"C'è chi crede in dio o nel denaro. Io credo nel cinema, nel suo potere. L'ho scoperto da ragazzino, mi ha aiutato a fuggire da una realtà in cui ero infelice. È una delle forme d'arte più alte che l'uomo ha concepito. Credo nel suo futuro."
(John Carpenter)

venerdì 31 maggio 2013

Akira

Akira

2019, trent'anni dopo la Terza Guerra Mondiale. Neo Tokyo è una metropoli caotica e preda di bande di giovani motociclisti in perenne competizione tra loro. Durante una delle gare di strada, il giovane Tetsuo Shima si imbatte in un bambino dal volto precocemente invecchiato. Tramortito dallo scontro, il ragazzo viene portato via dall'esercito, agli ordini del Colonnello Shikishima, e sottoposto a una serie di esperimenti che risvegliano in lui dei poteri psicocinetici. Nel frattempo Kaneda, il migliore amico di Tetsuo, si imbatte nella rivoluzionaria Kay, che indaga sul Progetto Akira, cui sembra collegato il risveglio dei poteri di Tetsuo. La figura di Akira, peraltro, è seguita nelle strade da una folla che lo acclama come un Messia e attende il suo ritorno.


Rilanciato nelle sale grazie alla bella iniziativa di Nexo Digital, Akira ha trovato ad attenderlo il pubblico delle grandi occasioni, composto da spettatori di differenti età, pronti a tributare il giusto omaggio a un titolo diventato ormai leggenda. Per molti ragazzi l'occasione è stata quella di confrontarsi con il titolo spartiacque nella diffusione degli anime in Occidente: alla fine degli anni Ottanta, fra l'abbuffata di serie tv e le polemiche generate da educatori e benpensanti, la potenza figurativa dell'opera di Otomo arrivò infatti a zittire le voci di troppo, dimostrando come l'animazione asiatica offrisse una forma d'arte capace di dare sfogo a un'immaginazione potente e a un universo compatto e affascinante.

In effetti, per lo spettatore che invece torna dopo 25 anni a confrontarsi con l'anime culto di Katsuhiro Otomo, l'occasione è quella ideale per guardare in faccia un percorso artistico (e personale) che ha visto l'autore giapponese forzare continuamente i limiti dei codici precostituiti: così come è lecito affermare che Akira non è soltanto un grande film d'animazione, ma anche un grande film di fantascienza tout court, allo stesso tempo siamo infatti messi di fronte alle possibilità di un titolo che spinge la propria ricerca sempre più in là, cercando nuovi traguardi per superarli continuamente. Dalle filiazioni cinefile americane (Blade Runner, 1997: Fuga da New York e i vari cascami del post-atomico), agli inserti derivati direttamente dai traumi sepolti nel tessuto sociale del Giappone (la Bomba atomica) si passa infatti per una tensione che spinge al metafisico, senza dimenticare anche le possibili implicazioni religiose.

Anche il rapporto con la tecnologia è complesso e finemente intrecciato ai traumi e alle emozioni dei personaggi: uno strumento affascinante, in grado di esaltare la forza dell'individuo, ma anche un mezzo che genera dolore e distruzione, in un mondo che non è ancora pronto all'inevitabile salto evolutivo. L'intreccio è talmente raffinato che alla fine sono proprio gli oggetti meccanici a riassumere meglio gli stati d'animo dei personaggi (alquanto basilari e poco delineati): dal juke-box che irradia direttamente la magnifica colonna sonora dai ritmi tribali di Shoji Yamashiro, alla motocicletta potenziata che diventa l'ago della bilancia del difficile rapporto di amicizia e rivalità tra Tetsuo e Kaneda. Un mezzo iconico, che descrive scie luminose nell'aria, quasi ad anticipare quella tensione lisergica destinata poi ad esplodere negli incubi di Tetsuo e nella visione di un finale che guarda direttamente all'irraggiungibile modello di 2001: Odissea nello spazio.

In questo senso, Akira è l'emblema di un cinema che tenta di spingere al massimo se stesso, forte di una possibilità speculativa figlia di un'epoca dove la fantascienza si faceva davvero carico di immaginare il futuro e altri mondi. Ma è anche qualcosa di più: un'opera che guarda a ossessioni molto personali, un monstre onnivoro (come la forma di ameba gigante in cui si tramuta Tetsuo nel finale) che non a caso oggi non appare datato perché la sua lezione è ancora incredibilmente avanti, nonostante (e forse anche grazie a) una struttura narrativa ermetica e in grado di seminare dubbi più che diffondere certezze.

Soprattutto, però, Akira è il racconto di un'evoluzione, che si snoda nel segno di una circolarità dove il massimo grado di elevazione dell'individuo coincide con il suo ritorno alle origini. E' lo stesso percorso che il film compie nella sua forma narrativa, quando, da esibizione estatica di un mondo oppresso e tecnologicamente molto avanzato, arriva infine alla concretezza del corpo di carne, maciullato e deformato secondo i più puri dettami del body-horror anni Ottanta o di quello che allora era chiamato cyberpunk, i cui riflessi si vedono anche in opere come Tetsuo di Tsukamoto, uscito l'anno dopo. Nel frattempo, il potere sconfinato di Tetsuo e dei bambini/anziani (altra sintesi fra l'origine e la fine) si accompagna a visioni ludiche, con mostri che riproducono enormi orsacchiotti di pezza, mentre il centro di detenzione dove i personaggi vengono studiati riflette gli scenari di un enorme parco giochi.

