"C'è chi crede in dio o nel denaro. Io credo nel cinema, nel suo potere. L'ho scoperto da ragazzino, mi ha aiutato a fuggire da una realtà in cui ero infelice. È una delle forme d'arte più alte che l'uomo ha concepito. Credo nel suo futuro."
(John Carpenter)

mercoledì 16 marzo 2011

3 anni nel Nido

3 anni nel Nido

Già 3 anni? Confesso che non me n’ero accorto e devo ringraziare unicamente il fatto di aver buona memoria per le date se stavolta non “buco” la ricorrenza. Il motivo in realtà è che la situazione è “fluida”, l’anno appena trascorso è stato quello che ha visto un calo abbastanza sensibile negli aggiornamenti e nella periodicità dei pezzi, ma l’ho vissuto anche come quello più importante, quello che mi è servito per consolidare in maniera (spero) definitiva il rapporto con questo spazio, al di là degli entusiasmi iniziali, delle mode del momento, dei contatti non mantenuti, degli amici che hanno abbandonato la blogosfera e delle discussioni internettiane di chi lamentava che in fondo i blog non li legge (più) nessuno, che il futuro è sui social network eccetera.

Sarà che non ho mai creduto alle dinamiche economiche, ma personalmente non ho aperto il blog per accumulare lettori (infatti noterete che manca anche il widget apposito nella pagina), ma semplicemente per esprimere ciò che sento. Che poi ci sia anche gente che trova questo qualcosa interessante è un aspetto ottimo e ringrazio naturalmente tutti quelli che continuano a seguirmi.

Purtuttavia il Nido resta uno spazio che sento molto “intimo”. Personale ma non umorale, ragionato piuttosto, e mi interessa che continui a esserci, per seguire le passioni e il cinema, che spesso per me sono la stessa cosa. In realtà l’annata attuale non è stata finora troppo esaltante, ma all’orizzonte ci sono una serie di titoli molto interessanti e grandi ritorni, quindi ci sarà ancora molto da scrivere.

Pertanto, questa come tutte le ricorrenze serve più per segnare il punto e ripartire, che per guardarsi indietro. E con questo auspicio, dunque, si continua!

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lunedì 14 marzo 2011

Il Grinta (2010)

Il Grinta (2010)

1880. La giovanissima Mattie Ross giunge a Fort Smith per recuperare il corpo del padre, ucciso dal balordo Tom Chaney. Intenzionata a vendicare la morte dell’amato genitore, Mattie assume il burbero sceriffo federale Rooster Cogburn perché si rechi in territorio indiano e catturi Chaney. Ai due si unisce il Texas Ranger LaBoeuf, intenzionato a riscuotere la taglia che pende sulla testa dello stesso Chaney per l’omicidio di un senatore. Refrattari ad essere accompagnati dalla piccola, che impone la sua presenza, Cogburn e LaBoeuf impareranno ben presto ad apprezzare la determinazione.


Sebbene i fratelli Coen abbiano rivendicato la filiazione diretta dal romanzo originale di Charles Portis, la nuova versione de Il Grinta non può comunque prescindere da un confronto con la prima trasposizione cinematografica di Henry Hathaway, realizzata nel 1969 e che valse al grande John Wayne l’Oscar come miglior attore protagonista. Da Wayne passiamo al non meno strepitoso Jeff Bridges ed è sintomatico notare come il corpo iconico stesso degli attori sia di per sé capace di sintetizzare lo spirito e di conferire il giusto tono a entrambe le versioni, nei quali emergono le più pregnanti differenze. Tanto infatti Il Grinta “classico” era solare, ambientato quasi sempre di giorno e sorretto dai memorabili duelli verbali fra Cogburn, LaBoeuf e Mattie, tanto il nuovo film è crepuscolare, notturno in molte sue parti e vede la giovane protagonista primeggiare sui due comprimari, in uno scenario dove pure i ruoli dei tre appaiono più definiti e al contempo sfumati quel tanto che basta da non settare eccessivamente il ritmo sulla contrapposizione interna al gruppo.

