"C'è chi crede in dio o nel denaro. Io credo nel cinema, nel suo potere. L'ho scoperto da ragazzino, mi ha aiutato a fuggire da una realtà in cui ero infelice. È una delle forme d'arte più alte che l'uomo ha concepito. Credo nel suo futuro."
(John Carpenter)

domenica 28 aprile 2013

Kiki - Consegne a domicilio

Kiki - Consegne a domicilio

La piccola Kiki ha finalmente raggiunto i 13 anni di età e deve quindi abbandonare il suo paese per un anno di apprendistato da strega in una grande città. Accompagnata dal gatto Jiji, vola con la sua scopa in una località in riva al mare, dove trova accoglienza presso la panetteria della signora Osono. Sfruttando la sua unica abilità, quella di volare, Kiki riesce in fretta a mettere in piedi un servizio di consegne: le avventure e i disagi non mancano, ma la streghetta può così inserirsi nella vita cittadina. A lei si interessa anche il giovane Tombo, membro di un club di appassionati del volo. Tutto sembra procedere bene, fino al giorno in cui Kiki non si rende conto che il suo potere magico si è affievolito fino a sparire quasi del tutto.


Curiosa storia quella di Kiki - Consegne a domicilio, che nel lontano 2002 era stato distribuito direttamente in DVD dalla Disney Italia, con una colonna sonora manipolata pesantemente e una serie di vicissitudini tecniche legate all'edizione home video (la prima partita era fallata). Sarà anche per questo che era stato dimenticato abbastanza in fretta, e certamente in pochi si sarebbero aspettati che la Lucky Red gli avrebbe riservato un'uscita in sala, con un'operazione di indubbio merito.

A rivederlo su grande schermo, infatti, Kiki acquista una forza nuova: di base resta il film più apparentemente “leggero” di Hayao Miyazaki, nonché il più aderente ai canoni di un genere abbastanza codificato - quello delle “streghette”, molto popolare in Giappone soprattutto grazie alle serie televisive, da Sally la maga in poi. Un'opera che procede attraverso una serie di episodi che vedono la giovane protagonista di volta in volta impegnata in una consegna, nel rapporto con la gente della città fino allo spettacolare evento finale, con un'animazione che non accusa particolarmente i suoi anni. Ma in realtà, una visione più approfondita rivela altro, e riesce persino a scompaginare molte certezze.

Perciò, ritroviamo sì la curiosità ludica per i siparietti comici, l'empatia per la natura e il gusto per i comprimari in grado di attirare la simpatia dello spettatore (l'irresistibile gatto Jiji), ma accanto al resoconto ironico e lieve dell'avventura, si può notare una cifra insolitamente ansiogena, attraverso la quale Miyazaki riflette una sorta di timor panico per l'incedere inesorabile del tempo: è qualcosa che al solito si misura nella concretezza delle figure, come il corpo stesso di Kiki, che sta fra la “pesantezza” acquisita con l'età (il padre che la solleva con difficoltà perché non è più una bambina) e la leggerezza con cui si libra nel cielo a cavallo della sua scopa. Si torna in questo caso al tema puramente miyazakiano del volo, che qui appare come l'unica abilità realmente propria della strega. In effetti, null'altro connota Kiki come adepta della magia: i genitori (e in particolare la madre) appaiono quasi come degli scienziati un po' bislacchi e non c'è esibizione di incantesimi. Si potrebbe anzi affermare che la natura stregonesca della protagonista sia puramente strumentale a giustificare la sua attitudine a volare (fra l'altro è davvero intrigante la coincidenza che vede il film arrivare nelle sale insieme a Le streghe di Salem, che inquadra il tema della magia da un versante totalmente opposto).