Non è per questo casuale che alla fine, una vicenda così colossale e in grado potenzialmente di coinvolgere l'intero mondo abilmente creato, si riduca infine a un confronto “intimo”, basato sulla rivalità di due antichi compagni di gioco, dove la frustrazione di Tetsuo rispetto all'amico/mentore Kaneda, riflette un rapporto capriccioso, personale. Perché in fondo ciò che il film ci vuole dire è anche che l'uomo possiede il potenziale per raggiungere e ricomprendere in sé l'intero universo, ma è pur sempre la creatura debole che si articola attraverso rapporti semplici con i propri simili, basati su emozioni primarie: l'amore, l'amicizia, l'invidia, il rancore, il potere.

Chi invece non vuole scendere troppo nelle fitte trame della storia, può in ogni caso trovare il suo comodo posto di fronte all'esperienza visiva di un'opera visionaria e graziata da un'animazione di elevatissimo livello tecnico: che poi è un'altra delle sublimi sintesi del film, quella dove il massimo lavoro manuale e la ricerca di un realismo esasperato nella coincidenza delle parole pronunciate dagli attori con il labiale dei disegni, o con la “risposta” fisicamente corretta dei corpi sulla Terra e nello spazio (dove non c'è suono), si unisce a una narrazione che tende all'indefinito e prende atto dell'impossibilità di descriverlo imbrigliandolo in una categoria precostituita.


Akira
(id.)
Regia e sceneggiatura: Katsuhiro Otomo
Origine: Giappone, 1988
Durata: 125'

lunedì 27 maggio 2013

NO - I giorni dell'arcobaleno

NO - I giorni dell'arcobaleno

Cile, 1988. Il dittatore Augusto Pinochet è costretto dalle pressioni internazionali a legittimare il proprio regime attraverso un referendum popolare. I leader dell'opposizione decidono quindi di chiedere al brillante pubblicitario René Saavedra una consulenza sulla campagna per il NO. I partiti vorrebbero infatti che i messaggi fossero incentrati esclusivamente sull'accusa ai crimini perpetrati dal regime, che finalmente potrebbero essere denunciati in uno spazio libero sulle tv nazionali. Ma René, invece, produce una campagna anticonformista, con un linguaggio nuovo, e completamente basato sul concetto di “allegria”, legato alla possibilità offerta dal cambiamento di regime. La manovra, apparentemente spregiudicata e guardata con scetticismo anche fra le fila dell'opposizione, si rivela un grosso successo, tanto da spingere il governo a manovre intimidatorie verso gli avversari. Dal canto suo, René, dapprima restio a coinvolgersi fino in fondo perché convinto che la competizione sia truccata, inizia progressivamente a investire tutte le sue forze nel progetto.


L'equità, la giustizia, la libertà sono più che parole: sono prospettive.
(V per Vendetta)

Terzo film della trilogia che Pablo Larrain ha dedicato al Cile e ai bui anni della dittatura di Pinochet: il primo, Tony Manero, raccontava infatti il tentativo di scalata al successo di uno showman durante gli anni del regime; il secondo, Post Mortem, era invece incentrato più direttamente sul golpe del 1973 che aveva portato il generale al potere. Stavolta ci si sposta avanti di un decennio, ai tempi dello storico referendum che spianò la strada al ritorno della democrazia, raccontato attraverso l'innovativa campagna pubblicitaria dell'opposizione - il personaggio di René Saavedra è comunque di finzione, ma si ispira a Eugenio Gàrcia e José Manuel Salcedo, che effettivamente furono i creativi dell'operazione. E' una scelta che, già soltanto negli intenti, sembra costituire il naturale punto d'approdo del percorso iniziato con i precedenti lavori, in un mix di riflessione storica e analisi dei linguaggi spettacolari capaci di definire uno spazio multiforme, netto nei contenuti (non c'è dubbio da che parte si schieri l'autore) ma estremamente composito nei sentimenti che mette in campo.

Al di là delle inevitabili (e doverose) valutazioni politiche che il film innesca, colpisce infatti la feconda dialettica interna che viene messa in campo, e che si articola attraverso un gioco di opposizioni molto complesso: il concetto dell'allegria si accompagna così a un clima tutt'altro che sereno e che, proprio in virtù del suo stridente messaggio, rappresenta tanto un azzardo quanto una prospettiva sganciata dalla contingenza degli eventi e proiettata in un futuro assolutamente ideale. E' interessante in tal senso il messaggio che René ripete quasi meccanicamente ogni qual volta presenta una delle sue campagne: “ciò che state per vedere è in linea con l'attuale contesto sociale”. In effetti, un'altra delle feconde contraddizioni della storia è questa sua proiezione futura, che però sta in un presente percepito molto chiaramente da René, nonostante la sua natura apolide. Il ragazzo è infatti figlio di un esule ed è tornato in Cile da non molto tempo, tanto da essere chiaramente percepito come un “esterno”.

Larrain lavora proprio sul doppio registro che vede da un lato René fautore della gigantesca macchina pubblicitaria che mette il pubblico di fronte alla prospettiva di una felicità futura, il suo essere cioè un perfetto ingranaggio interno del sistema di opposizione; per contro, però, lo stesso protagonista è sempre altro rispetto al contesto che pure dimostra di capire molto meglio dei colleghi. Prova ne sia il fatto che l'attore Gael Garcia Bernal attraversa quasi tutto il film con un'espressione neutra, se non vagamente contrita, raramente rotta da sorrisi più vicini a una smorfia che a una liberazione nel segno di quella “allegria” che pure egli “vende” attraverso le sue pubblicità. Il finale stesso lo vede solo tra la folla che festeggia la vittoria.