La finalità è quindi abbastanza evidente: nel 1969 la Paramount sentiva il bisogno di riflettere i cambiamenti interni a una società che vedeva acuirsi gli scontri generazionali, schierando un’icona di classicismo ancora in piena forma, opposta alle nuove leve attoriali (sarà un caso, ma fra i cattivi risaltavano due attori simbolo come Robert Duvall e, soprattutto, Dennis Hopper). Si trattava, insomma, di rendere merito alla grinta di un vecchio leone come il fordiano Wayne e non a caso il tono generale era quello di una dicotomia comunque destinata a stemperarsi in una certa bonarietà di fondo, esattamente come il carattere di Cogburn, burbero, ma capace di grandi slanci d’umanità e ironicamente redarguito dalla giovane protagonista.

Ciò che invece emerge nel Grinta secondo i Coen è un tono elegiaco in cui la sintesi apportata dal corpo sfatto e decadente di Bridges guarda più ai tardi revisionismi del Wild Bill di Walter Hill che alla mitologia e allo splendore dei classici. Ma, nonostante questo, il tono generale non è definito soltanto dai personaggi: c’è un contesto che nell’originale era alquanto anonimo e che qui invece rivendica con forza la sua preminenza, complice un uso estremamente intelligente della fotografia di Roger Deakins. Gli scenari della Frontiera sono quelli di una natura tanto affascinante e selvaggia, quanto silente testimone di scontri uno-contro-uno sullo sfondo di una dicotomia legalità/brutalità che è poi quella del Nuovo West civilizzato contro quello classico. I Coen in questo modo imprimono un tono del tutto personale a un film che riesce a svicolare dalle trappole del contrappunto verbale per diventare autentico piacere della messinscena di una storia, non esclusi i risvolti più problematici.

La bravura dei due fratelli sta dunque nella loro capacità di giocare con una potenza visiva che non diventa astrazione o, ancor peggio, sterile estetizzazione, ma al contrario è propedeutica a un sentire emotivamente il sapore di un’epoca lontana che si gioca le sue ultime carte attraverso una caccia all’uomo in cui le convinzioni sulla legalità di Mattie vengono messe a dura prova, ma che pure sono utili alla riuscita dell’impresa. La posta in gioco è alta e il film non nasconde il pessimismo e l’amarezza che pure connotavano l’altra grande opera coeniana degli ultimi anni, lo splendido Non è un paese per vecchi. Stavolta, viene da pensare, il paese non è ancora per vecchi, ma nemmeno per giovani e il personaggio di Mattie (la straordinaria debuttante Hailee Steinfeld) evidenza questa contraddizione attraverso un carattere tipico di chi è stato costretto a crescere in fretta e a tenere testa tanto ai cavilli legali quanto all’asprezza delle battute di caccia all’uomo e al morso dei serpenti. La struttura a flashback dunque evidenzia la gloria di un passato ormai lontano, mentre il presente del finale non si pasce nella fiducia che ammantava l’ending del film originale, ma al contrario evidenza l’asprezza di un mondo difficile dove le esperienza di vita più difficili lasciano segni indelebili sui corpi.

In questo senso il nuovo Grinta è un film non soltanto figlio del suo tempo, ma ben più allineato rispetto al suo presente di quanto non lo fosse il precursore, il cui ottimismo appare ancora oggi alquanto posticcio (e non aiuta una regia di Hathaway francamente alquanto anonima). Al contrario la versione coeniana della storia riesce a riprodurre a meraviglia il senso di un mondo che ha smarrito i suoi valori e perciò si palesa lungo un percorso fatto di corpi putrefatti dimenticati in buche nel deserto, impiccagioni, giustizia sommaria fra compagni di viaggio, cadaveri appesi in mezzo al nulla e usati come merce di scambio. Un mondo tanto affascinante nella sua umanità quanto terribile.


