"C'è chi crede in dio o nel denaro. Io credo nel cinema, nel suo potere. L'ho scoperto da ragazzino, mi ha aiutato a fuggire da una realtà in cui ero infelice. È una delle forme d'arte più alte che l'uomo ha concepito. Credo nel suo futuro."
(John Carpenter)

venerdì 22 novembre 2013

Torino 2013

Torino 2013

Come ogni anno è arrivato il tempo di fare le valige e partire per il Torino Film Festival: ormai si è quasi fatta l'abitudine a non dare mai nulla per scontato e a considerare che per la manifestazione piemontese ogni anno segna un nuovo punto di partenza. Perché il panorama dei festival, si sa, è cambiato profondamente da un po' di tempo a questa parte; perché l'annata 2013, in particolare, si è già distinta per meritorie edizioni da parte delle rassegne “concorrenti” (di Cannes e Venezia si è già scritto, ma anche Locarno e – inaspettatamente – Roma hanno dimostrato di avere ottime frecce ai rispettivi archi); e poi perché quest'anno c'è un nuovo cambio al vertice, con Paolo Virzì che subentra a Gianni Amelio nel ruolo di direttore.

Certo, lo “scossone” è mitigato dal fatto che il gruppo di lavoro (coordinato da Emanuela Martini) è rimasto sostanzialmente lo stesso, premiando una formula che, nonostante le polemiche gratuite e le continue riduzioni di budget, ha pagato, dando al festival la forma di un appuntamento di qualità, curioso e attento alla ricerca e alla sperimentazione, ma con un tono più “rilassato” rispetto alla concorrenza: se il titolo è buono non c'è l'affanno di esibirlo necessariamente in prima mondiale (anche se le anteprime assolute non mancano), perché Torino è un po' evento della propria città, un po' vetrina per il mondo.

Il programma da questo punto di vista è sempre un bel biglietto da visita e anche quest'anno si presenta interessante: ci sono titoli acclamati da registi come Quentin Tarantino (Big Bad Wolves, dai registi di Kalevet), c'è l'omaggio a un regista come Yu Lik Wai nella sezione Onde (che a Venezia anni fa fece gridare al miracolo con il suo Plastic City), c'è la solita formula “liquida” articolata attraverso spazi mai chiusi ma in perenne comunicazione fra loro (la sezione “nera” After Hours e il mare magnum di Festa Mobile). E poi c'è la retrospettiva sulla New Hollywood, che prenderà due anni di programmazione, essendo spalmata su questa edizione e sulla prossima, e che conclude idealmente un percorso che a Torino inizia da lontano, da quando, nel 1999, Giulia D'Agnolo Vallan e Roberto Turigliatto dedicarono un indimenticabile omaggio a John Carpenter con tutte le sue pellicole.

Da allora il cinema americano è sempre stato di casa a Torino, di concerto con tutte le altre filmografie, rivolgendosi a un pubblico onnivoro e non snob, e piace constatare come certe tradizioni trasversali a classificazioni e generi siano rimaste intatte, dimostrando come la manifestazione resti coerente con il proprio spirito, sebbene orientata al nuovo. Buon festival a tutti e ci si vede in sala!

sabato 16 novembre 2013

Il castello nel cielo

Il castello nel cielo

Fuggita da un'aeronave dopo l'attacco di alcuni pirati, la giovane Sheeta viene soccorsa da Pazu, un ragazzo che lavora in miniera e che sogna di ristabilire il nome di suo padre, morto in disgrazia dopo aver avvistato la leggendaria isola volante di Laputa, a cui nessuno crede. Sheeta, peraltro, porta con sé un'aeropietra, un monile le cui origini risalgono proprio a Laputa e che la rende appetibile tanto ai pirati (che non smettono di inseguirla) quanto al Colonnello Muska, un sinistro funzionario governativo che intende raggiungere l'isola volante per carpirne i segreti. Durante la fuga, Pazu apprende che Sheeta stessa discende dalla stirpe reale di Laputa e si allea con i pirati per raggiungere l'isola del cielo.