Questa sua natura “sospesa” è peraltro la stessa che la vicenda radiografa con altrettanta sapienza. Il Cile del 1988 è infatti una nazione a metà del guado, perché attraversa la fase di incertezza e rischio legata a un referendum che impone al regime di allargare le maglie della censura, dove i funzionari governativi si impegnano però in una sotterranea opera di dissuasione attraverso azioni intimidatorie. Esiste così un doppio dialogo: quello fra la realtà immaginata e quella reale (fatta di intimidazioni) e quella fra le differenti pubblicità. Non stupisce, pertanto, che, a partire da un certo momento, si instauri una vera e propria dinamica del “rimpallo”, attraverso la quale gli spot iniziano a interagire fra loro, a scontrarsi dialetticamente. Il tutto mentre gli stessi fautori delle campagne si dividono, si lanciano accuse, discutono le strategie da tenere.

Tutto è riassumibile in ciò che René, giustamente, imputa al regime: la sua capacità proteiforme, che gli ha permesso di impadronirsi di concetti altrimenti considerati a lui avversi. La gente è portata a sostenere Pinochet perché questi incarna apparentemente la possibilità di una vita migliore, nonostante i metodi brutali con cui reprime gli oppositori. Si tratta quindi di operare un ulteriore ribaltamento, attraverso una visione del futuro che riporti a casa i concetti fondamentali di chi si oppone all'esistente. E che, per farlo, deve adottare linguaggi promulgati da un protagonista che guarda all'esterno dei confini nazionali, assaporando e comprendendo “l'attuale contesto sociale”.

Il tutto è poi elevato a un livello più raffinato attraverso il gioco di realtà e finzione della messinscena: il riferimento non è tanto alla componente fiction che circonda il protagonista, quanto allo stile vero e proprio, dove la fotografia sovraesposta restituisce il sapore delle immagini “consumate”, tipiche dei nastri d'epoca. La ricostruzione e i reali spot del 1988 entrano quindi anch'essi in reciproca interazione, riverberando il gioco di rimpalli alla base dell'operazione. Ma, ancor più, la dialettica del film è pure quella tra la sfida generale della nazione e il dramma personale e umano di René, che si convince a donare tutto se stesso per la causa, quando si rende conto di come la dittatura coinvolga direttamente il suo microcosmo, con la moglie spesso in prigione per le sue proteste al regime, e un figlio cui offrire un mondo migliore. Si può così comprendere quanto apparentemente semplice, ma in realtà molto complessa, sia effettivamente la prospettiva adottata da Larrain per questo suo preziosissimo film.

Presentato in anteprima italiana al Torino Film Festival 2012.


NO – I giorni dell'arcobaleno
(NO)
Regia: Pablo Larrain
Sceneggiatura: Pedro Peirano
Origine: Cile/Francia/Usa, 2012
Durata: 118'


Collegato:

mercoledì 22 maggio 2013

Mario Bava: Il rosso segno dell'illusione

Mario Bava: Il rosso segno dell'illusione

Ecco la mia nuova fatica editoriale, questa volta in formato e-book per la neonata collana di Sentieri Selvaggi. Mario Bava: Il rosso segno dell'illusione è un saggio collettivo di cui sono il curatore e supervisore, che segue idealmente la retrospettiva svoltasi al Cineclub Detour di Roma nel 2005. All'interno vari approfondimenti, informazioni, link, video e schede dei film a cura di vari collaboratori, passati e presenti, della rivista. Il tutto allo scopo di “mappare” la folgorante carriera del padre dell'horror italiano, nella speranza - come sempre - di fornire un ritratto completo e interessante.

Di seguito le note di accompagnamento del volume e l'indice in anteprima:

Questo ebook vuole essere un omaggio e un atto d'amore per uno dei registi più importanti e sottostimati della storia del cinema italiano. "Mario Bava. Il rosso segno dell'illusione" affronta con passione e forza critica l'opera omnia di un grande visionario, amatissimo all'estero, maestro di molti grandi cineasti contemporanei tra cui Tim Burton, Joe Dante e Quentin Tarantino. Un artista che ha saputo attraversare il cinema e i generi che lo compongono con carica rivoluzionaria e immenso talento creativo. Il libro è l'ideale prosecuzione di una rassegna che Sentieri Selvaggi organizzò nel 2005 proponendo al pubblico l’intera filmografia di Bava. Il cinema del regista italiano viene qui rivissuto tramite un’intensa opera di rilettura, approfondimento, con saggi, immagini, link, video, interviste, curiosità, schede critiche e informative su tutte le opere dirette da Bava, a partire dal cult "La maschera del demonio" fino all’ultimo, misconosciuto, "La Venere d'Ille" girato per la televisione nel 1978. Per tutti coloro che amano il cinema italiano, questa lettura vi farà riscoprire un maestro che ha portato il brivido nel cinema prima degli effetti speciali hollywoodiani.

