"C'è chi crede in dio o nel denaro. Io credo nel cinema, nel suo potere. L'ho scoperto da ragazzino, mi ha aiutato a fuggire da una realtà in cui ero infelice. È una delle forme d'arte più alte che l'uomo ha concepito. Credo nel suo futuro."
(John Carpenter)

lunedì 26 agosto 2013

Venezia 70

Venezia 70

L'ultima volta che sono stato a Venezia era il 2010, il direttore era Marco Muller e la Mostra era un corpo-monstre (il gioco di parole viene molto facile, lo ammetto), bulimico nel programma e aperto a influenze fra le più disparate: c'era da divertirsi e sopportare con un sorriso i disagi di un luogo tutt'altro che accogliente (prezzi altissimi, cibo pessimo, umidità insopportabile con continui passaggi fra caldo afoso e pioggia). Presidente di giuria, peraltro, era il vulcanico Quentin Tarantino, mica poco!

Quest'anno ci torno e i cambiamenti non mancano: Marco Muller è andato a dirigere il Festival di Roma (se n'era accennato QUI) e il direttore, dal 2012, è Alberto Barbera, che quest'anno celebra un'annata tonda (è l'edizione numero 70), ma si trova il passo limitato da Cannes, vero “pigliatutto” della stagione, con un'edizione che ha fatto scintille. Quindi, se da un lato il programma appare naturalmente più rigoroso (vuoi perché Barbera di fatto è meno “estremo” di Muller, vuoi perché i grossi calibri si sono divisi fra Cannes e Toronto), il calendario finale appare comunque molto buono (sulla carta almeno) e anche sorprendente per come riesce a trasmettere un'idea di cinema coerente e compatta. Ci sono i momenti che guardano al passato (la sezione dei Classici restaurati), e un presente che sembra orientato al realismo (compaiono anche dei documentari in concorso, non è una cosa molto frequente). Se pensiamo che persino uno dei massimi cantori della fiaba come Hayao Miyazaki presenta un film basato su una biografia reale (e che dalle voci di corridoio si preannuncia anche abbastanza cupo) il ritratto è completo, ma aggiungiamoci anche il grandissimo Bernardo Bertolucci come Presidente di giuria per capire come l'impianto sia senza dubbio orientato alla qualità e a un tono che stia fra la celebrazione e la ricerca, fra cuore e concretezza.

Interessante anche la scelta del film d'apertura, che deve in un certo senso tenere insieme le varie anime del festival: si tratta di Gravity, fantascienza con George Clooney (figura perfettamente a metà strada fra divismo da rotocalchi e impegno civile), ma che soprattutto è diretto dal grande Alfonso Cuaron, regista lui sì davvero trasversale rispetto agli stili, alle frontiere e che già ha dimostrato di saper giostrare fantasy e realismo con I figli degli uomini. Chissà che non ripeta l'exploit del 2010 quando l'apertura fu affidata al fiammeggiante Cigno nero di Aronofsky. Per i salti nell'immaginazione più pura ci sarà il Capitan Harlock di Shinji Aramaki in CGI, che pure dai trailer sembra cupo e fotorealistico (non si scappa!).

Insomma, i presupposti sono molto interessanti, i nomi non mancano (Schrader, Friedkin, Tsai-Min Liang, Garrell, James Franco solo per citarne alcuni), c'è apparentemente poco glamour e parecchia sostanza: il sospetto è che ci si divertirà anche in questo caso.

Come nota personale aggiungo che Alberto Barbera è un direttore che ho sempre sfiorato, ma mai “fruito” direttamente: dirigeva Torino quando ancora non frequentavo i festival, è già stato a Venezia (ma anche lì in un'epoca troppo “precoce” per me), quindi ora sarà l'occasione per vederlo in azione: quand'anche i presupposti della vigilia non dovessero essere rispettati, ci sarà comunque da imparare. Ci si vede al Lido!

sabato 24 agosto 2013

Daltanious, il robot del futuro

Daltanious, il robot del futuro

In un futuro (per l'epoca) 1995, la Terra è stata conquistata dagli invasori di Zaar e le città sono ridotte a cumuli di macerie: in questo scenario, un gruppo di giovani teppisti guidati dall'intrepido Kento Tate si arrangia fra piccoli furti e la necessità di dare delle regole alla propria scomposta “famiglia”. Durante una delle scorribande con l'amico Danji, Kento riporta accidentalmente in superficie l'astronave del dottor Earl, un transfuga dell'antico impero di Helios, pure devastato da Zaar. Ormai scoperto agli occhi dei Bemborg nemici, lo scienziato affida ai due ragazzi il gigantesco robot Daltanious perché combattano gli invasori. Non tarda molto tempo perché Earl riconosca pure in Kento il legittimo erede al trono di Helios, compito che al ragazzo (cresciuto fra le esperienze di una vita avventurosa) va però stretto. Le cose si complicano quando emergono i segreti nascosti nella storia di Helios: gli scienziati del pianeta, infatti, avevano compiuto azzardati esperimenti di clonazione, legati a doppio filo alla natura stessa degli Zaar! L'identità dei legittimi successori di Helios è quindi nascosta sotto una coltre di sorprendenti colpi di scena, che spingono i protagonisti a scelte difficili, nella lunga battaglia per la pace.