Siamo insomma decisamente lontani dal semplice e spensierato racconto fantasy che si potrebbe credere, il film si inscrive anzi profondamente nel reale e l'allegoria della crescita e dell'andare incontro alla pubertà si fa più palese, così come l'ansia di corrispondere alle aspettative di un mondo che misura il valore della gente attraverso la sua capacità di “darsi da fare” e incasellarsi in un ben definito posto di lavoro. Ritroviamo qui l'altro grande tema di Miyazaki e dello Studio Ghibli, ovvero il conflitto tra la modernità e quell'innocenza perduta che sta nella prima giovinezza e anche nella vecchiaia (le figure anziane non a caso giocano un ruolo abbastanza evidente). Così, nessuno si stupisce più di tanto che Kiki sia realmente una strega, la sua capacità di volare assume una caratura speciale soltanto quando si rivela utile alle ragioni professionali o a quelle più eminentemente “mediatiche” (l'impresa finale commentata in tv e osservata con divertimento dal pubblico).

Tali ragioni ci dicono di un film dunque molto più moderno di quanto all'epoca non fosse legittimo pensare: il suo maggiore merito, comunque, sta tutto nella capacità del regista di portare avanti le sue istanze attraverso un discorso che rimane quasi completamente intimo, o comunque legato a dinamiche sempre vicine a una dimensione personale. Così, abbiamo le ansie della protagonista e il suo rapporto con una realtà altra verso cui è mossa da un sentimento ambivalente: da un lato affetto e grande fascinazione per la città (modellata sui modelli nord-europei, soprattutto della Svezia), dall'altro timore per la voglia di riuscire. Ma abbiamo anche rapporti fecondi con i comprimari, prima fra tutti Ursula, ragazza emancipata e ideale proiezione della stessa Kiki (parallelo suggerito anche dall'utilizzo della stessa doppiatrice), quasi una sorta di proiezione di un possibile futuro senza magia. Oppure il giovane Tombo, che nel suo interesse per le capacità di Kiki, è mosso da una spensieratezza un po' guascona che stempera l'ansietà della protagonista e del racconto.

Non stupisce, quindi, che a un certo punto tutto volga proprio al conflitto tra magia e realtà, con Kiki che perde il suo potere e si lascia quindi avvolgere dalla disperazione legata al non avere più quella caratteristica in grado di determinare il proprio valore “commerciale”. Un conflitto il cui punto di fuga è naturalmente dato dalle qualità intrinseche del personaggio, che, come la madre le ricorda, sono interiori e non esteriori e si legano all'abnegazione e alla capacità di risalire la china. L'allegoria si fa così concreto percorso di crescita, in grado di definire ulteriormente la stratificazione del racconto.

Va segnalato, infine, che l'uscita cinematografica si giova di un nuovo doppiaggio: oltre a ripristinare le musiche originali, l'edizione cambia anche la voce della protagonista, qui interpretata da un'eccellente Eva Padoan, addirittura sorprendente nelle due diverse tonalità di Kiki e Ursula.


Kiki - Consegne a domicilio
(Majo no takkyūbin)
Regia e sceneggiatura: Hayao Miyazaki (dal romanzo di Eiko Kanodo)
Origine: Giappone, 1989
Durata: 102'


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giovedì 25 aprile 2013

Le streghe di Salem

Le streghe di Salem

Salem, Massachussets. Heidi è un'ex tossicodipendente che, uscita dal tunnel, lavora come DJ in una stazione radiofonica insieme ai colleghi Whitey e Herman. Un giorno riceve un pacchetto dal gruppo rock “I Signori”, contenente un disco in vinile: la musica le provoca turbamento e visioni di antichi sabba stregoneschi, che preludono a una discesa in un abisso oscuro. Spettatori attivi della vicenda sono le sue tre vicine di casa, che sembrano sapere molto bene ciò a cui Heidi è destinata. Intanto, il professor Matthias, che ha scritto un libro sui processi alle streghe di Salem, indaga sulla misteriosa melodia e scopre così il legame fra Heidi e un'antica maledizione...


Si riparte da Halloween II, film piuttosto trascurato e sottovalutato, che, alla luce de Le streghe di Salem, torna invece a noi come un importante punto di snodo nella poetica di Rob Zombie: è con quel film, infatti, che l'autore americano segna uno scarto che lo porta ad allontanarsi dalle dinamiche familiari dei suoi primi tre film (La casa dei 1000 corpi, La casa del diavolo e Halloween: The Beginning) per adottare un punto di vista preminentemente femminile. Le donne diventano così figure in grado di controllare forze che sovrastano la sfera dell'umano.