Il Grinta
(True Grit)
Regia e sceneggiatura: Joel e Ethan Coen (dal romanzo di Charles Portis)
Origine: Usa, 2010
Durata: 110’

sabato 12 marzo 2011

L’uomo nell’ombra

L’uomo nell’ombra

Il Ghost Writer dell’ex Primo Ministro Inglese Alan Lang viene trovato morto sulla spiaggia dell’isola americana dove il politico si è ritirato. Pertanto viene reclutato un nuovo scrittore. L’affare in ballo non è infatti di poco conto, bisogna ultimare la biografia di Lang, in un momento in cui le polemiche intorno alla sua gestione della guerra al terrorismo sono giunte al culmine e il tribunale internazionale dell’Aja sta per aprire un’inchiesta nei suoi confronti, che potrebbe portarlo a una condanna per crimini contro l’umanità. Lang è infatti sospettato di aver utilizzato metodi non ortodossi (inclusa la tortura) che hanno portato anche alla morte di uno dei prigionieri. Il Ghost Writer però, indagando sulla vita di Lang, scopre alcuni elementi incongruenti, che potrebbero far pensare al fatto che il suo predecessore sia stato eliminato dopo aver scoperto una verità scomoda…


A prescindere dalle vicende giudiziarie che lo hanno colpito al momento dell’uscita del film, Roman Polanski resta un osservatore straordinariamente lucido e un artista immenso, che con questo nuovo capolavoro compie un’operazione affine eppure opposta a quella tentata nel 1987 con il bellissimo Frantic. Anche stavolta, infatti, la posta in gioco è fra una lettura politica della realtà e una forma hitchcockiana del racconto, che dà vita a una curiosa miscela noir. Se, infatti, trent’anni fa, la forma narrativa sopravanzava la conclusione estremamente amara nei confronti delle dinamiche spionistiche che soggiogavano il mondo, stavolta l’intento politico è più palese e chiama in causa le vicende di un controverso Primo Ministro inglese visibilmente ricalcato sulla figura di Tony Blair (qui un ottimo Pierce Brosnan) e immerso in un gioco di relazioni partitiche e spionistiche che pure Polanski sfrutta come pretesti narrativi per una messinscena capace di svelare i segreti progressivamente, con una straordinaria impennata della suspence.

Data questa premessa, dunque, la forma hitchcockiana si pone in second’ordine rispetto all’apparente esigenza di analisi storico-politica, ma in realtà l’equilibrio delle parti è più perfetto che mai, poiché ognuna sorregge l’altra in modo da tenere sempre desta l’attenzione. Forma e sostanza si ritrovano dunque unite in un racconto permeato da una costante sensazione di inquietudine, ma anche di beffarda ironia, dove la fotografia chiaroscurale di Pawel Edelman trova un efficace opposizione negli spazi aperti dell’isola e negli ambienti apparentemente asettici della residenza di Lang, ariosi nell’architettura e nelle geometrie descritte da pareti, scale e mobili.

In questo spazio vagamente alla Escher, agiscono forze impazzite, che Polanski sintetizza in modo mirabile attraverso i dettagli: le pantofole “fuori posto” sotto il letto o, ancor più, il giardiniere che tenta di spazzare lo spazio antistante la casa dalle foglie, lottando contro un vento che però manda tutto nuovamente all’aria. E’ il paradosso di una realtà ormai inconoscibile dove, in modo stavolta ancora affine ma diverso da Frantic, ci si scopre immersi in una situazione quasi kafkiana (il Ghost Writer non a caso telefona al suo agente per lamentarsi della situazione in cui è stato messo).

Pertanto, ognuno dei personaggi è al contempo un attore della vicenda, ma anche una pedina di una forza superiore: Lang è un politico, ma anche un indagato per effetto delle sue malefatte e della rivalità di un collega che aveva esonerato dal gabinetto dei ministri, sua moglie è una consigliera ma anche un’amante tradita, la sua segretaria è anche innamorata di lui. I manifestanti che invece protestano contro Lang hanno il loro più fervente attivista in un ex soldato che intende vendicare il figlio e che attacca il Primo Ministro, salvo poi mettersi sull’attenti, quasi a riverire un’autorità superiore e invisibile.

In questo scacchiere, l’unica persona che appare reale è l’unica priva di un’identità, ovvero il Ghost Writer (interpretato dal grande Ewan McGregor) che non ha un nome, una famiglia, ed “esiste” solo in virtù del lavoro compiuto per conto terzi, delle parole che infila in libri firmati da altri e che, nel tirare le fila del discorso, altro non fa che seguire una strada già tracciata dal suo predecessore. Una scena in questo senso è emblematica, è quella in cui l’uomo si lascia guidare dal navigatore della sua auto lungo un percorso che non aveva fissato, e che è quello del Writer che lo aveva preceduto.