INDICE

INTRODUZIONE - Mario Bava: Occhi senza tempo (di Davide Di Giorgio)

PARTE PRIMA: Il personaggio

PRIMI LAMPI DI CINEMA - La figura paterna, l’apprendistato, le regie occulte (di Davide Di Giorgio)

UN ALIENO FUORI GENERE - Mario Bava e il cinema italiano: connessioni e differenze con l’mmaginario di un’epoca passata, presente e futura (di Simone Emiliani)

PENSIERI D’ARTIGIANO - Mario Bava visto da se stesso (di Davide Di Giorgio)

PARTE SECONDA: i film

La maschera del demonio (di Daniele Dottorini)
Ercole al centro della Terra (di Fabio Tasso)
Gli invasori (di Paolo Tenca)
La ragazza che sapeva troppo (di Guglielmo Siniscalchi)
La frusta e il corpo (di Davide Di Giorgio)
I tre volti della paura (di Fabio Tasso)
Sei donne per l’assassino (di Daniele Dottorini)
La strada per Fort Alamo (di Umberto Martino)
Terrore nello spazio (di Umberto Martino)
Le spie vengono dal semifreddo (di Francesco Ruggeri)
Operazione paura (di Daniele Dottorini)
I coltelli del vendicatore (di Paolo Tenca)
Diabolik (di Andrea Ravagli)
L’Odissea - quarto episodio: Polifemo (di Paolo Tenca)
Roy Colt e Winchester Jack (di Francesco Ruggeri)
Il rosso segno della follia (di Andrea Ravagli)
Quante volte… quella notte (di Francesco Ruggeri)
Cinque bambole per la luna d’agosto (di Guglielmo Siniscalchi)
Reazione a catena/Ecologia del delitto (di Andrea Ravagli)
Gli orrori del castello di Norimberga (di Umberto Martino)
Lisa e il diavolo (di Guglielmo Siniscalchi)
Cani arrabbiati (di Davide Di Giorgio)
Shock - Transfert Suspense Hypnos (di Davide Di Giorgio)
La Venere d’Ille (di Fabio Tasso)

ALTRI BAVA
I film dubbi e i progetti mai realizzati (di Davide Di Giorgio)

PARTE TERZA: il suo cinema

IL GIOCO E L’IMMAGINE - Bava direttore della fotografia (di Daniele Dottorini)
IL CORPO DELL A COSA- Il cinema dis-umano di Mario Bava (di di Guglielmo Siniscalchi)
QUEL FANTASTICO (DI) MARIO BAVA - Il rapporto con la letteratura (di Leonardo Lardieri)
L’ANTRO E IL DELITTO - Il cinema giallo di Mario Bava (di Massimo Causo)
MARIO BAVA, LO SPAZIO E LA SUA ILLUSIONE - Per un set frammentato (di Francesco Ruggeri)
IL CUORE NERO DI MARIO BAVA - Estetica del meraviglioso, etica del massacro (di Davide Di Giorgio)

PARTE QUARTA: materiali

Filmografia
Bibliografia essenziale
Videografia


Davide Di Giorgio (a cura di)
Mario Bava: Il rosso segno dell'illusione
Edizioni Sentieri Selvaggi, Roma 2013, pp 167, € 4,99

venerdì 17 maggio 2013

Re della terra selvaggia

Re della terra selvaggia

La piccola Hushpuppy vive insieme al padre Wink nella “Grande Vasca”, una comunità bayou della Lousiana, separata dalla parte industrializzata da un muro di cinta. La gente vive una vita felice ancorché faticosa, a causa della difficile condizione in cui è costretta da un territorio ostile e spesso fustigato dalle intemperie. Proprio un uragano costringe Hushpuppy e Wink ad abbandonare la loro casa: l'uomo inoltre soffre di problemi cardiaci e cerca di insegnare alla sua piccola a essere forte e a non piangere mai. Nel frattempo, i ghiacci polari si sciolgono, liberando gli Aurochs, bestie preistoriche e antichi nemici dell'uomo.


Re della terra selvaggia è il film americano che non ti aspetti: un'opera di precari equilibri che riesce a trovare una sua dimensione con la stessa leggerezza e voglia di vivere dei suoi protagonisti rispetto al difficile territorio in cui vivono. A vederlo sembra infatti provenire da un non tempo e un non luogo, sebbene poi sia palesemente declinato al presente e riverberi la forza di un posto ben preciso. D'altra parte è la stessa particolare alchimia che gli permette di essere realistico, ma allo stesso tempo fantastico, raccontato attraverso un'estetica vérité che a tratti si trasfigura in un gioco di sfocature etereo e quasi onirico. Un film, insomma, dove i problemi realissimi legati alle intemperie, alle asperità della terra e alla caducità del corpo si stemperano nell'incedere mitico delle antiche creature che ci conducono lentamente nei territori della fiaba.

D'altra parte, la scelta di elevare Hushpuppy a protagonista del film è propedeutica a far sì che il film stesso adotti il suo punto di vista e si offra pertanto come visione del mondo ad altezza di bambino, in un misto di oggettività e desiderio, di attaccamento alla materialità della vita e, nello stesso tempo, a una perenne tensione verso l'immaginazione e il sogno. Il miracolo filmico del regista Benh Zeitlin è dato dalla capacità di organizzare in un percorso filmico coerente questa perenne incertezza attraverso cui naviga la sua giovane protagonista, il cui percorso di formazione, più che tracciare delle tappe, la porta a vivere ogni esperienza come una affascinante avventura.