E' il primo lungometraggio ufficialmente realizzato sotto il marchio dello Studio Ghibili, fondato da Hayao Miyazaki e soci dopo il sorprendente successo del precedente Nausicaa della valle del vento: il film vanta peraltro una distribuzione abbastanza sfortunata nel nostro paese, dove era uscito direttamente in DVD per la Buena Vista nel 2004, salvo essere poi ritirato dal mercato dopo poche settimane, lasciando in tal modo mano libera agli speculatori disposti a vendere a peso d'oro l'agognato dischetto. Per fortuna ci ha poi pensato la Lucky Red a fare giustizia, con un'uscita nelle sale nella prima metà del 2012 (cui è seguita quella nei formati dell'Home Cinema).

Il continuo rimpallo delle date ci consegna perciò un'opera letteralmente fuori dal tempo, ambientata non a caso in un passato dove le automobili sono rarità, e la civiltà di Laputa si è estinta, lasciando però in eredità avanzatissime conoscenze tecnologiche che fanno gola al cattivo di turno: un futuro “anteriore” dove il regista ha modo di articolare le sue tipiche ossessioni da post-apocalisse potenziale, tanto che il tono appare in continuità con l'odissea fantasy di Nausicaa e più schiettamente avventuroso di quanto non avverrà con le opere della maturità. In effetti, a ben guardare, Il castello nel cielo è oggi definibile come una pellicola che chiude un ciclo, con cui Hayao Miyazaki paga cioè il meritato tributo alla prima fase della sua carriera, quella che si era articolata in misura maggiore negli ambiti della serialità televisiva: se, infatti, stilisticamente il ritmo è più franto, diviso da dissolvenze a nero che sembrano quasi scandire una serie di capitoli, narrativamente la vicenda di Pazu e Sheeta riflette il dinamismo dell'azione di Lupin III - con ovvio riferimento al film Il castello di Cagliostro, che aveva segnato l'esordio cinematografico dell'autore.

Il rapporto fra i due bambini e la loro opposizione a un nemico bellicista e animato da sete di potere, sullo sfondo garantito da una doppia realtà ugualmente proiettata fra la natura che ha invaso Laputa e l'orrore che le macchine dell'isola sono in grado di scatenare, fa però pensare soprattutto a Conan il ragazzo del futuro, la serie che aveva letteralmente rivelato il talento di Miyazaki nel 1978: una sovrapponibilità che è tale non solo dal versante narrativo, ma anche da quello più squisitamente iconografico, con uno scenario naturale attraversato da bizzarre creazioni meccaniche, mentre i pirati di turno appaiono come dei simpatici pasticcioni che alla bisogna possono anche convertirsi al bene: né più né meno come accadeva con il celebre Capitano Dyce – e non ci sembra un caso che Dola, la volitiva matrona dei pirati, si impunti perché Pazu la chiami, appunto, “Capitano”!

Ne viene fuori un'opera fra le più “porose” di Miyazaki, regista che, pur essendo sensibile alle storie altrui (pensiamo a come molti suoi lavori siano di derivazione letteraria), è quasi sempre solito descrivere spazi e mondi che diventano inevitabilmente suoi, e che qui si fanno invece cartina di tornasole di un immaginario composito e perfettamente addentro agli umori della propria epoca: si respira in tal modo un senso di libertà inedito anche per la filmografia stessa dell'autore, dove la facilità con cui i corpi si muovono nel cielo, su precipizi, piante e interstizi del reale (senza mai provare alcuna vertigine) si riflette in una struttura che mette insieme agevolmente formato seriale, derivazioni letterarie (Laputa proviene da I viaggi di Gulliver di Jonathan Swift), e anche gli umori della fantascienza coeva.

Sebbene il testo seminale del post-apocalittico nipponico degli Ottanta arriverà solo due anni dopo (il riferimento, naturalmente, è ad Akira), il film respira infatti di atmosfere vagamente cyberpunk, in cui lo stile sembra cercare una sintesi fra la tipica tensione naturalista cara all'autore e le possibilità distruttive insite nella tecnologia. La dicotomia natura/progresso si stempera in un caleidoscopio visivo tipicamente ottantesco nelle scelte cromatiche (dove fanno capolino tonalità elettriche e scenari di matrice a tratti espressionista e futurista) che, pur non derogando mai dalla classica dicotomia buono-cattivo, sembra in più passaggi solleticare l'idea di una coesistenza possibile fra gli opposti.