Anche se fa appello al futuro sin dal titolo, una serie come Daltanious è evidentemente pensata per guardare al passato e al presente della società giapponese che l'ha generata e che nella storia finisce suo malgrado per rispecchiarsi: può farlo grazie a una complessità che il genere mecha ha ormai acquisito nella seconda metà degli anni Settanta, quando il modello episodico delle storie create da Go Nagai per la Toei Animation è ormai tramontato e la scena è dominata dalle sperimentazioni introdotte dalla Nippon Sunrise che, attraverso Zambot 3 e Daitarn 3 compie nello stesso anno di Daltanious la rivoluzione di Gundam. Più ancora, però, bisogna avere presenti le turbolente e sottovalutate epopee di Tadao Nagahama, il regista di classici come Yusha Raideen, Combatter e, soprattutto, Vultus 5 e General Daimos. Autentici caposcuola di un filone che ha affiancato all'azione sfrenata anche un ritratto a tutto tondo di personaggi sottoposti a drammi personali, e immersi in continuity piuttosto elaborate.

Non è un caso che tutti i nomi sinora coinvolti si ritrovino fra i credits: Sunrise e Toei producono, mentre Nagahama ricopre ufficialmente il ruolo di Art Director, ma la sua ispirazione è evidentissima, tanto che alcune fonti lo riportano come regista – i credits iniziali attribuiscono però la direzione a Katsutoshi Sasaki, Nagahama compare soltanto nei cartelli della sigla di coda. Stando a Wikipedia, comunque, Nagahama avrebbe effettivamente diretto parte della serie, ma la sua morte, sopraggiunta mentre la serie era ancora in corso, avrebbe costretto in seconda battuta i produttori a rimpiazzarlo con Sasaki. Più certo il ruolo del character design Saburo Yatsude, dello sceneggiatore Fuyunori Gobu e del musicista Hiroshi Tsutui, tutti provenienti proprio da Vultus 5.

Sta di fatto che, esattamente come i modelli citati, anche Daltanious si offre con la potenza di un ritmo molto serrato, esaltato anche dai tratti ruvidi e aggressivi delle animazioni, e dalla ritualità epica del caratteristico colpo finale; allo stesso tempo, però, emerge la capacità di ritagliare il giusto spazio per le microstorie dei protagonisti, al punto che la prima metà della vicenda è sostanzialmente formata da una susseguirsi di “focus” in cui vengono passati in rassegna i trascorsi di tutti i personaggi, nessuno escluso: basti pensare che persino il simpatico maialino Tonsuke (Jimmy nell'edizione italiana), mascotte del gruppo di Kento, ha la sua puntata monografica. Risulta quindi evidente come, all'esaltazione dei sentimenti più lirici e struggenti, faccia da contraltare anche una capacità di mescolare i toni, che rende le storie varie e in grado di muoversi fra momenti drammatici e altri allegri e demenziali senza apparente soluzione di continuità.

Le cose cambiano con la seconda parte, quando il fronte narrativo si apre agli scenari spaziali e agli excursus storici su un passato che investe l'intera galassia, l'impero perduto di Helios e la missione degli Zaar: qui emerge infatti la natura critica dell'operazione rispetto alla società giapponese e a un modello culturale messo in crisi dai nuovi contesti, aperti alle influenze dell'Occidente. Lo scenario prefigurato dalla storia, infatti, rappresenta un'evidente metafora del Giappone dell'immediato dopoguerra, fatto di orfani costretti a trovare da soli la propria strada, città uscite devastate dai bombardamenti, mentre la nazione subisce l'occupazione straniera (nel racconto a un certo punto intervengono anche i militari americani, con cui Kento deve suo malgrado scontrarsi, giusto qualora non fosse chiaro il concetto). Il colpo di genio sta nel non sfruttare una simile situazione per solleticare istinti revanscisti, ma per prefigurare anzi un orizzonte nuovo, e libero degli orpelli del passato, che hanno causato la rovina del Giappone stesso. Difficile infatti non restare sorpresi dalla vena anti-imperialista della storia, che attribuisce alle figure imperiali e a quelle governanti una natura subdola e negativa, incapace di guardare ai bisogni della povera gente e per questo pari alle prepotenze perpetuate dagli invasori. Il conflitto trova una raffigurazione scherzosa nel “ribellismo” di Kento, totalmente refrattario all'idea di indossare i panni del principe come invocato con insistenza dal dottor Earl.