In fondo, la precarietà degli equilibri su cui si regge la struttura narrativa riflette perfettamente la condizione “a metà” dei bayou, vivi eppure dimenticati da un mondo che ha eretto una barriera per tagliarli fuori dalla parte industrializzata; ma riflette anche il destino di Wink, vivo eppure morente per l'infarto che lo ha piegato (straordinaria, a tal proposito, la prova totalmente fisica dell'attore Dwight Henry), quasi una sorta di fantasma, di creatura – per l'appunto – a metà fra una morte ormai certa e una vita che non può permettersi di abbandonare per non lasciare sola la sua piccola. Non è casuale, peraltro, l'attitudine comportamentale spesso testarda, impulsiva e sopra le righe dell'uomo, che ne fa una sorta di versione “adulta” della stessa Hushpuppy: un bambino a suo modo cresciuto e che perciò riesce a stabilire con la figlia una connessione emotiva molto forte. Pertanto, Hushpuppy diventa pure una creatura quasi androgina (“Chi è l'uomo?” le chiede il padre. “Io sono l'uomo” risponde lei), sospesa appunto fra la dimensione infantile e la necessità di mostrare i muscoli, di far da sé, di diventare grande, di diventare come suo padre.

Dati questi presupposti, lo scopo di Hushpuppy non presuppone comunque la perdita della propria innocenza: la storia anzi solletica l'ipotesi che a un certo punto la comunità sia inglobata dal mondo industrializzato, salvo poi negarla con la fuga dei bayou dall'ospedale. Hushpuppy ne approfitta per cercare la madre di cui non ha quasi nessun ricordo (un altro fantasma fra i tanti che si agitano sulla scena), per ricostruire l'equilibrio con la propria storia, con il percorso iniziato prima di lei e destinato a continuare quando sarà lei a prendere in mano la situazione e a gestire gli ultimi attimi di vita del padre.

Il film compie esattamente lo stesso percorso: non ripudia l'immaginazione e il fantastico perché non lo mette in contrapposizione con il reale. I minacciosi e mitologici Aurochs sono infatti presenze la cui concretezza è affine a quella di tutte le creature che passano sullo schermo, in uno dei ritratti più materici che si ricordi da tempo: pesci, crostacei, capre, maiali, tutti parte di un'identica struttura simboleggiata dal gesto poetico della bambina che ascolta il loro cuore, che tenta di decifrare il codice del loro strano “linguaggio” cardiaco.

Un caso insomma particolarissimo, in cui è possibile sintetizzare e scindere i vari elementi che compongono la narrazione (la splendida fotografia di Ben Richardson e la poetica e potente colonna sonora di Dan Romer e Benh Zeitlin formano quasi dei personaggi a se stante), ma dove tutto si ritrova nell'insieme, in piccoli gesti e in piccoli elementi, come lo sguardo a un tempo sperduto e spavaldo di Hushpuppy (una meravigliosa Quvenzhané Wallis).

D'altra parte, non sarà un caso se, nonostante lo scenario che dipinge sia tutt'altro che roseo, Re della terra selvaggia è un film in cui viene voglia letteralmente di perdersi, per la forza meravigliosa che è in grado di trarre dai precari equilibri che lo compongono.


Re della terra selvaggia
(Beasts of the Southern Wild)
Regia: Benh Zeitlin
Sceneggiatura: Lucy Alibar e Benh Zeitlin
Origine: Usa, 2012
Durata: 93'

sabato 11 maggio 2013

Noi siamo infinito

Noi siamo infinito

Charlie è al primo anno della scuola superiore, angosciato dal doversi confrontare con una nuova realtà e dal dover fare i conti con la sua innata timidezza, che gli impedisce di trovare facilmente degli amici. Vuoi per caso, vuoi per saper cogliere l'occasione giusta, riesce però a conoscere Patrick, di certo non un "vincente", ma una persona che sa coltivare la sua unicità e che, insieme alla sorellastra Sam e alle amiche Mary Elizabeth e Candace forma un gruppo molto affiatato e sognatore. Annesso alla comitiva, Charlie passa così le esperienze tipiche dell'adolescenza, ma le forti emozioni che l'amicizia e l'infatuazione per Sam metteranno in campo, lo costringeranno anche a fare i conti con i traumi sepolti nel suo passato.


Seconda regia di Stephen Chbosky (la prima era l'indipendente e inedito The Four Corners of Nowhere), che qui adatta il suo romanzo Ragazzo da parete, pubblicato in Italia per Sperling & Kupfer. Il titolo originale di film e libro è in realtà The Perks of Being a Wallflower, ovvero “il vantaggio di essere una tappezzeria” - inteso come un tipo timido che passa inosservato, naturalmente: una formula che già da sola stabilisce i confini di una storia capace di porsi immediatamente come la descrizione di una condizione disagevole, ma anche come il racconto di una vita che sa capovolgere le prospettive, rivelando come quella “tappezzeria” sia in realtà un modo sghembo per inquadrare una realtà altrimenti troppo standardizzata. “Benvenuto nell'isola dei giocattoli difettosi” è infatti la frase-manifesto con cui Sam accoglie Charlie nel gruppo.

La storia costruisce così un complesso sistema di riferimenti pop (a tratti viene da pensare a una versione ancora più intimista di Super 8), ed è attentissima a esaminare e a rendere i sentimenti messi in campo, rispettando allo stesso tempo la struttura epistolare del romanzo d'origine: la vicenda è infatti cadenzata dai momenti in cui Charlie racconta i fatti scrivendo delle lettere a un amico scomparso. Ciò che però colpisce è come l'amalgama non si appiattisca mai su nessuno di questi elementi, mantenendo sempre una freschezza e una vitalità in grado di far risaltare la varietà di toni della vicenda. La sensazione è esattamente quella di un bombardamento emotivo tipico di un'età problematica come l'adolescenza, con la sua tendenza ad amplificare ogni sensazione. Per questo si passa senza soluzione di continuità dal riso alla lacrima, dalla riflessione all'entusiasmo, esattamente come il “mondo” descritto dal film si situa fra la concretezza degli ambienti “istituzionali” (la casa, la scuola) e quei momenti in cui i protagonisti si ritagliano degli spazi propri, come a reinventare la realtà (l'iconica scena del tunnel, il rituale del Rocky Horror Picture Show recitato dal vivo).