Heidi, come Laurie Strode, è l'anello di congiunzione fra le due sfere ed è sospesa in una narrazione perennemente a metà tra dimensioni contrapposte: c'è il dramma concreto e personale della tossicodipendenza e quello astratto e sovrannaturale della maledizione stregonesca; c'è il presente fatto di relazioni, lavoro e affetti, e il passato magico; c'è una dimensione interiore e fisica che vede Heidi progressivamente sfiorire, come deprivata del sé, e quella esteriore che i titoli di coda oggettivizzano in un evento traumatico per la città (abbastanza simile al massacro dei Myers in Halloween: The Beginning, non a caso).

Ci sono poi altre due contrapposizioni: quella fra l'amore che Rob Zombie prova per sua moglie Sheri Moon, cui dona una centralità assoluta, come a glorificarne la portata iconica in quanto sua musa ispiratrice; e l'accanimento sadico nei confronti del suo personaggio, che fra destino e fato (evocati esplicitamente) non sembra poter predeterminare il suo percorso, ma è vittima invece degli eventi, anche in questo caso come la Laurie di Halloween II. Zombie affronta questa dicotomia con un tono assorto e fondato in larga parte sull'anticlimax, che conferisce al film una caratura malinconica. Per paradossale che possa sembrare, il gioco di amore/odio che l'autore instaura nei confronti di Sheri/Heidi ha la forza di un rituale di corteggiamento attraverso il quale il sacrificio del personaggio si concretizza come espressione d'amore nei confronti della donna, cui è demandato il difficile compito di essere genitrice di un ordine nuovo.

In questo senso, Le streghe di Salem costituisce una perfetta evoluzione delle saghe precedentemente citate, perché anche stavolta Zombie costruisce una mitologia orrorifica che si pone come nuovo ordine universale, da sostituire al vecchio. Un ordine che ora è tutto “al femminile”, dove l'uomo è relegato a ruoli di contorno in quanto figura cartesiana: i personaggi maschili sono infatti in larga parte studiosi o sacerdoti, dunque custodi di una tradizione o membri di ordini volti alla salvaguardia della ragione e dello status quo, in contrapposizione a una componente femminile che chiaramente vira all'irrazionale e al dionisiaco.

Per officiare questo rituale, Zombie utilizza un linguaggio sì serioso e blasfemo - che abbandona il consueto stile "sporco" e la camera a mano - ma in larga parte ludico, nella misura in cui (come ne La casa dei 1000 corpi) si appella al Cinema e al ricco apparato iconografico utile per esprimere il suo amore: da Méliès a Polanski e Kubrick, passando per Lucio Fulci, Le streghe di Salem utilizza tutta la parafernalia che il cinema più visionario, magico e “irrazionale” sia stato in grado di produrre per descrivere un perimetro originale. Uno spazio che alla base è “di genere”, basti pensare a come è esibita la finzione delle maschere o delle creature in lattice; ma che si astrae poi in una dimensione visionaria, tanto da spostare la barra del film dai semplici confini dell'horror a quelli dei grandi visionari come Ken Russell (l'uso espressivo e coreograficamente blasfemo delle icone religiose), Alejando Jodorowski (la frontalità delle figure incappucciate e dei corpi nudi) o David Lynch (la sequenza sul palcoscenico, che rimanda a Mulholland Drive).

In questo modo, Rob Zombie riesce a comporre un film maturo e pervasivo, che scivola sottopelle con la forza delle sue immagini, trasmettendo allo spettatore uno stato di turbamento, che si stempera però nella fascinazione per la bellezza dello spettacolo. Un film di pura regia, totalmente iscritto in una dimensione cinefila personale e a-temporale: caratteristica, quest'ultima, propria di tutto il suo cinema, da sempre sospeso in una non-epoca in perenne rimbalzo fra gli anni Trenta, Settanta e i decenni passati. Era dai tempi del John Carpenter de Il Signore del Male che un regista non riusciva a realizzare un titolo così ambizioso e personale, e in perenne oscillazione fra gli opposti: la dimostrazione di come sia ancora possibile un horror di qualità (per quanto il regista giustamente rivendichi la dicitura di “dramma”) e di quanto Zombie abbia preso sul serio il suo lavoro, consegnandosi oggi a noi come uno dei registi più importanti e coerenti della scena contemporanea.