Lo scienziato, peraltro, rappresenta lo speculare opposto del protagonista e quando lo vediamo costretto a scegliere fra gli ideali di libertà (quelli che lo spingerebbero a mantenere il ruolo di difensore della Terra) e la fedeltà agli Zaar (nell'attimo in cui la vicenda dei cloni fa credere che il legittimo erede al trono di Helios sia il capo delle truppe nemiche) emerge in tutta evidenza il dramma di un modello culturale basato sull'obbedienza cieca e sganciata da ogni contesto. A questo, Daltanious preferisce una prospettiva “dal basso”, che guardi ai bisogni del popolo, e che spinga i personaggi a compiere delle scelte chiare più vicine alla propria etica umana e personale, che ai dettami imposti dal dovere (si pensi in tal senso alla complessa figura di Kloppen, autentico rappresentante dell'antico codice dei samurai). Appare in questo senso congruo il riferimento alla figura del moschettiere “ribelle” e a favore dei giusti, codificata da Alexandre Dumas: l'originale “Darutaniasu”, infatti, rappresenta un gioco di parole con il nome di D'Artagnan, celebre eroe dei romanzi d'avventura, celebrato anche con l'effige della croce dei moschettieri e il colpo finale che sfrutta la forza della spada.

Si può dunque notare come il gioco imbastito dagli autori ruoti non solo intorno al concetto di identità, ma anche a quello dei rispecchiamenti verso un modello che ormai si ritiene completamente addentro al multiculturalismo e alle influenze più disparate. Anche per questo è interessante notare come, rispetto al genere dei mecha, la storia rappresenti quasi una parafrasi di quella già vista in Ufo Robot Goldrake, che per primo aveva aperto le regole del genere al confronto con l'altro da sé, attraverso la figura del pilota-alieno outsider (che poi ritroveremo anche in Baldios). Oltre a una serie di elementi ripresi di peso da quel modello, si possono infatti notare anche dei debiti stilistici nei design, che trovano il culmine nella maschera di Kloppen, quasi una stilizzazione del volto dello stesso Goldrake (e il fatto che a doppiare il personaggio da noi ci sia Romano Malaspina, già voce proprio di quell'eroe, è una coincidenza felicissima). Il gioco di avvicinamenti e distanze, fatto di omaggi e rovesciamenti di prospettiva, si fa insomma molto complesso e per questo più entusiasmante.

Una nota infine sull'edizione italiana curata dalla Citiemme Edizioni, che propone un adattamento di buon livello, con qualche variazione nei nomi (“Antares” al posto di “Atlas”, “Ormen” al posto di “Dolmen”), ma un cast ben variegato. Curiosa la scelta di sostituire il termine “clone” con “biodroide”, così come alcune invenzioni (gli invasori denominati “Akron”) e mancanze (i robot nemici, i Bemborg, non hanno sostanzialmente denominazione). Da notare pure alcuni casi particolari, come Ochame che diventa Mita (come il cognome della sua doppiatrice Yuko Mita), o il nome dell'imperatore Nishimura (in originale “Palmillion”), che farebbe pensare a una sovrapposizione con il direttore della fotografia T Nishimura. Errori o semplici coincidenze?

In Italia la serie è raccolta in DVD da Dynit.


Update del 04/12/13: sulla questione relativa al vero ruolo di Nagahama nella serie, da una discussione sulla pagina Facebook di Yamato Video collegata a un articolo di Mario Rumor sull'autore giapponese emerge quanto segue:

Animage Pocket Data Notes indica Nagahama come enshutsu (quindi supervisiore generale della serie), per poi essere sostituito da Sasaki come kantoku (regista) e autore degli storyboard. C'era Ulysses 31 a cui Nagahama tendeva di più e che lo ha portato a mollare sia Daltanious sia Lady Oscar. Però, poi è morto.


Daltanious, il robot del futuro
(Mirai Robo Darutaniasu)
Regia: Katsutoshi Sasaki
Sceneggiatura generale: Fuyunori Gobu, Masaki Tsuji
Origine: Giappone, 1979
Durata: 47 puntate

giovedì 22 agosto 2013

Picnic a Hanging Rock

Picnic a Hanging Rock

Il 14 febbraio dell'anno 1900, un gruppo di ragazze del college vittoriano Appleyard si reca in gita presso la Hanging Rock, nello stato del Victoria centrale. Durante la sosta, un gruppo, guidato dalla bella Miranda, si distacca dalle amiche per esplorare la roccia e scompare misteriosamente. Il caso delle ragazze perdute crea parecchio scalpore e lascia emergere malesseri sopiti, trascinando l'intera comunità del college in un progressivo sfaldamento. Nel frattempo, il giovane Michael Fitzhubert, rampollo di una ricca famiglia inglese in visita in Australia, si interessa al caso (era infatti presente sul luogo e aveva visto le ragazze recarsi sulla roccia) e, dopo estenuanti ricerche, riesce a ritrovare una delle giovani. Ma tutto questo non fermerà l'inesorabile avanzata del destino.