Non stupisce perciò il gioco dei contrasti e dei dualismi, che si fa via via più acuto: la timidezza di Charlie si accosta all'estrema vitalità di Patrick e Sam, l'amore adolescenziale e tenero dello stesso Charlie (che non ha il coraggio di dichiararsi) ha un contraltare in quello “nascosto” e problematico di Patrick per il campione di football Brad, la sicurezza rappresentata dalla famiglia del protagonista si infrange con il trauma legato al passato con la zia ormai scomparsa, così come l'orgoglio violento del padre di Brad fa sponda con l'estrema frammentazione dell'ambiente scolastico, mosso da feroci divisioni.

La struttura è a mosaico, pur nell'estrema compattezza della vicenda, con Chbosky che riesce a elevare il racconto a un livello che è puramente empatico e sensoriale, dribblando le trappole imposte da una narrazione che a tratti rischia di giocare con il sovraccarico di eventi. Pensiamo soprattutto al pre-finale, quando si entra nel merito dei traumi che hanno caratterizzato l'infanzia di Charlie: Chbosky è intelligente nel porre in essere una determinata situazione, senza però insistere troppo, giocando anche con il non detto e sfumando dove serve. Così come solletica l'effetto nostalgia nella ricostruzione d'epoca, ma poi non insiste con la forza iconografica del vintage, tanto che il film – sebbene chiaramente iscrivibile in un preciso momento storico – è poi abbastanza immune dalla carica di rimpianto che spesso connota operazioni simili e si lascia gustare per il piacere del racconto.

La differenza che passa fra il più composito titolo originale e il più netto Noi siamo infinito dell'edizione italiana rispecchia dunque la forza stessa del film e la sua natura magmatica. Un racconto quasi “alla francese” per il rispetto che dimostra verso la materia, nobilitato da un tris d'interpreti in stato di grazia (Logan Lerman, Ezra Miller e l'ex Hermione di Harry Potter, Emma Watson), camei di lusso (il grande Tom Savini) e, su tutto, la capacità di trascinare lo spettatore come nel miglior cinema americano, per una volta senza troppi facili ammiccamenti: bellissimo e sincero, ha ottime possibilità di diventare un vero cult generazionale.


Noi siamo infinito
(The Perks of Being a Wallflower)
Regia e sceneggiatura: Stephen Chbosky (dal suo romanzo)
Origine: Usa, 2012
Durata: 102'

giovedì 9 maggio 2013

Effetti collaterali

Effetti collaterali

Dopo una serie di sfortunati eventi (il marito viene arrestato per insider trading, un aborto la priva della bambina che portava in grembo e il tenore di vita passa repentinamente dal lusso al semplice sostentamento), Emily Taylor cade in uno stato di profonda depressione, tanto da iniziare a manifestare comportamenti autolesionisti. Rimasta fortunatamente illesa dopo un tentato suicidio, Emily viene presa in cura dal dottor John Banks: le medicine, però, provocano dei comportamenti imprevisti, tanto che Emily, in stato di incoscienza, arriva a uccidere il marito Martin (da poco uscito di prigione e intento a rifarsi una vita). Il processo sembra indirizzarsi verso un'assoluzione per incapacità d'intendere e di volere ma Banks inizia a subire l'ostracismo dei colleghi per la cattiva pubblicità che gli eventi gli hanno procurato. L'uomo pertanto indaga su cosa sia realmente successo e scopre una verità molto più complessa...


Qualche mese fa Steven Soderbergh ha annunciato di volersi prendere una pausa dopo anni di superlavoro che lo hanno visto sfornare decide di pellicole: Effetti collaterali non è destinata a essere la pellicola dell'arrivederci (è in fase di completamento l'ultima Behind the Candelabra), ma certo appare quasi un naturale punto d'approdo di una fase che da The Informant!, passando per Contagion, Knockout e (in parte) Magic Mike, descrive un percorso coerente, la cui conclusione è ora affidata a un'opera decisamente più strutturata del solito, apparentemente “chiusa” fra continui twist narrativi, quasi a voler creare un sistema di riferimenti complessi in grado di “contenere” la mole di influenze fin qui disseminate.

Soderbergh compie, insomma, un'operazione non dissimile da quella tentata (con minore fortuna) da Christopher Nolan con Il cavaliere oscuro: Il ritorno. Qui come lì in primo piano sembra ergersi l'operazione di scrittura, attraverso una trama complessa, fitta di dialoghi e riferimenti che si allontanano via via dalla mera vicenda thriller per interessare ambiti più ampi. C'è quindi il dramma di Emily, che – secondo una logica dei cerchi concentrici – diventa progressivamente un atto d'accusa ai soprusi delle industrie farmaceutiche (e qui il parallelo con Contagion si fa più evidente); un meccanismo stritolatore che coinvolge un uomo in cerca di una possibile via d'uscita dal problema in cui è rimasto coinvolto (come in The Informant!); e infine una spietata riflessione sui meccanismi dell'avidità e degli status symbol (Magic Mike docet!).