In effetti, uno degli aspetti più magnetici del film, è proprio la caratura “oggettuale” del film, in cui sembra che gli elementi inanimati forniscano molte più informazioni ed emozioni delle persone in carne ed ossa. Polanski raggiunge quindi una strepitosa sintesi linguistica mostrando le progressioni della storia e determinando il tono del racconto attraverso le reazioni dei personaggi alle azioni veicolate dagli oggetti. E questo fin dall’incipit: il Ghost Writer iniziale muore? Lo capiamo dall’auto che resta sola nel traghetto e dopo ne vediamo il cadavere. A fornire gli indizi sono invece elementi che sembrano spuntare dal nulla, come le foto trovate dal protagonista in una busta incollata sotto un cassetto, lascito del suo predecessore.

E per questo l’immagine finale – e magistralmente hitcockiana – del biglietto passato di mano in mano con la rivelazione della verità, è un momento magico nella sua capacità di essere assolutamente indispensabile eppure così magnificamente libero, perché esclude la sovrastruttura umana da un mondo che, per essere compreso nella sua complessità, sembra dover ripartire dai dettagli, dai piccoli scarti che la realtà spontaneamente determina rispetto alle trame oscure che sembrano sempre voler celare l’immanenza della verità. Ciò che a Polanski interessa, non a caso, è la zona d’ombra.


L’uomo nell’ombra
(The Ghost Writer)
Regia: Roman Polanski
Sceneggiatura: Robert Harris e Roman Polanski (dal romanzo Il Ghostwriter, di Robert Harris)
Origine: Francia/Germania/Uk, 2010
Durata: 128’

giovedì 10 marzo 2011

“The Ward” in Italia!

“The Ward” in Italia!

Anche se già recensito qui sul Nido, l’ultimo film di John Carpenter, The Ward, ha ancora una vita artistica e commerciale da vivere e quindi giova continuare a seguirla attraverso alcuni aggiornamenti.

La grande notizia è che il film è stato comprato per l’Italia da BIM: si sapeva in realtà già da tempo, ma la cosa era rimasta nel campo dei “si dice”, salvo trovare finalmente una conferma ufficiale. Il distributore italiano ha quindi fissato la data d’uscita nei cinema per il prossimo 1 aprile.

In questi giorni sta prendendo piede la campagna stampa, con la diffusione del trailer nella nostra lingua e del manifesto italiano, che rielabora quello originale aggiungendo un inedito (e francamente non esaltante) effetto di tumefazione sul volto di Kristen/Amber Heard.

Il titolo resta invece quello originale, affiancato dalla corretta traduzione “Il reparto”.

Il nuovo trailer è visibile nello spazio Visioni dalla Rete dove rimarrà come di consueto per una settimana. Ricordo che anche i video postati in passato (il trailer originale e il red carpet del Festival di Toronto con videomessaggio del regista) sono sempre raggiungibili dall’indice del blog.

In ossequio alla prassi, il manifesto italiano è invece visibile nella recensione, raggiungibile dai collegati in calce.

Al prossimo aggiornamento!


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mercoledì 9 marzo 2011

L’imbattibile Daitarn 3

L’imbattibile Daitarn 3

La minaccia arriva da Marte, ma le sue radici affondano in una tragedia umana: quella del dottor Haran Sozo, brillante scienziato creatore dei Meganoidi, organismi robotici perfetti che hanno preso il sopravvento e ora intendono assoggettare la nostra razza. Contro di loro si leva un eroe, Haran Banjo, figlio dello scienziato, sfuggito alla guerra civile sul pianeta rosso e ora pronto a combattere a bordo del robot Daitarn 3 per difendere la Terra. Con lui ci sono due giovani e bellissime assistenti, Beauty Tachibana e Reika Sanjo, il pestifero Toppy e il polivalente maggiordomo Garrison. La guerra si snoda in un tripudio di combattimenti ora umoristici, ora surreali, mentre la tragedia della famiglia Haran lentamente prende sempre più forma.


