"C'è chi crede in dio o nel denaro. Io credo nel cinema, nel suo potere. L'ho scoperto da ragazzino, mi ha aiutato a fuggire da una realtà in cui ero infelice. È una delle forme d'arte più alte che l'uomo ha concepito. Credo nel suo futuro."
(John Carpenter)

mercoledì 19 febbraio 2014

Fog

Fog

La cittadina costiera di Antonio Bay sta per festeggiare il centesimo anniversario della sua fondazione: quello che le cronache non raccontano, e che è tramandato solo attraverso i racconti attorno al fuoco, è che l'oro usato per dare vita alla città fu sottratto con l'inganno a una nave di lebbrosi, la Elizabeth Dane, fatta schiantare scientemente contro gli scogli. Ora, i fantasmi di quei marinai, guidati da Blake, stanno tornando per consumare la loro vendetta, e pretendono le vite di sei cittadini, tanti quanti furono i cospiratori che li portarono alla morte. Annunciati da una spettrale nebbia, si muovono lungo le strade di Antonio Bay mentre si consumano i festeggiamenti. Pochi capiscono realmente cosa sta succedendo: c'è Nick Castle, operaio del luogo, rimasto coinvolto nella vicenda insieme all'autostoppista Elizabeth Solley; c'è Padre Malone, il prete che ha trovato il diario di Blake riportando alla luce tutta la vicenda; e c'è infine Stevie Wayne, ragazza madre e proprietaria del faro di Antonio Bay da cui gestisce la stazione radio KAB: i suoi microfoni rappresentano l'unica guida per i cittadini alle prese con la terribile nebbia...


C'è qualcosa di magico e misterioso che a tanti anni di distanza continua ad avvolgere un film come Fog: è la sua capacità di essere al contempo così straordinariamente materico eppure altrettanto fortemente volatile, libero. D'altra parte, che si sia di fronte a un film perfettamente incanalato su direttrici sempre doppie è cosa facile a dimostrarsi: stringato nei ritmi eppure dilatato nei tempi; film di corpi attoriali eppure veicolato dalla “voce al telefono” di Stevie Wayne; corale nella struttura ma allo stesso tempo isolato in tante microstorie senza passato, da parte di personaggi pennellati con pochi tratti; e, infine, condensato nel prologo che riconduce la maledizione a ludico racconto intorno al fuoco, salvo poi dipanarsi attraverso drammi profondamente umani (l'alcolismo di Padre Malone, la solitudine da madre assente di Stevie) e in una visione tutta politica dell'America quale luogo di sopraffazione ai danni dei più deboli e in nome dell'accumulo del capitale.

Tanta carne al fuoco, insomma, ma che in questo caso riesce a trarre la sua qualità proprio dalla quantità degli elementi e dal loro accostamento: perché crea traiettorie tutte da scoprire e snocciolare in una struttura tutto sommato compatta, che raggiunge in tal modo l'estremo paradosso. Quello di un film aperto alla sperimentazione, ma poi (seguendo diligentemente le regole dell'horror) diretto con mano sicura e indirizzato verso un finale univoco. Di qui l'idea di lavorare sulle variazioni cromatiche (il blu della notte e gli interni spesso virati in tonalità rossastre), sulle impennate improvvise del suono, che si stagliano come improvvise “sporcature” in una partitura musicale per il resto insinuante e soffusa, mentre la nebbia invade progressivamente l'inquadratura, muovendosi come un organismo vivo. E poi c'è il citazionismo cinefilo, evidente sia nelle filiazioni dirette (la “solita” Cosa da un altro mondo, i templari ciechi di Amando De Ossorio de La nave maledetta, la nebbia che annuncia il Male, ripresa da I mostri delle rocce atomiche), quanto nei nomi che strizzano l'occhio a colleghi e amici dello stesso Carpenter (i personaggi si chiamano Nick Castle e Dan O' Bannon), fino al cameo dello stesso regista che porta la radio, “aprendo” di fatto il fronte narrativo.

Una volta qualcuno ebbe l'ardire di chiedere al Maestro se quella sua apparizione, così strategica nell'economia narrativa, avesse proprio l'intento di dare un segnale autoriale fonte, di imprimere una direzione ben precisa alla storia, ma lui accolse questa possibile lettura con un sorriso: il cameo era un gioco, all'interno di un film nato proprio con intenti ludici sul genere. Come Mario Bava quando rispondeva ai francesi sulla targa che oscilla all'inizio di Sei donne per l'assassino. E guarda caso, sempre nei minuti iniziali, mentre scorrono ipnotici gli interminabili titoli di testa, troviamo proprio una targa che oscilla, anche qui: il mistero di Fog alla fine è questo, è un enorme gioco con cui un autore si diverte, anche se poi è talmente bravo che le sue immagini si stagliano potenti sullo schermo e raccontano una storia molto precisa nelle parti, capace perciò di essere allo stesso tempo evanescente eppure così concreta rispetto al genere messo in campo e alla realtà che dalla nebbia emerge nel suo cuore più nero.

(recensione pubblicata originariamente su Sentieri Selvaggi)


Fog
(The Fog)
Regia: John Carpenter
Sceneggiatura: John Carpenter e Debra Hill
Origine: Usa, 1980
Durata: 89'