Nelle mani di Soderbergh, però, l'opera si eleva dallo status di semplice thriller di fattura para-letteraria per diventare materia duttile, che il regista manipola con la consueta scaltrezza e quel piacere del fare cinema che ormai si apprezza nella sua opera: per l'evidente eleganza e fluidità con cui giostra le sterzate del plot, assecondando i toni e ammantando tutto di una perenne aura d'ambiguità; per i divertiti giochi cinefili che, fin dalla circolarità di una vicenda che si apre e si chiude con un carrellata ad avvicinarsi e ad allontanarsi da una finestra, chiamano in causa il nume tutelare di Alfred Hitchcock (anche se la vicenda è decisamente poco hitchcockiana nella fattura); ma soprattutto per l'utilizzo assolutamente sorprendente del cast. Già la scelta di Jude Law è indicativa di una visione d'autore che, come già in Contagion, affida all'attore inglese il ruolo di ago della bilancia nel ribaltamento delle prospettive e nel disvelamento della finzione che attiene alla realtà messa in scena.

Ma ancor più forte è la scelta di un'attrice come Rooney Mara, emblema di una fisicità trasparente nella sua figura minuta, eppure capace di evocare un senso di corporalità offesa come poche altre interpreti oggi sono in grado di fare: l'ex Lisbeth Salander di David Fincher, infatti, dona ai suoi ruoli un'identificazione con il dramma così forte e così ben iscritta sul proprio corpo, da conferire a un ruolo altrimenti strumentale come quello di Emily uno spessore e una veridicità, che non fa altro che esaltare poi la geniale doppiezza del personaggio. Lo spettatore è infatti portato a empatizzare con un'interprete che agisce con tale trasporto, e a credere nella sua funzione di vittima, tanto da lasciarsi poi sorprendere dagli improvvisi ribaltamenti della storia.

Parimenti si può dire del sempre ottimo Channing Tatum, qui completamente ribaltato rispetto all'iconografia macho di Magic Mike e costretto nel ruolo di vittima suo malgrado; o una Catherine Zeta-Jones apparentemente irreprensibile e invece inscritta in un gioco di seduzioni. Soderbergh ossequia regole di genere, sfrutta i ribaltamenti per sorprendere, ma allo stesso tempo mette in scena un mondo di doppi, emblema di una realtà fondata sugli inganni, e fa emergere un ritratto sociale molto cupo, dove il fascino per la perizia cinematografica si salda al racconto di un universo senza morale, in un perenne rimpallo di meraviglia e orrore.

Dei tanti attori, Rooney Mara, come la Gina Carano di Knockout, resta comunque la principale cartina di tornasole, il terreno di gioco della vicenda, e non a caso il ritmo sembra assecondare in particolare le varie sfumature di un ruolo che passa attraverso continui sbalzi d'umore, dall'iperattività sessuale, al sonnambulismo assassino, fino al calcolo perverso del gioco del potere. I meccanismi, insomma, non possono mai prescindere dalle persone che li pongono in essere e, quindi, questo cinema così apparentemente algido e calcolatore è in fondo soltanto un racconto di esseri umani e delle regole che guidano le loro azioni.


Effetti collaterali
(Side Effects)
Regia: Steven Soderbergh
Sceneggiatura: Scott Z. Burns
Origine: Usa, 2013
Durata: 106'



Collegati:

mercoledì 8 maggio 2013

Ray Harryhausen (1920 - 2013)

Ray Harryhausen (1920 - 2013)


L'ultimo saluto a uno dei più grandi sognatori del cinema. In attesa, magari, di ripercorrere la sua filmografia con un percorso tematico. Ciao Big Ray, è stato bello!


lunedì 6 maggio 2013

Il labirinto delle passioni

Il labirinto delle passioni

Patsy Brand lavora come ballerina di rivista e si ritrova a fare da mecenate a Jill Cheyne, giunta dalla campagna in cerca di successo e rimasta senza denaro dopo aver subito un furto. Con scaltrezza e abilità, Jill riesce in breve a ritagliarsi un ruolo di primo piano e ad accettare anche le avances di un facoltoso principe: la sua vita cambia in breve tempo e a farne le spese è il rapporto con l'eterno fidanzato Hugh Fielding. Patsy intanto si sposa con Levett, collega di Hugh, che però ha una relazione con un'altra donna nelle colonie inglesi dove lavora. Quando scopre il doppiogioco del marito, Patsy decide di lasciarlo: sul posto c'è anche Hugh, che ancora aspetta il ritorno di Jill e che lotta contro una brutta febbre. Fra i due sboccerà l'amore.


Le ballerine che scendono da una scala a chiocciola, la soggettiva di uno spettatore che scruta le ragazze con un binocolo e Patsy che respinge le attenzioni di un ammiratore, che si complimenta per la sua chioma bionda, dimostrandogli che si tratta soltanto di una parrucca: sebbene soltanto al primo film, Alfred Hitchcock ha già le idee molto chiare su cosa gli interessi, e nei pochi minuti iniziali già inanella una serie di temi e figure retoriche che impareremo a conoscere molto bene nel suo cinema, i motivi spiraliformi, il voyeurismo e la finzione. Con poche inquadrature, il regista inglese descrive insomma uno spazio che è tutto di finzione e di esteriorità esibita, ma ben diversa nella propria sostanza. Perché solo conoscendo bene i meccanismi dell'apparenza si può tentare di alzarne il velo e scoprire cosa c'è sotto.