Laputa in tal modo si configura come una possibile terra delle opportunità: il luogo cioè dove non solo i fronti possono ricompattarsi (i pirati e i bambini che si alleano), ma dove è anche possibile coniugare tecnologia e natura, al punto che la seconda è affidata a giganteschi robot pure dotati di incredibile capacità distruttiva (e che ricordano i giganti di Nausicaa, giusto per rimanere nel cerchio dei riferimenti). Un mondo che non a caso sta fra la concretezza della pietra in cui è intagliato il suo spazio e la dimensione favolistica garantitale dalle leggende e dal passaggio fra le nubi, a sua volta memore delle atmosfere del Mago di Oz. Fantasy e fantascienza trovano sul suo terreno un recinto fertile, dove articolare le rispettive pulsioni, e non ci sembra un caso se la parte finale diventa un coacervo di visioni che stanno fra le anticipazioni di Otomo e James Cameron (pensiamo agli Avatar e ai Titanic a venire) e vaghe reminiscenze da Guerre stellari (il raggio distruttore che riecheggia quello della Morte Nera).

In tal modo, più che un'opera di sintesi, Il castello nel cielo, finisce per diventare un'evoluzione del pensiero che guidava il primo Miyazaki e un completamento di anni di lavoro: il fatto che tutto questo si articoli attraverso le forme della “semplice” avventura ce lo rende ancora più amabile e prezioso, oltre che sempre straordinariamente attuale.


Il castello nel cielo
(Tenku no Shiro Rapyuta)
Regia e sceneggiatura: Hayao Miyazaki
Origine: Giappone, 1986
Durata: 124'

lunedì 4 novembre 2013

Encounters at the end of the World

Encounters at the end of the World

Werner Herzog si reca in Antartide per documentare la vita nella stazione scientifica McMurdo, situata sull'isola di Ross. Si imbatte così in uomini animati da grandi ideali, ma anche da persone che hanno scelto di fuggire da tutto e che magari si sono completamente reinventate (scienziati che guidano mezzi pesanti per il trasporto, ad esempio) o hanno finalmente trovato se stessi. Il viaggio comprende l'esplorazione della base e dello scenario ghiacciato, con punte sotto la calotta, attraverso le riprese di alcuni sub o entrando nelle caverne scavate dalle eruzioni sottomarine. L'isola comprende anche il vulcano Erebus, cui Herzog fa tappa, documentando gli studi dei vulcanologi, e un'immancabile comunità di pinguini.


Quasi lo speculare de L'ignoto spazio profondo, il documentario Encounters at the End of the World nasce effettivamente come tentativo di andare oltre quel progetto: Herzog, infatti, era rimasto affascinato dalle sequenze subacquee girate dall'amico Henry Kaiser (qui produttore e autore delle musiche), ma la sua esplorazione del continente antartico appare anche stavolta come una ricerca dei limiti, di vite che hanno compiuto scelte estreme, di sguardi nuovi su realtà complesse. Su tutto, però, domina nuovamente quel doppio sguardo che da un lato sogna ipotesi futuribili, in grado di farci affacciare su possibili scenari a venire dell'umanità; e dall'altro riflette sul senso del nostro stare al mondo di fronte a una natura ostile, spesso vittima delle nostre azioni, ma che pure si staglia con tutta la sua forza, in modo tale da risultare incredibilmente affascinante.

La specularità con L'ignoto spazio profondo si ritrova dunque nella scelta di uno stile documentaristico tradizionale (con tanto di voce narrante dello stesso Herzog che commenta i fatti, a volte anche con tono demistificatorio) che però non riesce a far venir meno l'idea di trovarsi di fronte a una sorta di bizzarra opera fantascientifica, per le implicazioni tirate in ballo dagli scienziati e per lo scenario assolutamente alieno di un'Antartide che si rivela però pregna di una vita altrimenti indefinibile: mostruose creature che vivono sotto la calotta polare, enormi distese di ghiaccio che – gli scienziati lo spiegano bene – sono da considerarsi quasi esseri viventi per il dinamismo cui sono sottoposte dalle forze che regolano la fisica terrestre. E poi il magnetismo che rende impossibile l'orientamento e che trasforma il gusto per la scoperta in un'esplorazione avveniristica, pari a quella dei viaggiatori dello spazio. Non a caso, la base di McMurdo viene vista dallo stesso regista come un territorio proteiforme: in parte avamposto tecnologico, in parte sorta di enorme cantiere che evoca scenari più da miniera che da stazione scientifica, in parte enorme città/parco giochi da cui fuggire per il più “serio” orizzonte ghiacciato.