Le streghe di Salem
(Lords of Salem)
Regia e sceneggiatura: Rob Zombie
Origine: Usa, 2012
Durata: 101'

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mercoledì 24 aprile 2013

Living

Living

3 storie che procedono in parallelo: Grishka e Anton sono una giovane coppia di innamorati, molto legati nonostante le avversità (lui è sieropositivo). Dopo aver convissuto insieme a lungo decidono di sposarsi, ma subito dopo aver celebrato il matrimonio lui viene aggredito da una banda di teppisti e pestato fino a morirne. Grishka è disperata, e il suo dolore è tale che un giorno Anton torna da lei.
Artem vive con la madre e il patrigno dopo la separazione dei genitori: il piccolo, però, non riesce ad accettare questa situazione e, incompreso dal resto della famiglia, aspetta il ritorno del padre, che un giorno torna per lui. I due fuggono insieme, ma la madre e il patrigno li inseguono.
Kapustina non riesce a darsi pace dopo la morte delle sue due bambine: tale e tanta è l'ossessione per la perdita, che la donna si convince che le piccole siano state sepolte vive. Così le riesuma e riprende a vivere con loro, come se fossero vive.


Arriva dalla Russia questo Living, opera seconda del regista e drammaturgo Vasily Sigarev: il richiamo alla vita del titolo è un gesto di volontà, denota l'attaccamento all'esistenza, anche laddove questa sembra al contrario premere verso ben altre direzioni. Lo dimostrano le tre storie che si intrecciano nel flusso del racconto e che chiamano in causa legami spezzati e personaggi incapaci di far fronte alle rispettive situazioni. Quasi dei vicoli ciechi in cui gli sventurati protagonisti sono bloccati tanto dall'imprevedibile e spietata ironia della sorte, tanto dalla loro voglia di non andare avanti, di non lasciarsi alle spalle ciò che è stato.

Tutto questo già si evince dalla superficie, dal semplice racconto delle vicende, lampante nel modo in cui enuncia la disperata pesantezza del vivere, e la coesistenza di resistenza e dolore: ma a Vasily Sigarev non interessa l'esistenzialismo spicciolo, magari facilmente ammantato da documentarismo. Al contrario, il regista e sceneggiatore russo predilige un approccio in soggettiva, che rende la struttura stessa del film permeabile agli umori che serpeggiano sottotraccia. Ne nasce uno stile che sta a metà fra la descrizione ineluttabile dell'infelice esistenza dei personaggi e un'empatia capace di rendere oggettivi i desideri degli stessi. Il racconto anche brutale delle vicende si fa infatti carico delle speranze dei singoli attraverso una qualità onirica, in cui la vita e la morte finiscono per coesistere in uno stato di assoluta normalità: così Anton ritorna da Grishka e i due possono tornare a dividere lo stesso letto, Kapustina scopre che le figlie sono davvero vive e le riaccoglie in casa, mentre Artem riesce a fuggire con il padre, tornato finalmente a prenderlo.