Il bello è notare come il regista inglese già si impegni nel codificare la propria poetica in una forma espressiva che sia forte soprattutto sul piano del linguaggio: siamo ancora nell'epoca del muto, ma il film evita le esasperazioni recitative tipiche del periodo, in favore di una mimica più naturale e capace perciò di sottolineare con il giusto vigore lo slittamento dei personaggi nelle rispettive zone oscure. Il tono stesso della storia mira a confondere lo spettatore, la prima parte vira soprattutto sui toni della commedia, complici le gag del simpatico cane Cuddles (che sembra capire le psicologie altrui meglio degli umani) e un gioco di corteggiamenti incrociati e ribaltamenti sui concetti di ingenuità e seduzione che rendono l'insieme variegato e incalzante, oltre che sorprendentemente leggero e romantico. Jill in particolare si offre inizialmente in quanto personaggio sprovveduto e idealista, giunta dalla campagna con una lettera di presentazione e pronta a gettarsi senza rete nel mondo dello spettacolo: quando però ne avrà l'occasione, sfoggerà una scaltrezza e un cinismo capace di non guardare in faccia a nessuno.


(qui sopra: una foto di scena del film basata sulla scena della parrucca)

Hithcock già si diverte, insomma, a giocare con le opposizioni, sovrapponendo in più di un caso elementi iconograficamente simili ma dai significati totalmente opposti: ne è buon esempio la mano di Patsy che saluta il marito in partenza dall'Inghilterra, che diventa quella dell'amante che lo accoglie in Africa, o il salvataggio che si tramuta in annegamento. Allo stesso tempo, la seconda parte del racconto sovverte completamente il tono della prima, si fa più cupa e violenta, nonostante l'apertura degli spazi dal chiuso del teatro o degli appartamenti alle lande soleggiate delle colonie inglese in Africa. La deriva finisce per assumere toni vagamente orrorifici o, comunque, fantastici, come testimoniano le visioni che assalgono Levett nel finale, quando lo spirito dell'amante morta torna a perseguitarlo e a spingerlo a tentare di eliminare anche la moglie.

I legami sentimentali vengono così messi alla berlina (“lei crede nell'amore?” è la domanda che Levett rivolge a Patsy) e ogni sentimento che attraversa la pellicola si annulla nell'opportunismo uguale e contrario che guida le principali azioni dei personaggi. Emerge però uno spirito di coesione che attraversa le persone più umili e che denota una dicotomia abbastanza netta fra chi è meno abbiente e chi, invece, è attratto dalle lusinghe del successo e del potere. Patsy viene così aiutata dai proprietari della casa in cui vive a raggiungere l'Africa e trova una naturale corrispondenza amorosa in Hugh, infine capace di recidere il legame con Jill, ormai immeritevole della sua attenzione. Siamo insomma a metà strada fra una mera ancorché efficace visione “anticapitalista” e un percorso di formazione che Patsy deve compiere passando attraverso il senso di colpa per non essere riuscita a impedire la perdizione di Jill e la sofferenza per l'inganno perpetrato da Levett ai suoi danni. Come avremo modo di vedere anche nell'Hitchcock futuro, la salvezza è un qualcosa che va guadagnato.


(qui sopra: fotobusta italiana)

Uscito in Italia con il titolo Il labirinto delle passioni e girato in parte proprio nel nostro paese, il film circola oggi come Il giardino del piacere, traduzione del titolo originale (che designa il teatro in cui lavorano Patsy e Jill). Sebbene rappresenti l'esordio registico di Hitchcock, la pellicola fu distribuita dopo il fortunato e successivo Il pensionante. Oggi è tranquillamente visibile su YouTube (con didascalie in lingua originale) essendo ormai libera dai diritti, ed è disponibile in DVD.

All'epoca Hitchcock veniva dalla gavetta come aiuto, e aveva alle spalle un progetto abortito per mancanza di fondi (Number 13), oltre alla coregia (non accreditata) di Always Tell Your Wife, che lo aveva messo in buona luce. Pertanto, il produttore Michael Balcon decise di puntare sul suo nome per svecchiare un panorama in crisi e gli affido il film insieme al successivo L'aquila della montagna, oggi purtroppo perduto. Assistente alla regia era Alma Reville, che in seguito sarebbe diventata la moglie e la compagna di vita dello stesso Hitchcock: a dispetto dei legami travagliati descritti nella storia, insomma, il lieto fine è arrivato ugualmente per tutti.

(qui sotto: la troupe de L'aquila della montagna al lavoro. Si riconoscono in basso un giovanissimo Alfred Hitchcock e, a destra, la moglie e assistente Alma Reville)



Il labirinto delle passioni (aka Il giardino del piacere)
Regia: Alfred Hitchcock
Sceneggiatura: Eliot Stannard (dal romanzo di Oliver Sandys)
Origine: UK, 1925 (muto)
Durata: 60'

sabato 4 maggio 2013

Nasce il minisito sul libro di Godzilla

Nasce il minisito sul libro di Godzilla

Da poco è online il sito dedicato al mio libro Godzilla il re dei mostri: Il sauro radioattivo di Honda e Tsuburaya: creato da Massimiliano Bianchi e ospitato dal portale di Fantaclassici, il sito raccoglie tutte le informazioni sul libro e ne descrive le tappe.

All'interno si possono quindi leggere le recensioni, trovare i siti dove acquistarlo, essere informati sugli eventi e le novità e altro ancora. Una guida sempre aggiornata, insomma, dove è anche possibile commentare ogni post e contattare gli autori.

Buona navigazione!

Vai al sito di LIBRO GODZILLA


Collegati: