"C'è chi crede in dio o nel denaro. Io credo nel cinema, nel suo potere. L'ho scoperto da ragazzino, mi ha aiutato a fuggire da una realtà in cui ero infelice. È una delle forme d'arte più alte che l'uomo ha concepito. Credo nel suo futuro."
(John Carpenter)

sabato 10 agosto 2013

Le macchine che distrussero Parigi

Le macchine che distrussero Parigi

Arthur Waldo è in viaggio con il fratello George, quando l'auto finisce fuori strada. George muore, mentre Arthur resta solo e disorientato: alle spalle ha un trauma che gli impedisce di guidare e ora la scomparsa del fratello, contribuisce ad acuire i suoi sensi di colpa. L'uomo viene comunque “adottato”, suo malgrado, dalla gente di Parigi, una cittadina situata nei pressi del luogo dove è avvenuto l'incidente. Non che il disastro sia stato casuale: la popolazione della città vive infatti a spese dei malcapitati in transito nelle vicinanze, che vengono fatti deragliare apposta per riciclare i materiali delle loro auto. Così, Arthur cerca, non senza difficoltà, di integrarsi nella vita cittadina, mentre all'orizzonte si profila lo scontro fra le autorità e le bande di giovani che scorrazzano a bordo di auto modificate.


Da noi si vide molti anni fa in tv, salvo poi essere recuperato fortunatamente in DVD più di recente da Ripley's Home Video (con il titolo originale The Cars That Ate Paris): è il primo lungometraggio cinematografico di Peter Weir e può apparire ad oggi un oggetto strano e difficilmente classificabile, ma si tratta – a tutti gli effetti – dell'autentico punto di contatto fra la produzione dell'autore (non ancora “storicizzato” come tale) e il sottobosco dell'Ozploitation, che da qui riprenderà l'iconografia cult delle auto mostruose: lo scambio fra Weir e le produzioni di genere è peraltro suggellato anche dalla presenza, nel cast, di Bruce Spence, corpo iconico della commedia demenziale Stork, uscita tre anni prima.

Non che si debba temere una deviazione del regista nei territori del cinema più “facile”, beninteso, perché la vicenda è, neanche a dirlo, totalmente addentro alle sue ossessioni, con un protagonista in bilico fra due realtà, il cui viaggio nell'anomala cittadina di Parigi rappresenta un vero e proprio percorso di formazione, testimoniato dal superamento finale del trauma che gli impedisce di salire al volante. Il tono, in effetti, è satirico, con tanto di spiritoso (e un po' cinefilo) ammiccamento agli stilemi del western, resi ancora più forti da un uso eccellente del formato Scope, che rende la scorribanda finale delle auto mostruose in città un'autentica resa dei conti in stile sparatoria dell'O.K. Corral. Weir, insomma, riprende il tono grottesco di Homesdale, e se a tratti emerge la fattura del divertissement (il progetto originale prevedeva effettivamente una commedia) sottotraccia corrono umori molto seri, che descrivono ancora una volta la ricerca di un'identità in un luogo “chiuso”, in apparenza autosufficiente e opposto al mondo “di fuori”: un posto destinato, pertanto, a implodere.

La figura retorica dell'automobile (autentico oggetto-feticcio nella cultura australiana) diventa così la cartina di tornasole di una realtà che manca di un'originalità propria e cerca di esprimere i propri moti personalistici attraverso la modifica sfrenata dei veicoli. Accanto allo scontro fra autorità (che premono per mantenere lo status quo) e giovani ribelli (quasi una sorta di traccia per i futuri punk di Mad Max), emerge infatti un senso di spaesamento che rende Parigi, sin dal nome “francese”, una sorta di distorto tentativo di emulare i modelli forniti dall'Occidente: le iconografie di cui è ammantato il film, pertanto, si rifanno sempre all'Europa o all'America, basti vedere i poster sui muri o i ritratti della Regina Elisabetta, che stanno lì a riverberare nettamente la natura di ex colonia dell'Australia.

La lucidità “politica” del ritratto fornito da Weir troverà un corrispettivo altrettanto efficace (e ancora più corrosivo) soltanto nella sfrenata splatterfest di Bad Taste con cui Peter Jackson, oltre dieci anni dopo, ironizzerà sulla Nuova Zelanda: lo spaesamento per la mancanza di un'identità propria, mantiene gli uomini di Parigi in una sorta di stato intermedio fra la modernità e la pre-civilizzazione, con la pratica del baratto che sostituisce la compravendita e un senso di perenne sopraffazione dei più forti sui più deboli, che sfocia negli incidenti con cui ci si procacciano i materiali per la sopravvivenza.

Weir lavora visivamente sul contrasto tra iconografie “forti” e ben definite (le auto e i temi musicali western alla Sergio Leone) e un senso di ricercata artificiosità dell'insieme, evidenziato sin dal prologo in cui, il viaggio di una coppia, è ritratto come se fosse lo spot di un'ipotetica campagna pubblicitaria sui luoghi dell'entroterra australiano: ancora una volta, quindi, il regista ragiona nel merito dei meccanismi della rappresentazione e l'irruzione finale in città delle auto pesantemente modificate e “mostrificate” diventa in questo modo tanto la celebrazione di una finzione scenica che serpeggia lungo tutto la vicenda, quanto la catartica distruzione di un modello attraverso la violazione della propria concretezza, con case sfasciate e corpi infilzati sulle punte metalliche che coprono le carrozzerie.

Sebbene il tono sia comunque tarato sul senso di smarrimento del protagonista – classico outsider alla Weir in cerca del proprio sé – la sensazione è quella di uno dei film più giocosi del regista australiano, tanto che la “rinascita” finale dello stesso Arthur ha quasi il sapore dello sberleffo, più che della ritrovata stabilità emotiva: l'uomo infatti supera la sua paura al volante lanciandosi con l'auto contro uno degli autisti folli. Forse il punto non è tanto la redenzione, quanto il raggiungimento del modello portato avanti da Parigi, e d'ora in poi incarnato dal solo Arthur, diventato pertanto un australiano modello, almeno secondo la visione satirica portata avanti dal film!


Le macchine che distrussero Parigi
(The Cars That Ate Paris)
Regia: Peter Weir
Sceneggiatura: Peter Weir (storia di Peter Weir, Keith Gow e Piers Davies)
Origine: Australia, 1974
Durata: 84'


Collegato:
Michael e Homesdale: gli esordi di Peter Weir

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