Penso che una buona parte della popolazione, qui, sia composta da persone che sono contemporaneamente viaggiatori a tempo pieno e lavoratori part-time. Quindi, sì, loro sono dei sognatori professionisti, sognano per tutto il tempo. E penso che, attraverso loro, i grandi sogni cosmici entrano in circolo, perché l'universo sogna per i nostri sogni. Penso ci siano molti modi diversi per la realtà di andare avanti e il sogno è assolutamente uno di questi.

(Stefan Pashov – filosofo e operaio ai carrelli elevatori)

Herzog esalta il valore del sogno, tornando anche alle origini dell'esplorazione antartica di Henry Shackleton, Robert Scott e Roald Amundsen, e spiega come è cambiato il rapporto dell'umanità con il continente: da terra ostile e imprendibile a sorta di nuovo orizzonte delle opportunità. In tal modo il film sembra muovere ancora una volta una critica a un mondo “di fuori” che i personaggi intervistati sembrano rifuggire, chiamando anche esplicitamente in causa l'apocalisse (lo scienziato che visiona film di fantascienza anni Cinquanta) o i metodi di vita alternativa (l'appassionato di filosofia new age che coltiva pomodori). Lo sguardo è curioso, goloso, attento a riprodurre la varietà degli spunti che la materia offre, ma allo stesso tempo anche esistenzialista: diventa emblematico, in tal senso, il ruolo dei pinguini. Il regista spiega chiaramente all'inizio come non si sia recato in Antartide per filmare i pinguini, animali che, peraltro – e sarebbe interessante capire il perché – in tempi recenti hanno goduto di un'esposizione filmica notevole, tanto da diventare anche personaggi cult in opere animate come Madagascar o Surf's Up

Herzog rifugge da queste caratterizzazioni, ma evita anche il facile anticonformismo di riportare i pinguini stessi alla loro condizione animale attraverso un approccio documentaristico classico. Al contrario, evoca ironicamente le dinamiche della loro sessualità, ma soprattutto ci colpisce con l'immagine altamente evocativa di uno di loro che si stacca dal gruppo e, come in preda a una folle frenesia, si dirige verso gli spazi aperti, condannandosi in tal modo a una fuga che è anche una inconsapevole ricerca di morte. Un pezzo di cinema incredibile e altissimo, una scheggia di irrazionalità che si incista nel reale con tale naturalezza da erodere ancora una volta il confine tra la documentazione asettica del mondo e la tensione fantastica che il regista sembra perseguire in un misto di abilità nel “catturare” l'ignoto e sensibilità nel cogliere “l'umanità” (da intendersi come mera umoralità) iscritta nei recessi della natura.

E' l'emblema perfetto dei limiti che la ricerca chiama in causa, di grandi possibilità che diventano anche una strada verso la perdizione. La vita e la morte, insomma, in uno scenario ostile ma anche di grande fascino visivo, esplorato con una buona dose di lirismo, non dissimile da quella già vista nelle ultime prove documentaristiche dell'autore: a metterle insieme verrebbe fuori una mappa abbastanza omogenea di un percorso che il cineasta tedesco – pur senza rinunciare al faceto – sta compiendo. Una sorta di ricerca delle origini dell'uomo e, va ribadito, del suo stare al mondo, ma anche della fine o del possibile reinizio. Non a caso una delle ultime immagini riguarda il lancio di una mongolfiera, che sembra quasi rappresentare un collegamento e un'ideale chiusura del cerchio con il poco distante (e precedente) Il diamante bianco.

Il documentario, realizzato nel 2007, è tuttora inedito per la distribuzione italiana.


Encounters at the End of the World
Regia e sceneggiatura: Werner Herzog
Origine: Usa, 2007
Durata: 97