"C'è chi crede in dio o nel denaro. Io credo nel cinema, nel suo potere. L'ho scoperto da ragazzino, mi ha aiutato a fuggire da una realtà in cui ero infelice. È una delle forme d'arte più alte che l'uomo ha concepito. Credo nel suo futuro."
(John Carpenter)

mercoledì 25 febbraio 2015

Wake in Fright

Wake in Fright

John Grant, insegnante in una scuola di Tiboonda, nel remoto Outback australiano, parte per godersi le vacanze natalizie. Si ferma così una notte nella cittadina di Bundanyabba, prima di prendere l'aereo per la Sidney, dove lo attende la sua ragazza. Qui, però, John perde tutti i suoi soldi in un banale gioco di scommesse: impossibilitato a proseguire il viaggio, viene così risucchiato nella vita locale, fra ubriacature, battute di caccia ai canguri, scazzottate e la compagnia di Doc Tydon, un medico alcolista lucidamente dedito all'autodistruzione. Una discesa nel degrado fisico e mentale porterà il sempre più sconvolto John a un passo dalla follia.


Peter Weir, Fred Schepisi e Bruce Beresford lo considerano un film seminale per come ha raffigurato, seppur a tinte forti, un certo sentire australiano sul grande schermo, favorendo di fatto l'idea di una cinematografia locale, quasi del tutto inesistente al giro di boa fra gli anni Sessanta e Settanta. Il bello di Wake in Fright, però, è che a una tale certezza identitaria corrisponde una natura assolutamente transnazionale, con una coproduzione fra l'australiana NLT e l'americana Westinghouse Broadcasting Company (entrambe attive più che altro sul mercato televisivo), e una realizzazione affidata a maestranze aussie e protagonisti inglesi (Gary Bond e Donald Pleasence). La regia è poi di Ted Kotcheff, filmmaker di origini bulgare, cresciuto artisticamente nella televisione canadese. Noto ai più per il successivo exploit di Rambo, Kotcheff riflette nel suo cinema la propria condizione di figlio di immigrati, raccontando il disagio di personaggi in perenne fuori sincrono rispetto al mondo cui vanno incontro. Il John Grant qui raffigurato non fa eccezione e la sua odissea è resa più potente dalla dinamica di attrazione/repulsione che scontorna i confini del reale e apre la struttura del racconto a pulsioni visionarie e ossessive.

Una carrellata circolare apre il film e ne racchiude il senso, sintetizzando metaforicamente il “girare in tondo” di un protagonista prigioniero di una perenne coazione a ripetere gesti che annullano progressivamente la sua volontà e lo status di intellettuale, spingendolo ad abbracciare la forza selvaggia dell'Australia più nascosta e vicina alle asprezze visive dell'Outback (proprio Outback è il titolo usato in America e Inghilterra). Kotcheff lascia abilmente che la discesa agli inferi di Grant sia a un tempo eterodiretta dagli eventi e dai personaggi con cui lo stesso viene a contatto, ma anche provocata da una sua risoluta voglia di non allinearsi razionalmente ai comportamenti di una realtà da lui percepita come rozza e altra, in un palleggio fra perenne ingenuità e snobismo. Il confronto con l'altrettanto colto Tydon - che diversamente da lui accetta la propria condizione di alcolista e dissoluto, perseguendola scientemente - permette al suo dramma di emergere con maggior forza.

La struttura visiva segue questa continua dinamica di allontanamento e vicinanza, e rende i personaggi quasi una propaggine visiva dell'ambiente circostante, attraverso un'omogeneità cromatica che predilige tinte calde, dove prevalgono i motivi del giallo, dell'arancio e del verde più scuro. La regia, dal canto suo, elabora continuamente soluzioni visive che riverberano il clima decadente eppure grandioso di certo tardo western italiano e americano (da Leone a Monte Hellmann) e, allo stesso tempo, le pulsioni della New Hollywood ancora in fieri negli stessi anni, con un'immersione piena fra i corpi e i volti della gente, in grado di spezzare (e pure esaltare) la ieraticità brulla del paesaggio. La narrazione si riduce perciò al minimo, non tenta di dare oltremodo spessore ai personaggi e ai loro trascorsi e preferisce offrire spazio alle azioni e agli stati d'animo più estremi che l'avventura lascia affiorare in superficie.

Quello cui perciò si assiste è un linguaggio fatto di corpi che si cercano e si confrontano, attraverso la condivisione di precisi rituali (le scommesse, le infinite bevute di birra), un ostentato cameratismo (e altruismo), fino al contatto fisico più ruvido, evidente nelle scazzottate che, come un'autentica deflagrazione di follia, portano a sfasciare l'ambiente circostante in un tripudio di risa isteriche. La natura sostanzialmente altra di Grant è sottolineata dal confronto fra la sua fisicità efebica e la ruvida carnalità della gente locale, sempre pronta a elargire strette di mano energiche e contatti dal sapore via via sempre più marcatamente sessuale (con riferimento tanto alla giovane ninfomane Janette, quanto all'implicito momento omoerotico fra Grant e Tydon dopo l'ennesima notte di bagordi).

Il tutto trova la sua sublimazione nella terribile sequenza della battuta di caccia ai canguri (effettuata in realtà da professionisti), che davvero segna il momento di immersione più oscura nella follia umana, ma anche nel particolare abbraccio fra questi personaggi e la terra che li circonda, ancora una volta tra condivisione e distruzione. L'assurdo confronto uno-a-uno fra l'uomo e il canguro diventa così l'autentico simbolo visivo del film.

Sebbene la produzione spingesse per un taglio più exploitation, Kotcheff coglie il potenziale autoriale della storia e tara la narrazione sulla tonalità isterica e grottesca garantita dalla continua ilarità dei protagonisti: ottiene in tal modo un racconto ribollente di energia, e allo stesso tempo terribile e incredibilmente grottesco. Una scelta che garantisce i necessari sprazzi di visionarietà, garantiti da un montaggio quasi subliminale negli inserti di follia che attraversano Grant durante e dopo i momenti di black-out, con il repentino miraggio di felicità garantito dalle visioni della fidanzata lontana.

Considerato oggi un classico per la sua potenza espressiva, Wake in Fright è stato per anni un autentico film fantasma: la presentazione al Festival di Cannes non lo ha infatti salvato dall'iniziale ostracismo di un pubblico locale che non si riconosceva nel ritratto iperrealista portato avanti dal racconto – e che, suo malgrado, ha effettivamente finito per determinare una certa estetica un po' stereotipata dell'australiano rozzo e scolabirra. Complice il lavoro del montatore Anthony Buckley, che ha rintracciato i materiali originali dopo vari decenni, il film è stato però recuperato e restaurato dopo un lungo oblio, riguadagnando il posto che gli spetta. In Italia resta purtroppo inedito.

Questo resoconto è condotto a partire dall'ottima edizione Blu-Ray inglese della Eureka Entertainment.


Wake in Fright
Regia: Ted Kotcheff
Sceneggiatura: Evan Jones, dal romanzo di Kenneth Cook
Origine: Australia, 1971
Durata: 119'