Il gioco degli spazi si situa dunque fra la vastità quasi asettica dei paesaggi imbiancati dalla neve, delle stanze d'ospedale o delle carrozze dei treni, e l'intimità domestica dei luoghi che si sentono propri, in cui è possibile tornare ad assaporare il gusto della condivisione e della quotidianità: è come se la vastità del territorio russo già contempli di per sé l'idea del perdersi, dell'aprirsi come metafora dell'annullarsi (Anton muore perché accetta di seguire i teppisti che lo attirano con una richiesta d'aiuto) e dove, per contro, bisogna sempre richiudersi in se stessi. Le case sono dunque gli unici mondi possibili, e laddove si configurano al contrario come delle prigioni (come nel caso di Artem, che mal sopporta la convivenza con la madre e il patrigno), il rifugio è rappresentato dal letto, in cui rannicchiarsi come a voler descrivere un perimetro totalmente proprio, in cui occupare il minor spazio possibile per affrancarsi da quella vita che è dettata dal mondo di fuori. La messinscena non può quindi fare a meno del realismo, di luoghi concreti in cui adagiare i corpi, ma si stempera in uno stato perennemente assorto, che non concede mai nulla a eventuali sussulti visionari o fiabeschi. Si lavora sulle sfumature, sulle musiche di Pavel Dodonov che contribuiscono a creare l'atmosfera straniante e malinconica, dove il dolore è l'architrave di un desiderio più dolce e crea perciò quello stordimento da zona intermedia in cui gli opposti si annullano e si riequilibrano.

Quasi un racconto di morti viventi e vivi morenti nello stesso spazio, insomma, abbracciati in una impossibile sopravvivenza reciproca, dove non vige più alcuna dicotomia, ma soltanto la forza dei legami, capaci di farsi unico motore possibile del mondo. In virtù di questo complesso intreccio di forze, il film finisce per riverberare una sottile qualità horror, evidente da alcune scelte iconografiche: il sembiante sinistro di Anton, fasciato ed emaciato dopo il pestaggio, le silenziose bambine-bambole di Kapustina, le paure infantili di Artem.

E se il finale pure scioglie molti dubbi, ripristinando in più di un caso la vittoria della realtà e del mondo di fuori, il film non abbandona mai del tutto gli umori di questa realtà “a metà” fra vita e morte: è un segno di rispetto del regista per quelli che non considera solo dei folli, ma degli individui colpevoli soltanto di restare attaccati alla poca felicità offerta dalle loro vite.

Presentato al Festival del Cinema Europeo di Lecce 2013.


Living
(Zhit)
Regia e sceneggiatura: Vasily Sigarev
Origine: Russia, 2012
Durata: 119'

sabato 20 aprile 2013

La collina dei papaveri

La collina dei papaveri

1963. Umi è una studentessa che ogni giorno issa sul pennone davanti alla casa in cui vive delle bandiere nautiche: un segno che le permette di tenere vivo il ricordo del padre, scomparso in mare durante la guerra di Corea. A notare le insegne è invece Shun, figlio di un marinaio, che non può fare a meno di notare il rituale mentre passa con il traghetto davanti alla “collina dei papaveri” in cui vive Umi. L'amicizia fra i due ragazzi ha modo di consolidarsi durante la comune partecipazione alle iniziative studentesche volte a impedire l'abbattimento del Quartier Latin, un antico edificio sede dei club scolastici. Il rapporto fra i due ha così modo di maturare sempre più verso un sentimento più profondo: ma un giorno Shun scopre che Umi potrebbe essere sua sorella. Anche lui infatti è stato adottato e una foto sembra ricondurre la figura del padre di entrambi alla stessa persona...


Il ricambio generazionale tra le fila dello Studio Ghibli ha oggi un esponente di spicco nella figura di Goro Miyazaki, figlio del celeberrimo Hayao, che, dopo l'esordio con il sottovalutato I racconti di Terramare, ha finalmente modo di dimostrare la sua forza autoriale grazie a questo La collina dei papaveri. In effetti, il problema della confusione/sovrapposizione con la figura del padre è evidente in entrambe le pellicole che Goro ha diretto, dove non a caso il problema si inquadra attraverso le figure di protagonisti umbratili e alla perenne ricerca del proprio ruolo e della propria identità. Il regista, pertanto, innesta nella consueta struttura ghibliana le inquietudini tipiche dell'animazione moderna, che riflette il problematico rapporto con la contemporaneità (ai tempi di Terramare qualcuno parlò intelligentemente di un Ghibli con un protagonista alla Evangelion).