Partendo dalla specularità che vede una serie robotica come L’imbattibile Daitarn 3 opposta alla precedente L’invincibile Zambot 3, non si può fare a meno di notare la natura assolutamente unica e liminare di questo classico dell’animazione giapponese. A colpire non è infatti la solarità del concept, che si contrappone alla deriva più tragica del predecessore, ma il fatto che il genio di Yoshiyuki Tomino lavori lungo una direttrice che lo porta gradualmente a ossequiare e contestualmente a rovesciare le aspettative dello spettatore e i dettami che l’impianto generale pone in essere.

Pertanto, sebbene amena, Daitarn 3 è una serie che lascia intravedere un sempre latente senso della tragedia, destinato a trovare parziale compimento quando l’evidenza della lacerazione interna alla famiglia Haran si palesa; il percorso di avvicinamento a questa presa di coscienza finale è costellato da storie che, sebbene spesso pretesto per gag e momenti divertenti, raccontano di fallimenti ed esseri umani che decidono di sposare la causa dei Meganoidi vedendo in essa una possibilità di riscatto e di vendetta contro quella società che li ha respinti o traditi. Una direttrice che, però, almeno in un caso è ribaltata (il riferimento è alla “strana coppia” formata da Maria e Franken, visibile negli episodi 9 e 35), sintomo di quanto comunque la formula non accetti l’imposizione di un canovaccio ben definito e miri invece a ribaltare sempre le prospettive.

Basterebbero già questi elementi a decretare la genialità di una serie, ma Tomino va ancora oltre e sfrutta questa porosità del soggetto (frutto, a quanto pare, di un’estrema libertà creativa dello staff e per questo fonte di numerose invenzioni visive) per compiere una riflessione teorica sul genere stesso: d’altra parte, che di linguaggi narrativi si parli è palese, già l’idea stessa di raccontare la tragedia attraverso l’ironia che spesso degenera in farsa o in surrealismo puro rende palese l’intento, ma Tomino esce dall’implicito e dal non detto per rivelare apertamente il suo scopo.

Ecco pertanto che le storie raccontate nelle singole puntate fanno spesso appello al concetto stesso di rappresentazione ed esaltano il valore iconico degli elementi: un eroe affascinante e dalle caratteristiche fisiche superiori (in grado di tenere testa a decine di avversari, sopravvivere nudo al freddo artico e rompere sbarre e catene a mani nude), due assistenti affascinanti, ma soprattutto una precisa ritualità della formula, che alla classica presentazione settimanale del cattivo di turno unisce un grido di battaglia e un colpo finale (il celeberrimo Attacco Solare, anch’esso da contrapporre all’Attacco Lunare dello Zambot) che si ripetono a ogni puntata e che scandiscono il ritmo del racconto.

Ciò che Tomino vuole dunque palesare è una iconografia e una ripetitività intrinseca al genere robotico, che però diviene sua forza in quanto meccanismo iterativo che chiama in causa lo spettatore e la riconoscibilità di elementi precisi, che vengono perciò attesi e condivisi. Inoltre c’è il già citato tema della rappresentazione, che abbraccia le forme espressive più disparate: a volte il Meganoide di turno si nasconde dietro le sembianze di un divo del cinema, a volte le imprese stesse del Daitarn vengono filmate per diventare un lungometraggio (e Tomino ne approfitta per riproporre il suo vezzo di citare Star Wars), in altri casi si chiama in causa il fumetto con effetti grafici ed onomatopee che compaiono nell’inquadratura, si evocano palcoscenici o numeri di pattinaggio artistico, i personaggi si sistemano in pose evocative, esaltate dalla regia e dai giochi di luce della fotografia (ampio merito va allo staff dello Studio Z, che ha curato l’animazione di alcune memorabili puntate). Tutto è naturalmente pretesto per assorbire lo spirito di un’arte (quella dell’animazione) e di una società che è ormai totalmente dentro il meccanismo spettacolare e ha già compiuto la sua transizione da moderno a postmoderno e può dunque iniziare a riflettere su se stessa, peraltro in largo anticipo sui tempi ma senza quell’eccesso citazionistico (comunque presente) tipico delle opere attuali. Il risultato è un tourbillon di invenzioni originali che – nei suoi momenti più alti - sembrano uscite dalla penna di un Lewis Carrol improvvisamente votatosi alla fantascienza.

