

lunedì 4 marzo 2013

Il mago di Oz

Il mago di Oz

Dorothy Gale vive nel Kansas, nella fattoria degli zii, ma un giorno un tornado spazza via l'abitazione, e la ragazza si ritrova così nel regno fantastico di Oz. Per tornare a casa, Dorothty deve quindi raggiungere la Città di Smeraldo e chiedere aiuto al potente Mago, l'unico in grado di aiutarla. Durante il viaggio, Dorothy conosce poi tre nuovi amici: lo Spaventapasseri, l'Uomo di Latta e il Leone Codardo, che decidono di recarsi con lei dal Mago per ottenere rispettivamente un cervello, un cuore e il coraggio. Ma quando il Mago accetta di riceverli, pone una condizione per aiutarli: dovranno prima eliminare la perfida Strega dell'Ovest, che l'ha giurata a Dorothy da quando la sua casa, atterrando a Oz, ha ucciso la sua collega dell'Est.


A pensare che l'Oscar del 1940 era conteso fra Via col vento e Il mago di Oz si rischia di restare immobilizzati come l'Uomo di Latta, non per la ruggine, ma per lo stupore: perché vuol dire che due fra le più importanti pellicole del cinema sono uscite praticamente nello stesso momento! Inoltre – aspetto non meno curioso – entrambe recano la firma dello stesso regista: Victor Fleming. In realtà il film ebbe una lavorazione abbastanza travagliata, tipica del periodo d'oro dello Studio System, tanto che vari registi si succedettero dietro la macchina da presa, non accreditati: Norman Taurog girò un breve test e poi Richard Thorpe iniziò ufficialmente le riprese, salvo essere poi rimpiazzato con George Cukor. Ma il regista era già stato scelto per dirigere proprio Via col vento e così subentrò Fleming. Quando poi le gesta di Rossella O'Hara richiesero un cambio di regia, Fleming fu dirottato sull'altro set, e il film fu terminato da King Vidor: il regista di Duello al sole, però, decise di non rivelare il suo coinvolgimento nel film fino alla scomparsa di Fleming, cui era legato da una forte amicizia. In tutto questo una mano la mise anche il produttore Mervyn LeRoy della MGM, che del film può essere considerato il “vero” autore.

Questo gioco di scambi e apparenze è fondamentale per comprendere la particolare natura del film, tutta giocata proprio sul contrasto fra ciò che sembra e ciò che realmente è: d'altra parte nessuno si è mai chiesto per quale motivo Dorothy voglia abbandonare un posto così bello e colorato come Oz per tornare nel grigiore del Kansas a scontrarsi con la perfida Miss Gulch? Qualcuno magari obietterà che all'inizio la piccola sogna un mondo oltre l'arcobaleno, ma è un dato di fatto che appena mette piene nel regno incantato il desiderio di tornare a casa sovrasta ogni altra cosa. E' la chiave per comprendere come il racconto sostanzialmente ponga la realtà come ambito “giusto” e l'altrodove fatato come un mondo evanescente e a conti fatti indegno di essere considerato come proprio. L'espediente stesso di dare ai personaggi di Oz le fattezze dei comprimari di Dorothy nella fattoria del Kansas (inesistente nel romanzo originale di Baum) mira a fare di Oz un semplice sogno (magari un incubo) per una rete di relazioni personali che stanno tutte nella realtà.

Questo perchè Il Mago di Oz, sfrondato dalla sovrastruttura musical e fantasy, è un film che respira del tempo problematico in cui viene realizzato: gli Stati Uniti del dopo collasso economico e della forte divisione sociale (rappresentati dalla perfida Miss Gulch che “possiede tutto il paese” e spadroneggia sui poco abbienti Gale) e l'orizzonte di un tumulto storico (che oggi possiamo leggere come la vicina Seconda Guerra Mondiale) ben rappresentato dal tornado che strappa la bambina alla propria terra. L'esperienza di Oz diventa così catartica e non a caso Dorothy la sfrutta per “punire” la strega e ricostruire un tessuto fatto di legami affettivi forti, con cui fare fronte comune di fronte al Male.

Si tratta quindi di un classico racconto di formazione, in cui i protagonisti devono potersi confrontare con se stessi, per scoprire il valore delle loro potenzialità nascoste. Così, non solo Dorothy riesce a vincere la paura rappresentata da Miss Gulch/la Strega, ma anche i suoi comprimari dimostrano di possedere già i doni che vorrebbero dal Mago: l'intelligenza per lo Spaventapasseri (che ha sempre le idee giuste) e la bontà d'animo per l'Uomo di Latta. Ciò che fa la differenza è la cognizione del proprio merito, che matura solo attraverso il confronto con l'imprevisto, l'avventura e il pericolo. In tutto questo, l'unica parziale eccezione è data dal Leone, davvero un gran Codardo, sul quale risulta maggioritaria la dinamica “buffa” necessaria a rendere l'interazione fra i personaggi più varia (e a veicolare le simpatie del pubblico). Il Mago, da par suo, diventa un mero spettatore, che alla fine risolve le contraddizioni con un po' di furbizia e tante buone intenzioni (segno della semplicità dei tempi dove la ricetta è affidarsi al buon senso e all'unione fa la forza).

Si citava prima però il contrasto fra l'apparenza e la sostanza. Perché, anche dopo ripetute visioni, questa scansione così rigida fra ragione e sentimento continua a non convincere del tutto. Nel senso che si avverte una sorta di tensione interna che cozza con l'intento “educativo” e tutto sommato “normalizzante” della storia. E' come se, insomma, gli autori “sfruttassero” la morale edificante che invita a tenere i piedi per terra e a considerare casa propria come il miglior posto del mondo, soltanto per avere l'alibi necessario a ciò che realmente interessa loro: poter mettere in scena un irresistibile universo fantastico. Della serie: accetto di dover dire per motivi “istituzionali” che il grigio Kansas è migliore del colorato Oz, ma alla prova dei fatti ti dimostro che è tutto il contrario!

Non si spiegherebbe altrimenti lo slancio che la storia dimostra una volta che l'avventura si sposta a Oz, la forza attrattiva del technicolor, i set rigogliosi che creano una frattura insanabile con l'orizzontalità piatta dei campi incolti che circondano la fattoria di Dorothy nel Kansas. E quei magnifici numeri musicali che oltre a imprimersi in maniera indelebile nella mente dello spettatore, esaltano perfettamente la fisicità degli interpreti e ne rivelano una volta di più i contrasti. Abbiamo così una Dorothy forte ma fragile (senza contare il curioso contrasto di una Judy Garland troppo grande per il ruolo ma ugualmente irresistibile), uno Spaventapasseri iperattivo e dinoccolato, un Uomo di Latta la cui rigidità si stempera nei modi gentili, e un Leone che, sebbene pusillanime nel cuore, non perde una certa magnificenza nell'aspetto.

Alla fin fine Oz è – visivamente e musicalmente, prima ancora che su un piano meramente narrativo – un crocevia di suggestioni molto varie ed è questa sua forza a rendere il film un classico, cui la morale edificante deve soggiacere, nonostante i tentativi di risultare preminente. D'altra parte il cinema è grande quando riesce a elaborare visivamente i suoi spunti, e il film sta lì a ricordarlo come pochi.


Il mago di Oz
(The Wizard of Oz)
Regia: Victor Fleming (e altri, non accreditati)
Sceneggiatura: Noel Langley, Florence Ryerson, Edgar Allan Woolf (e altri, non accreditati)
Origine: Usa, 1939
Durata: 101