Questo aspetto è evidente nella struttura un po' da “feuilleiton” (nel film si dice “da sceneggiato di terz'ordine”) incentrata sulla possibile parentela che arriva a frapporsi nella tenera storia d'amore tra due adolescenti, peraltro entrambi già gravati da un rapporto difficile con la memoria e un lascito paterno macchiato dal lutto della guerra. Non a caso l'ambientazione si sposta nel Giappone degli anni Sessanta, quando la nazione avvertiva i primi segnali del boom economico che l'avrebbe affrancata dalle distruzioni del secondo conflitto mondiale per immergerla nel rinnovato vigore da superpotenza emergente. Un momento in cui la nazione asiatica, affacciata alla modernità, poteva naturalmente riflettere anche sulla strada che andava ad abbandonare. Goro sottolinea questo contesto storico attraverso lo stesso lavoro espressivo sui paesaggi (di meravigliosa qualità pittorica) che aveva caratterizzato Terramare: si passa pertanto dalla quiete un po' fiabesca della collina in cui vive Umi, agli scenari nebbiosi del porto con le ciminiere e lo smog che descrivono uno spazio quasi spettrale – quadri che sembrano messi lì anche per richiamare le dimensioni onirico-mentali in cui a volte si ritrovano i protagonisti quando rivangano il passato e le vite dei genitori.

E' molto interessante notare, però, come tutta questa sovrastruttura “problematica”, da un lato segni una cesura abbastanza netta rispetto alla tradizione Ghibli, mentre dall'altra ne riverberi i tratti più essenziali. Affrancatosi dall'esordio fantasy di Terramare, infatti, Goro dimostra la sua predilezione per contesti più realistici - vicini a tanto cinema giapponese dal vero - dove l'amore per le creature fantastiche di papà Hayao è praticamente assente (mentre si può ravvisare una vicinanza a opere come I sospiri del mio cuore di Kazuhisa Kondo). All'allegoria e all'invenzione fantastica, Goro preferisce un approccio realistico, sebbene non privo di quella poesia visiva che è parte integrante del DNA Ghibli, dimostrando in questo modo una caratura autoriale forte e più in linea con i nostri tempi sempre più smarriti e in cerca di maggiore concretezza delle storie.

Ma, come già evidenziato, questo “distacco” avviene comunque nel segno della tradizione, poiché anche stavolta la dinamica che il film descrive è quella del confronto problematico fra progresso e tradizione, qui incarnato dalla figura del Quartier Latin, quasi un terzo personaggio nel triangolo amoroso descritto da Umi e Shun: l'edificio si pone infatti al crocevia fra un Giappone moderno, che guarda al ciclo distruzione-ricostruzione per gli imminenti Giochi Olimpici, e la memoria che il luogo naturalmente evoca con la sua storia prestigiosa. Il fatto che a farsi carico di preservare la funzione del posto siano i più giovani dice della posta in gioco evocata da Goro, disposto a farsi carico delle stesse istanze già raccontate dai veterani del Ghibli (pensiamo al Pom Poko di Isao Takahata, e al suo difficile rapporto fra natura e progresso urbano). Non a caso a scrivere troviamo sempre papà Hayao, segno di una centralità del rapporto padre/figlio che va al di là degli eventi narrati nella storia.

Un racconto poetico di due anime e dei giochi del destino diventa così una più ampia riflessione sui concetti cari allo Studio e all'autore stesso, che si dimostra il degno erede della tradizione di famiglia. Da non perdere anche le struggenti melodie cantate da Aoi Teshima (già sentita proprio ne I racconti di Terramare).


La collina dei papaveri
(Kokuriko-zaka kara)
Regia: Goro Miyazaki
Sceneggiatura: Hayao Miyazaki, Keiko Niwa
Origine: Giappone, 2011
Durata: 90'


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venerdì 19 aprile 2013

Lecce: non chiamatelo (più) festival “in crescita”

Lecce: non chiamatelo (più) festival “in crescita”

Si è conclusa, come previsto, sabato 13 aprile l'annuale edizione del Festival del Cinema Europeo, con un ottimo successo di presenze e un interesse degli addetti ai lavori molto più ampio che in passato: sembra proprio che Alberto La Monica e i suoi collaboratori siano riusciti a coniare una formula vincente, capace di tenere insieme amministratori locali, stampa e, soprattutto, pubblico. Ecco, soffermiamoci un momento proprio su di lui: il pubblico. Un insieme variegato, trasversale rispetto alle età, capace di riempire le sale per un film di Aki Kaurismaki, così come per gli eventi più o meno legati alla realtà locale - basti pensare al documentario su Pietro Mennea, diretto da Sergio Basso, e diventato anche un'occasione per affrontare il difficile rapporto tra meridione e settentrione d'Italia.

Onore al merito, quindi, perché di questi tempi così caotici e pregni di sprezzo per la cultura, l'idea di un festival fortunato e anche tendenzialmente lontano dalle lusinghe della più facile contemporaneità non è cosa da poco. Sarebbe ora tempo di abbandonare, quindi, le patenti di manifestazione “in crescita”, che lasciano sempre in bocca un certo sapore di snobismo, per dare alla manifestazione salentina quello che finalmente le spetta, ovvero un posto di primo piano fra gli appuntamenti culturali del meridione e, perché no, dell'Italia tutta: non tanto perché con quattordici edizioni ormai archiviate quel termine “in crescita” finisce per risultare un po' stonato, quanto perché l'impressione è quella ormai di un percorso solido, che può pertanto permettersi anche di essere considerato maturo.

In effetti, il bilancio dell'edizione 2013 è arricchito dalla grande varietà dell'offerta, che – pur mantenendo dritta la barra della ricerca di un cinema di qualità e fuori dagli schemi delle canoniche proposte da multisala – quest'anno ha dato la sensazione di voler intercettare target abbastanza diversificati tra loro. Il corpo iconico è dunque quello di Francesca Neri, attrice carnale eppure eterea a sfuggente, a cavallo tra varie cinematografie, il cui curriculum si snoda fra Italia, Spagna e America: anche qui, fermiamoci un attimo a pensare. Di certo nessuno, di fronte a un nome come quello della Neri, penserebbe mai a una gloria internazionale come potrebbe essere, ad esempio, una Sophia Loren o un Roberto Benigni. Eppure delle collaborazioni importanti dell'attrice si è già riferito nel pezzo di presentazione del festival. L'appuntamento leccese in fondo è proprio come lei: mantiene una specifica qualità regionale e particolare, ma è allo stesso tempo uno spazio senza confini, che finisce naturalmente per abbracciare realtà anche molto distanti.

Come a testimoniare questa volontà di andare oltre, basta notare l'interesse per le cinematografie mediorientali (l'inedita Settimana del cinema israeliano), che tracciano una “cartografia” cinematografica destinata ad allungarsi fino al cinema nordico di Aki Kaurismaki: presenza fantastica, quella del cineasta finlandese, anch'esso corpo iconico con tutto il suo apparato fatto di figure noir, sigarette che “rendono l'espressione dell'attore più interessante”, alcool che scorre a fiumi. Apparentemente anch'egli è espressione di un segno tangibile, concreto e definito, così come evidenti sono gli elementi autoriali del suo cinema, fatto di auto, volti che si ripropongono precisamente, rocker dagli improbabili ciuffi a banana. Eppure poi, quando lo vedi lì, sul palco, intento a recitare il suo “personaggio” del regista burbero e pronto a smitizzare ogni discorso con battute sferzanti, ti rendi conto che c'è una tensione nei suoi modi che è la stessa che serpeggia sottotraccia in ogni film: il sogno di un mondo differente e migliore, come quello perseguito con calma risolutezza dai magnifici personaggi del suo Nuvole in viaggio. Perciò, il pessimismo cosmico che l'autore profonde a piene mani, dicendoci convinto che l'uomo veleggia spiegato verso l'autodistruzione, nasconde in realtà una profonda sensibilità e capacità di guardare la realtà.