Apparentemente anarchico, ma in realtà lucidissimo nella sua azione a tutto campo, L’imbattibile Daitarn 3 sfrutta questa sua natura magmatica per introdurre alcuni temi che troveranno poi compiutezza in Mobile Suit Gundam e permettono una riflessione più profonda sulle derive dell’evoluzione umana. Possiamo pertanto vedere i Meganoidi come una maligna metafora di quella tensione a un “livello superiore” che porterà successivamente ai New Type o, più correttamente, ai Cyber New Type di Z Gundam, nei quali l’evoluzione sarà surrettiziamente indotta dall’uso invasivo della tecnologia. Ma, in questa guerra di chiaroscuri, Daitarn 3 non fa sconti e, soprattutto, ancora una volta gioca con il ribaltamento delle prospettive, riconducendo ogni personaggio in un cono d’ombra che non lascia sul campo eroi e cattivi a tutto tondo. Haran Banjo è infatti un personaggio ossessionato dalla sua guerra e dal desiderio di affrancarsi dall’eredità paterna, così come i Meganoidi forse non sono totalmente negativi nel perseguire un disegno che nella loro grandiosa follia appare estremamente logico.

Il problema di fondo è che, anche in questo caso, la spinta devastante di un conflitto che arriva ad abbracciare un’intera galassia è riconducibile a dinamiche interpersonali e familiari che disegnano uno spazio estremamente “piccolo”, dove sono i rapporti padre-figlio a dettare la via. Perché la guerra, ancora una volta, è una questione di sentimenti privati, di istinti personali che guidano le azioni, come la rivalità fra Char e Amuro in Gundam, unico elemento che resta sul campo di fronte alle prospettive offerte dall’evoluzione umana.

Il finale della serie non a caso si chiude proprio con una battaglia spaziale che lascia presagire i futuri scenari tominiani e, nel suo insieme, è giustamente ambiguo e aperto quel tanto che basta per favorire appassionanti speculazioni. Si consiglia la visione della serie in versione sottotitolata per cogliere tutte le sfumature della storia, rimaste offuscate dalla frettolosa versione italiana dei primi anni Ottanta.


L’imbattibile Daitarn 3
(Muteki Kojin Daitan 3)
Regia: Yoshiyuki Tomino
Sceneggiatura: Yoshihisa Araki, Hiroyuki Hoshiyama, Ken'ichi Matsuzaki (da un’idea generale di Hajime Yatate e Yoshiyuki Tomino)
Origine: Giappone, 1978
Durata: 40 episodi

giovedì 3 marzo 2011

Ladri di cadaveri (Burke & Hare)

Ladri di cadaveri (Burke & Hare)

Edinburgo, 1828. William Burke e l’amico William Hare sono due spiantati inglesi in cerca di lavoro. La morte di un loro subaffittuario li porta a scoprire un inedito business, quello dei corpi per la locale università. In particolare, il dottor Knox ha continuamente bisogno di cadaveri freschi da fotografare per stilare una “mappa” del corpo umano: uno studio innovativo che potrebbe procurargli un premio direttamente dalle mani del Re. Il lavoro è pericoloso a causa della milizia cittadina che sorveglia strettamente i cimiteri e così, dopo essere rimasti senza subaffittuari, Burke e Hare iniziano a procurarsi il materiale direttamente “alla fonte”, uccidendo le persone che capitano loro a tiro. Mentre il tenore di vita dei due briganti si innalza, Burke si innamora di Ginny, una aspirante attrice che sogna di portare in scena il Macbeth con una compagnia tutta al femminile.


Nel capolavoro assoluto Una poltrona per due, lo sguardo affilato di John Landis dava il meglio di sé nel rivelare la caratura umana del dramma sotteso all’apparentemente amena scommessa fra i due anziani dell’alta finanzia. Si trattava, allora come ora, di cercare una prospettiva che, stante il contesto – radiografato con sagacia e lungimiranza uniche – fosse anche capace di esplorare quegli angoli nascosti del reale, in modo da lasciar emergere i sentimenti, le contraddizioni e la fisicità delle figure altrimenti destinate a rimanere in ombra. Lo spirito che anima il grandissimo regista americano in questo suo nuovo, meraviglioso, film è dunque rimasto lo stesso.

C’è infatti una forte tensione al reale che si va a contrapporre a una realtà stratificata, che sembra trovare la sua unica possibilità descrittiva attraverso la propria rappresentazione: dalle esecuzioni capitali che si svolgono in pubblico fra l’acclamazione di una folla che risponde “a comando”, alle esibizioni teatrali, senza dimenticare la cornice con il narratore che si rivolge direttamente allo spettatore, tutto in Ladri di cadaveri sembra ossequiare l’idea di una realtà che segue un copione. La scelta non è casuale, essendo la vicenda tratta da fatti realmente accaduti e dunque già storicizzati e noti. All’interno della “storia vera” (e quindi conosciuti), Landis è però interessato a lasciar emergere “le parti che non lo sono”: l’eccezione è dunque l’autentico fulcro del racconto, quello che favorisce sguardi innovativi e che si realizza spesso attraverso il capovolgimento delle prospettive.

Il discorso è tanto più complesso quanto più allarga la sua influenza alla struttura stessa del film, che si presenta come una horror-comedy, ma in realtà non dimostra alcuna intenzione di giocare la carta del terrore e anche nella commedia non trova la sua piena realizzazione: non almeno quanto riesce a farlo nell’insperata componente sentimentale, che concretizza il film come una impossibile storia d’amore dai contorni quasi fiabeschi, sebbene non priva di afflato tragico.

L’idea della rappresentazione, dunque, sembra l’unica in grado di esprimere la tensione dei personaggi a essere al di là degli schemi loro imposti dalla realtà, favorisce il volo pindarico nel sogno irrealizzabile di un amore raggiunto attraverso lo scavalcamento degli steccati (l’ingresso proibito nei locali) e il rovesciamento delle convenzioni (lo spettacolo di sole donne, laddove all’epoca le rappresentazioni shakespeariane vantavano un cast tutto al maschile). Si tratta, insomma, di restituire una ulteriore dimensione a quel corpo altrimenti utilizzabile soltanto come merce per competizioni accademiche, trofeo per lezioni compiute nell’evidente compiacimento del proprio genio da luminari in contrapposizione perenne e ben collegati alle stanze del potere, secondo un meccanismo oliato che sedimenta tutto in un feroce classismo.

Burke e Hare, dunque, riassumono ed espandono tutto questo attraverso la stessa dicotomia che il duo mette in scena con la loro fisicità: Andy Serkis/Hare rappresenta infatti la componente “materialistica” del duo, quello che orchestra i piani e intrattiene le pubbliche relazioni con i compratori e i ricettatori e la sua figura appare fisicamente più esasperata, caricaturale, una maschera cui non a caso dà forma il corpo dell’attore reso celebre dalle performance capture per Peter Jackson (Gollum nel Signore degli Anelli, King Kong). Anche il suo rapporto con la moglie si basa su una sorta di pacifica e reciproca sopportazione, un “dovere coniugale” che si estrinseca in un sesso sfrenato ma unicamente performativo. Hare, insomma, è il punto di partenza di una realtà che si esaurisce nel tautologico benessere esteriore.

Al contrario, il Burke del grande Simon Pegg è l’elemento che favorisce invece la dimensione più strettamente umana e meno “fisica” del duo, è il sognatore che accetta anche di farsi carico della colpa in una ricerca dell’amore che sia anche affrancamento da sé. Non a caso egli usa il suo denaro nella doppia direzione di tracciare per sé una esistenza parallela (fingendosi un ricco filantropo) e per consegnare la sua amata alla realizzazione nella dimensione fiabesca della recita teatrale. E’ lui, dunque, il personaggio al contempo più “reale” e più “teatrale” del duo, quello in cui Landis realizza la sua sintesi di prospettive opposte e che non a caso riassume il senso della sua missione (e della storia) in un proclama pubblico nel finale. Ma che inevitabilmente è destinato a restare invece prigioniero di quella ritualità di un mondo che segue il suo copione e viene perciò reimmesso nel già citato circolo di sfruttamento disumano delle competizioni accademiche. Quello che aveva cercato di rompere pur ossequiandone le dinamiche, in una magnifica contraddizione squisitamente landisiana, ovvero umana.


Ladri di cadaveri – Burke & Hare
(Burke and Hare)
Regia: John Landis
Sceneggiatura: Piers Ashworth, Nick Moorcroft
Durata: 91’
Origine: UK, 2010