"C'è chi crede in dio o nel denaro. Io credo nel cinema, nel suo potere. L'ho scoperto da ragazzino, mi ha aiutato a fuggire da una realtà in cui ero infelice. È una delle forme d'arte più alte che l'uomo ha concepito. Credo nel suo futuro."
(John Carpenter)

mercoledì 24 aprile 2013

Living

Living

3 storie che procedono in parallelo: Grishka e Anton sono una giovane coppia di innamorati, molto legati nonostante le avversità (lui è sieropositivo). Dopo aver convissuto insieme a lungo decidono di sposarsi, ma subito dopo aver celebrato il matrimonio lui viene aggredito da una banda di teppisti e pestato fino a morirne. Grishka è disperata, e il suo dolore è tale che un giorno Anton torna da lei.
Artem vive con la madre e il patrigno dopo la separazione dei genitori: il piccolo, però, non riesce ad accettare questa situazione e, incompreso dal resto della famiglia, aspetta il ritorno del padre, che un giorno torna per lui. I due fuggono insieme, ma la madre e il patrigno li inseguono.
Kapustina non riesce a darsi pace dopo la morte delle sue due bambine: tale e tanta è l'ossessione per la perdita, che la donna si convince che le piccole siano state sepolte vive. Così le riesuma e riprende a vivere con loro, come se fossero vive.


Arriva dalla Russia questo Living, opera seconda del regista e drammaturgo Vasily Sigarev: il richiamo alla vita del titolo è un gesto di volontà, denota l'attaccamento all'esistenza, anche laddove questa sembra al contrario premere verso ben altre direzioni. Lo dimostrano le tre storie che si intrecciano nel flusso del racconto e che chiamano in causa legami spezzati e personaggi incapaci di far fronte alle rispettive situazioni. Quasi dei vicoli ciechi in cui gli sventurati protagonisti sono bloccati tanto dall'imprevedibile e spietata ironia della sorte, tanto dalla loro voglia di non andare avanti, di non lasciarsi alle spalle ciò che è stato.

Tutto questo già si evince dalla superficie, dal semplice racconto delle vicende, lampante nel modo in cui enuncia la disperata pesantezza del vivere, e la coesistenza di resistenza e dolore: ma a Vasily Sigarev non interessa l'esistenzialismo spicciolo, magari facilmente ammantato da documentarismo. Al contrario, il regista e sceneggiatore russo predilige un approccio in soggettiva, che rende la struttura stessa del film permeabile agli umori che serpeggiano sottotraccia. Ne nasce uno stile che sta a metà fra la descrizione ineluttabile dell'infelice esistenza dei personaggi e un'empatia capace di rendere oggettivi i desideri degli stessi. Il racconto anche brutale delle vicende si fa infatti carico delle speranze dei singoli attraverso una qualità onirica, in cui la vita e la morte finiscono per coesistere in uno stato di assoluta normalità: così Anton ritorna da Grishka e i due possono tornare a dividere lo stesso letto, Kapustina scopre che le figlie sono davvero vive e le riaccoglie in casa, mentre Artem riesce a fuggire con il padre, tornato finalmente a prenderlo.

Il gioco degli spazi si situa dunque fra la vastità quasi asettica dei paesaggi imbiancati dalla neve, delle stanze d'ospedale o delle carrozze dei treni, e l'intimità domestica dei luoghi che si sentono propri, in cui è possibile tornare ad assaporare il gusto della condivisione e della quotidianità: è come se la vastità del territorio russo già contempli di per sé l'idea del perdersi, dell'aprirsi come metafora dell'annullarsi (Anton muore perché accetta di seguire i teppisti che lo attirano con una richiesta d'aiuto) e dove, per contro, bisogna sempre richiudersi in se stessi. Le case sono dunque gli unici mondi possibili, e laddove si configurano al contrario come delle prigioni (come nel caso di Artem, che mal sopporta la convivenza con la madre e il patrigno), il rifugio è rappresentato dal letto, in cui rannicchiarsi come a voler descrivere un perimetro totalmente proprio, in cui occupare il minor spazio possibile per affrancarsi da quella vita che è dettata dal mondo di fuori. La messinscena non può quindi fare a meno del realismo, di luoghi concreti in cui adagiare i corpi, ma si stempera in uno stato perennemente assorto, che non concede mai nulla a eventuali sussulti visionari o fiabeschi. Si lavora sulle sfumature, sulle musiche di Pavel Dodonov che contribuiscono a creare l'atmosfera straniante e malinconica, dove il dolore è l'architrave di un desiderio più dolce e crea perciò quello stordimento da zona intermedia in cui gli opposti si annullano e si riequilibrano.

Quasi un racconto di morti viventi e vivi morenti nello stesso spazio, insomma, abbracciati in una impossibile sopravvivenza reciproca, dove non vige più alcuna dicotomia, ma soltanto la forza dei legami, capaci di farsi unico motore possibile del mondo. In virtù di questo complesso intreccio di forze, il film finisce per riverberare una sottile qualità horror, evidente da alcune scelte iconografiche: il sembiante sinistro di Anton, fasciato ed emaciato dopo il pestaggio, le silenziose bambine-bambole di Kapustina, le paure infantili di Artem.

E se il finale pure scioglie molti dubbi, ripristinando in più di un caso la vittoria della realtà e del mondo di fuori, il film non abbandona mai del tutto gli umori di questa realtà “a metà” fra vita e morte: è un segno di rispetto del regista per quelli che non considera solo dei folli, ma degli individui colpevoli soltanto di restare attaccati alla poca felicità offerta dalle loro vite.

Presentato al Festival del Cinema Europeo di Lecce 2013.


Living
(Zhit)
Regia e sceneggiatura: Vasily Sigarev
Origine: Russia, 2012
Durata: 119'

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