Ecco, per tutto questo il Festival del Cinema Europeo è ormai una certezza consolidata ma in perenne divenire, un laboratorio con cui è sempre piacevole confrontarsi. Certo, alcuni aspetti devono ancora essere limati: nel 2013 non è pensabile proporre alcuni film delle rassegne in versione non sottotitolata, così come l'idea di insistere con la scellerata abitudine dei posti numerati. Ma nel complesso c'è sempre di che divertirsi!

Concludo con una nota sul Concorso Lungometraggi, da sempre fucina di ottime pellicole, che anche quest'anno ha dimostrato il suo sguardo curioso e attento ai “mali del vivere” questo specifico momento storico. La pellicola più rappresentativa, a parere di chi scrive, è il russo Living, di Dalibor Matanic, purtroppo ignorato dai premi finali: un lirico dramma su amore e morte in cui i corpi dei morti e quelli dei vivi coesistono in uno spazio che è allo stesso tempo reale e mentale. Ci sarà tempo e modo di scriverne altrove. Per questo, qui in calce, sono proposti anche i link agli altri articoli sulla manifestazione che sto realizzando per altre riviste. Per il resto, ci si rivede a Lecce l'anno prossimo!

da Sentieri Selvaggi:
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domenica 7 aprile 2013

Lecce 2013

Lecce 2013

Non che gli altri anni ci fosse da lamentarsi, anzi, ma a scorrere il programma dell'edizione 2013 sembra che il Festival del Cinema Europea stavolta abbia fatto il colpaccio: siamo infatti di fronte all'annata potenzialmente migliore di sempre! Iniziamo dalle retrospettive: il finlandese Aki Kaurismaki è il protagonista del cinema europeo. Il che vuol dire presentazione integrale dei suoi lungometraggi, da Delitto e castigo del 1983 fino all'ultimo Miracolo a Le Havre, passando anche per i cortometraggi realizzati lungo trent'anni di carriera. A questi si affiancheranno incontri con il pubblico, mostra e libro fotografico.

L'omaggio al cinema italiano si configura nel doppio appuntamento con la mini retrospettiva su Francesca Neri e quella postuma su Fernando Di Leo, in occasione del decennale della scomparsa. Vista l'aura di culto che circonda il cinema del passato, si potrebbe pensare che la seconda offerta sia di molto superiore alla prima, ma attenzione a non farsi ingannare dalle apparenze: sicuramente vedere sul grande schermo classici come Milano Calibro 9 o La mala ordina ha il suo perché, ma il curriculum della Neri comprende titoli dell'appena scomparso Bigas Luna (Le età di Lulù), Carlos Saura (Spara che ti passa), Massimo Troisi (Pensavo fosse amore e invece era un calesse), Pedro Almodovar (Carne tremula) e molti altri registi importanti (Pupi Avati, Andrew Davis, Alessandro Benvenuti...). Una sezione che, insomma, promette di regalare belle emozioni.

Poi c'è il concorso lungometraggi che, come si è spesso rimarcato in questa sede, a Lecce è curato con molta attenzione, facendo attenzione ad evitare il classico prodotto paludato “da festival” e su cui punto sempre l'attenzione con vigore (negli anni passati si sono viste opere di Christophe Honoré e Constantine Giannaris, giusto per fare due nomi). Infine i ricordi di Emidio Greco (storico amico del festival, scomparso di recente), Pietro Mennea, la settimana del cinema israeliano e la versione restaurata di Chiedo asilo, di Marco Ferreri.

Davvero un menu ricchissimo, quindi, di quelli che creano problemi “a priori” per l'impossibilità di seguire tutto, e che denota la capacità dello staff: un gruppo che ha saputo lavorare bene negli anni passati, consolidando un appuntamento piccolo ma capace di guardare alla pari tante manifestazioni anche più blasonate. Come sempre, non resta che accomodarsi sulle poltrone del cinema Multisala Massimo per ore e ore di visioni: la partenza è fissata per domani sera, 8 aprile, fino a sabato 13.

Quest'anno non è prevista la formula del “diario” giornaliero sul blog, ci sarà poi un pezzo ricapitolativo alla fine della manifestazione e, eventualmente, le recensioni delle migliori novità. Ci si vede in sala!


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