All'improvviso l'Australia doveva avere una certa immagine... e poi c'erano i nemici di quell'immagine, in particolare quelli che non ritraevano l'Australia come belle ragazze vestite di bianco che svanivano tra le rocce
(Barry Humphries, da Not Quite Hollywood)

Incassato l'insuccesso commerciale de Le macchine che distrussero Parigi, Peter Weir trova finalmente il suo posto al sole con questo celebre adattamento del romanzo di Joan Lindsay, basato su un presunto fatto di cronaca, a sua volta iscritto nella più ampia casistica delle sparizioni nell'Outback. Com'è noto, il film ha ottenuto una tale risonanza, anche internazionale, da porsi ancora oggi come paradigma del cosiddetto “Rinascimento” del cinema australiano, marcando la differenza con le produzioni “basse”, e consegnando a Weir la nomea di Autore a tutto tondo (da cui l'affermazione satirica di Barry Humphries riportata in esergo).

Ciò che ha attirato Weir – e che ha contribuito a fare la fortuna del film – è l'approccio antirealistico al tema, favorito da una prospettiva onirica e simbolica, che iscrive direttamente la vicenda in un tempo irreale (con tanto di orologi che si fermano), e conferisce al film una qualità fiabesca, complice anche l'utilizzo dell'ellissi narrativa e del non detto. Tutto questo, sebbene la vicenda si ambienti, al contrario, in un momento storico ben preciso e riconduca le dinamiche a umori ed elementi sempre molto concreti, siano essi i paesaggi rocciosi della Hanging Rock o le regole ferree che regolano la vita del rigido college vittoriano. Non a caso, anche visivamente il film oscilla fra una ricostruzione d'epoca a tratti talmente realistica da sfiorare il calligrafismo, e una capacità di perdersi in atmosfere sospese, esaltate dalla colonna sonora di Bruce Smeaton (fatta di liriche ancestrali e sganciate dal tempo del racconto) e dalla fotografia flou di Russell Boyd, che da qui inizierà una fruttuosa collaborazione con il regista. La Hanging Rock, in particolare, è un luogo a metà, iscritto fra la veridicità del set naturale (le riprese avvennero effettivamente in loco) e la capacità del regista di ritagliarne porzioni che rivelano volti mostruosi nelle rocce e anfratti che letteralmente “guardano” le protagoniste, conferendo alla conformazione vulcanica lo status di autentico personaggio.

Rispetto all'originale cartaceo, Weir mantiene il finale irrisolto - in realtà voluto dall'editore, poiché esisteva un capitolo conclusivo che scioglieva il mistero, si vedano i link in calce - e si concentra maggiormente sull'evento iniziale della sparizione, limitando poi la seconda parte a pochi momenti significativi, in modo tale da concentrare quasi tutta l'azione fra gli spazi ben definiti della Roccia e del college: in questo modo, si genera un'atmosfera oppressiva che esalta il disfacimento della realtà posta in essere (un modello che poi l'autore riprenderà ne L'attimo fuggente, quasi un ideale speculare “anglosassone” della storia). Va comunque precisato come la versione attualmente circolante tagli circa 10 minuti dal montaggio originale del film, regalando quindi alla seconda parte una stringatezza ancora maggiore.

Sui miei personaggi che scompaiono non vi saprei rispondere. Quando guardo quelle interviste di artisti in televisione, aspetto sempre che qualcuno dica “Non lo so” e capita di rado. Un film si avvicina all'esperienza del sogno ed è come questo inafferrabile.
(Peter Weir, intervista di Michel Ciment, Positif, aprile 1987)

Le linee guida del racconto sono dunque molto ben definibili: c'è un elemento fantastico e inspiegabile (la sparizione delle ragazze) che irrompe in una realtà per il resto assolutamente governata da una ferrea logica e ne provoca il disfacimento. Il fatto che l'evento scatenante sia collegato al rapporto fra i coloni inglesi e lo scenario alieno dell'Outback riconduce naturalmente la dinamica generale al tema consueto dell'identità australiana e dello sradicamento dei personaggi e delle loro storie umane e culturali, tale da produrre un'autentica perdizione (come è ben evidenziato dal personaggio di Michael Fitzhubert, letteralmente ossessionato dalla vicenda). Ma ciò che più interessa in questa sede è rimarcare il tono panico, concentrato su una natura selvatica e capace perciò di rappresentare il perfetto contraltare a una sorta di forza immanente che guida ed è a sua volta provocata dalle ragazze e in particolare dal personaggio di Miranda, interpretata dalla giovane e bellissima Anne Louise Lambert.

Figura eterea e non a caso definita “un angelo del Botticelli”, Miranda è infatti allo stesso tempo una vittima e un agente del Caos che opera dietro le quinte, poiché ne prevede gli effetti, ma in un certo senso si pone come guida del gruppo di ragazze destinate alla sparizione. Il film non a caso concentra in modo particolare l'articolazione della seconda parte sul rapporto ormai reciso fra Miranda e l'amica Sara (che pagherà con la vita l'incapacità di sopportare la perdita), quasi che la scomparsa rappresenti per quest'ultima un'occasione che le viene offerta per trovare finalmente la propria strada e la propria identità, secondo uno schema del “percorso di formazione” che ormai abbiamo compreso essere caro all'autore. Quasi un dono d'amore che quindi Miranda fa all'amica affinché trovi se stessa e la ferrea sovrastruttura culturale che opprime lei e le amiche possa finalmente aprirsi a spinte innovatrici.

Il dramma di Sara riconduce quindi a una dinamica “intima” e personale un trauma che per il resto attinge a forze ancora più grandi e capaci, come abbiamo visto, di generare conseguenze a più livelli, interessando un quadro via via sempre più ampio, in cui tutto il microcosmo è coinvolto, dalle cameriere del collegio fino alla direttrice Appleyard, cui è dedicata la chiusa finale.


Picnic a Hanging Rock
(Picnic at Hanging Rock)
Regia: Peter Weir
Sceneggiatura: Cliff Green, dal romanzo di Joan Lindsey
Origine: Australia, 1975
Durata: 103' (versione Director' Cut), 110' (versione cinematografica)


Collegati:
Michael e Homesdale: gli esordi di Peter Weir
Le macchine che distrussero Parigi

mercoledì 14 agosto 2013

Monsters University

Monsters University

Il giovane Mike Wazowski ha un sogno: diventare il più grande Spaventatore di tutti i tempi! Per questo si iscrive alla Monsters University, dove lavora duro per superare l'esame di fine trimestre: il suo aspetto buffo e poco inquietante, però, sembra remare contro. Ancora più grave è la conoscenza di James P. “Sully” Sullivan, rampollo di una grande stirpe di Spaventatori, che sembra dotato di un talento naturale per il mestiere, ma a causa della sua svogliatezza finisce per essere espulso dal corso, insieme allo stesso Mike. Di fronte alla prospettiva di una vita in seconda fila, Mike decide comunque di giocare il tutto per tutto partecipando alle Spaventiadi, la competizione studentesca per campioni dello spavento. Se infatti riuscirà a vincere potrà essere riammesso al corso di studi. La strada però è tutta in salita: nella sua squadra c'è infatti ancora Sully, ma soprattutto i membri della confraternita Uzma K, bravi e volenterosi, ma assolutamente incapaci di spaventare...


L'impresa era di quelle capaci di far tremare i polsi a chiunque: dare un sequel (o, nel caso specifico, un prequel) a Monsters & Co., ovvero il capolavoro assoluto della Pixar e uno dei più grandi film dell'ultimo ventennio, rappresentava infatti una sfida talmente impervia da far maturare come minimo enormi pregiudizi. Eppure la Pixar ce l'ha fatta e, dimostrando ancora una volta la sua capacità di raccogliere le sfide e affrontarle in senso costruttivo, ha affidato il nuovo film a uno staff diverso dal precedente, con in testa il regista Dan Scanlon, ex storyboard artist e story editor, qui al suo debutto ufficiale sulla sedia del director per un lungometraggio.

Con il senno di poi possiamo tranquillamente affermare che la Pixar ha compiuto non solo la mossa migliore, ma anche la più intelligente per il percorso creativo già intrapreso da un po' di tempo a questa parte: tanto infatti il primo Monsters & Co. ossequiava l'idea del gruppo allargato e omogeneo su cui concentrare l'attenzione (una costante delle prime produzioni della casa), tanto qui si guarda a dinamiche concentrate su pochi soggetti, all'interno di uno spazio che ormai si riconosce come proprio. Come a dire: se, inizialmente, ciò che interessava era creare un mondo, ora ci si concentra su piccole porzioni dello stesso, dove spicca sostanzialmente un personaggio principale.

Ecco dunque che Monsters University, pur allargando la mitologia di Mostropoli e attingendo dalle dinamiche del film scolastico (con qualche debito dalla Hogwarts di Harry Potter), è sostanzialmente la storia di un solo mostro, il simpatico Mike Wazowski, qui assurto dal ruolo di spalla a quello di protagonista vero e proprio. Cambiano pertanto anche le dinamiche e le relazioni che legano lo stesso Mike ai comprimari e al suo mondo, e il personaggio smette di essere soltanto il petulante e irresistibile gag-maker del film originale, ma diventa anzi una figura problematica e sfaccettata, di cui vengono messi in luce non solo i limiti (in quanto ex “spalla” e dunque figura pensata per essere di secondo piano), ma anche le enormi capacità di serio lavoratore e autentico motore (e motivatore) delle azioni di tutto il suo gruppo. Allo stesso modo, l'amico Sulley è qui ricondotto al ruolo di comprimario in apparenza di successo, ma in realtà pure insicuro e schiacciato dal peso delle aspettative legate alla sua discendenza.

Ecco quindi che Monsters University diventa un magnifico saggio sulla distanza che sussiste tra l'apparenza e la sostanza, giocata non soltanto sui ruoli in cui i personaggi sono iscritti loro malgrado e da cui devono invece affrancarsi con il duro lavoro e con l'esaltazione delle proprie capacità; ma anche sulle aspettative dello spettatore, che già conosce quel mondo e crede di poterne anticipare gli eventi, salvo poi essere spiazzato da scelte del tutto originali, che, insieme al formidabiel ritmo e a tante irresistibili gag, decretano la forza del film. Per restare al paragone citato con la saga di Harry Potter, è come se l'universo di Hogwarts fosse inquadrato dal punto di vita di Ron o dei personaggi minori, capovolgendo totalmente la predestinazione del più celebre protagonista eponimo.

Naturalmente il tutto si iscrive comunque in un sistema di valori che è sì quello tradizionale della scuderia Disney/Pixar (l'amicizia, la solidarietà, il fare gruppo di fronte al pericolo, il valorizzare se stessi perché nessuno resti indietro), ma anche in una filosofia che è coerente con quanto visto nel primo capitolo: se lì infatti si mettevano a nudo i meccanismi della competizione sfrenata, anche in questo caso si sbertuccia la logica del risultato a tutti i costi quando è disgiunta da una crescita interiore, tale da rendere ogni mostro una creatura migliore.

Ecco dunque che la vicenda è sì costruita come un continuo percorso che Mike deve affrontare per conseguire il risultato a cui ambisce, ma anche come un'eterna “gavetta” attraverso la quale il nostro eroe riuscirà a conquistare alla fine proprio il posto che aveva sempre sognato, suggellando in questo modo il legame con la posizione che ormai conosciamo dal primo film. E questo avverrà contestualmente alla crescita della sua consapevolezza, in grado di evidenziare come sia possibile vincere ogni sfida. Che poi è esattamente quello cui la stessa Pixar ci mette di fronte, offrendoci questo intelligente prequel di un capolavoro di successo.

Una piccola nota a margine, infine, anche per l'ennesimo, splendido gioiello in formato cortometraggio, L'ombrello blu, di Saschka Unseld, perfetta sintesi di poesia in stile Paperman, nello scenario tentacolare e piovoso di una metropoli: ancora un esempio perfetto di distanza tra l'apparenza delle cose e la loro (im)possibile sostanza!


Monsters University
(id.)
Regia: Dan Scanlon
Sceneggiatura: Dan Scanlon, Daniel Gerson, Robert L. Baird
Origine: Usa, 2013
Durata: 104'

lunedì 12 agosto 2013

La notte del giudizio

La notte del giudizio

A seguito delle continue escalation di violenza e della crisi economica che ha messo in ginocchio il paese, i Nuovi Padri Fondatori hanno istituito la Notte dello Sfogo, in cui, una volta l'anno, i cittadini possono commettere qualsiasi reato, incluso l'omicidio, senza conseguenze penali.
21 marzo 2022: James Sandin, venditore di sistemi di sicurezza per le abitazioni, si prepara a trascorrere la Notte dello Sfogo con la sua famiglia, ma il figlio Charlie fa entrare in casa un senzatetto, attirando in questo modo un gruppo di studenti dell'alta società, intenzionati a linciare il malcapitato in ossequio alle regole della nottata. James e i suoi familiari devono decidere se consegnare l'uomo che è entrato in casa loro in cerca di salvezza, o se difenderlo, mettendo a repentaglio la propria sicurezza.


Ciclicamente il cinema torna a flirtare con l'idea di uno scenario futuribile in cui i governi coniano inquietanti metodi per incanalare la rabbia collettiva e fornire così uno sfogo alla violenza che serpeggia nella società: solo per rimanere ai casi più recenti si possono ricordare il celebre Battle Royale di Kinji Fukasaku e la saga di Hunger Games. Una delle costanti di questo tipo di racconto è il fatto che l'allegoria sia sempre mediata da una riflessione sul ruolo che i media e la rappresentazione pubblica di simili meccanismi giocano nel rapporto con la massa. Ecco dunque che l'idea presente ne La notte del giudizio, di ricondurre il tutto a una dinamica non tanto generale, quanto a un fatto specifico, che coinvolge un ristretto nucleo familiare, ha una sua ragione d'essere.

L'analisi del modo in cui l'evento catartico pubblico agisce sul comportamento dei singoli, permette infatti di inquadrare il problema a un livello che chiama direttamente in causa le convinzioni dello spettatore e, soprattutto, la ricaduta della dinamica generale nell'ambito quotidiano della gente. Nulla di realmente nuovissimo neanche qui, beninteso, trattandosi in fondo di una rielaborazione degli schemi già mirabilmente teorizzati da Sam Peckinpah con il suo Cane di paglia, ma piace la dimensione low budget che sta addosso ai personaggi e, nello stesso tempo, riflette le conseguenze di uno scenario plausibile nella misura in cui chiama in causa dinamiche che oggi conosciamo bene.

Lo scenario prefigurato dal film, infatti, è la diretta conseguenza dell'approccio economicista che regola sempre più le nostre vite, in cui la dimensione morale si subordina al successo commerciale, ai misuratori economici e alle risposte dei mercati (meccanismo immorale per eccellenza). Non a caso la vicenda si premura di informarci che la Notte dello Sfogo ha portato ordine e benessere economico nell'universo narrativo, tanto che il protagonista James Sandin (l'ottimo Ethan Hawke) si offre come un perfetto paradigma della situazione posta in essere: non ricco di famiglia, ma perché ha saputo sfruttare a suo vantaggio i nuovi bisogno provocati dall'introduzione della Notte, James è un personaggio che è sceso a compromessi con le proprie direttive morali, posponendole di fronte alle necessità economiche e al benessere che è stato capace di garantire alla sua famiglia. La scelta di una location tentacolare come la casa di solida muratura, ma attraversata da intercapedini, vetrate e lunghi corridoi, restituisce bene l'idea di uno spazio sospeso, contemporaneamente “pieno” e “vuoto”, esattamente come è il protagonista. Anche la situazione familiare riflette questa situazione “a metà”, con un nucleo dove si predica l'equilibrio e la lealtà reciproca, anche se poi – con i giovani in particolare – la sensazione è quella di un insieme frammentato, dove ci si rifugia nei piccoli angoli o nelle proprie stanze.

Si crea così un meccanismo basato su forze contrapposte: da un lato abbiamo infatti la dinamica dell'assedio e dello scontro fra fazioni, e dall'altro la progressiva riscoperta dei principi morali da parte di James, che finisce infine per unire davvero la sua famiglia. Per certi versi si può affermare che la Notte dello Sfogo raggiunga realmente il suo scopo nel momento in cui i protagonisti, anziché schivarla restando barricati in casa, si lasciano coinvolgere dal suo potere, giovandosi della sua nettezza. Le incertezze e le false illusioni vengono messe da parte, mentre emergono più saldi i principi e la posta in gioco.

Nel momento in cui la Notte viene quindi abbracciata e vissuta dai Sandin, però, emerge chiaro come la dimensione economicista e immorale che l'ha generata sia sbagliata. Siamo insomma di fronte a un fecondo ribaltamento delle prospettive, all'interno di una storia dove le dinamiche si contrappongono continuamente. Da questo incontro di forze i protagonisti possono uscire rigenerati, rafforzati nelle loro rinnovate convinzioni, ma anche inevitabilmente schiacciati: una “rinascita” non priva di rinunce e quindi immancabilmente dolorosa.

Su tutto colpisce poi positivamente la dimensione molto “classica” dell'operazione, che si accompagna a una presa di posizione netta circa la necessità di garantire una rifioritura morale dell'America (e non solo) in questo momento storico: finalmente, insomma, un film che non ha paura di essere tacciato di moralismo spicciolo e di sfruttare fino in fondo il proprio portato allegorico, come accade con troppe opere contemporanee. Qualcuno ha fatto paragoni con l'opera di maestri come Carpenter o Romero: senza stare ad abbracciarli in pieno (non è questo che interessa), di sicuro emerge una volontà e uno sguardo molto critico nei confronti dell'esistente che fa pensare alle stagioni di quei grandi artisti. Il tutto, unito a tempi ben stringati e a una messinscena funzionale, è decisamente più importante della prevedibilità di molti snodi narrativi. In altri tempi sarebbe diventato un cult, fa piacere notare che in patria ha avuto un buon successo.


La notte dei giudizio
(The Purge)
Regia e sceneggiatura: James DeMonaco
Origine: Usa, 2013
Durata: 85'

sabato 10 agosto 2013

Le macchine che distrussero Parigi

Le macchine che distrussero Parigi

Arthur Waldo è in viaggio con il fratello George, quando l'auto finisce fuori strada. George muore, mentre Arthur resta solo e disorientato: alle spalle ha un trauma che gli impedisce di guidare e ora la scomparsa del fratello, contribuisce ad acuire i suoi sensi di colpa. L'uomo viene comunque “adottato”, suo malgrado, dalla gente di Parigi, una cittadina situata nei pressi del luogo dove è avvenuto l'incidente. Non che il disastro sia stato casuale: la popolazione della città vive infatti a spese dei malcapitati in transito nelle vicinanze, che vengono fatti deragliare apposta per riciclare i materiali delle loro auto. Così, Arthur cerca, non senza difficoltà, di integrarsi nella vita cittadina, mentre all'orizzonte si profila lo scontro fra le autorità e le bande di giovani che scorrazzano a bordo di auto modificate.


Da noi si vide molti anni fa in tv, salvo poi essere recuperato fortunatamente in DVD più di recente da Ripley's Home Video (con il titolo originale The Cars That Ate Paris): è il primo lungometraggio cinematografico di Peter Weir e può apparire ad oggi un oggetto strano e difficilmente classificabile, ma si tratta – a tutti gli effetti – dell'autentico punto di contatto fra la produzione dell'autore (non ancora “storicizzato” come tale) e il sottobosco dell'Ozploitation, che da qui riprenderà l'iconografia cult delle auto mostruose: lo scambio fra Weir e le produzioni di genere è peraltro suggellato anche dalla presenza, nel cast, di Bruce Spence, corpo iconico della commedia demenziale Stork, uscita tre anni prima.

Non che si debba temere una deviazione del regista nei territori del cinema più “facile”, beninteso, perché la vicenda è, neanche a dirlo, totalmente addentro alle sue ossessioni, con un protagonista in bilico fra due realtà, il cui viaggio nell'anomala cittadina di Parigi rappresenta un vero e proprio percorso di formazione, testimoniato dal superamento finale del trauma che gli impedisce di salire al volante. Il tono, in effetti, è satirico, con tanto di spiritoso (e un po' cinefilo) ammiccamento agli stilemi del western, resi ancora più forti da un uso eccellente del formato Scope, che rende la scorribanda finale delle auto mostruose in città un'autentica resa dei conti in stile sparatoria dell'O.K. Corral. Weir, insomma, riprende il tono grottesco di Homesdale, e se a tratti emerge la fattura del divertissement (il progetto originale prevedeva effettivamente una commedia) sottotraccia corrono umori molto seri, che descrivono ancora una volta la ricerca di un'identità in un luogo “chiuso”, in apparenza autosufficiente e opposto al mondo “di fuori”: un posto destinato, pertanto, a implodere.

La figura retorica dell'automobile (autentico oggetto-feticcio nella cultura australiana) diventa così la cartina di tornasole di una realtà che manca di un'originalità propria e cerca di esprimere i propri moti personalistici attraverso la modifica sfrenata dei veicoli. Accanto allo scontro fra autorità (che premono per mantenere lo status quo) e giovani ribelli (quasi una sorta di traccia per i futuri punk di Mad Max), emerge infatti un senso di spaesamento che rende Parigi, sin dal nome “francese”, una sorta di distorto tentativo di emulare i modelli forniti dall'Occidente: le iconografie di cui è ammantato il film, pertanto, si rifanno sempre all'Europa o all'America, basti vedere i poster sui muri o i ritratti della Regina Elisabetta, che stanno lì a riverberare nettamente la natura di ex colonia dell'Australia.

La lucidità “politica” del ritratto fornito da Weir troverà un corrispettivo altrettanto efficace (e ancora più corrosivo) soltanto nella sfrenata splatterfest di Bad Taste con cui Peter Jackson, oltre dieci anni dopo, ironizzerà sulla Nuova Zelanda: lo spaesamento per la mancanza di un'identità propria, mantiene gli uomini di Parigi in una sorta di stato intermedio fra la modernità e la pre-civilizzazione, con la pratica del baratto che sostituisce la compravendita e un senso di perenne sopraffazione dei più forti sui più deboli, che sfocia negli incidenti con cui ci si procacciano i materiali per la sopravvivenza.

Weir lavora visivamente sul contrasto tra iconografie “forti” e ben definite (le auto e i temi musicali western alla Sergio Leone) e un senso di ricercata artificiosità dell'insieme, evidenziato sin dal prologo in cui, il viaggio di una coppia, è ritratto come se fosse lo spot di un'ipotetica campagna pubblicitaria sui luoghi dell'entroterra australiano: ancora una volta, quindi, il regista ragiona nel merito dei meccanismi della rappresentazione e l'irruzione finale in città delle auto pesantemente modificate e “mostrificate” diventa in questo modo tanto la celebrazione di una finzione scenica che serpeggia lungo tutto la vicenda, quanto la catartica distruzione di un modello attraverso la violazione della propria concretezza, con case sfasciate e corpi infilzati sulle punte metalliche che coprono le carrozzerie.

Sebbene il tono sia comunque tarato sul senso di smarrimento del protagonista – classico outsider alla Weir in cerca del proprio sé – la sensazione è quella di uno dei film più giocosi del regista australiano, tanto che la “rinascita” finale dello stesso Arthur ha quasi il sapore dello sberleffo, più che della ritrovata stabilità emotiva: l'uomo infatti supera la sua paura al volante lanciandosi con l'auto contro uno degli autisti folli. Forse il punto non è tanto la redenzione, quanto il raggiungimento del modello portato avanti da Parigi, e d'ora in poi incarnato dal solo Arthur, diventato pertanto un australiano modello, almeno secondo la visione satirica portata avanti dal film!


Le macchine che distrussero Parigi
(The Cars That Ate Paris)
Regia: Peter Weir
Sceneggiatura: Peter Weir (storia di Peter Weir, Keith Gow e Piers Davies)
Origine: Australia, 1974
Durata: 84'


Collegato:
Michael e Homesdale: gli esordi di Peter Weir

lunedì 5 agosto 2013

Stagione cinematografica 2012/2013

Stagione cinematografica 2012/2013

Anche se in rete va sempre di moda sottovalutare e rimpiangere il passato, in generale gli analisti sono abbastanza concordi nel definire l'annata 2012 come una delle più memorabili da parecchio tempo a questa parte, complice l'incredibile qualità di ottime pellicole sfornate su tutto l'arco dei generi. Poiché la classificazione che uso in questa sede è ancora quella “classica” che va da agosto al luglio successivo , la stagione 2012/2013 riesce così a ricomprendere una grande parte di questi ottimi titoli: certo ne mancano ancora parecchi (non sempre lo spazio e il tempo permettono di recensire tutto), ma l'elenco sottostante comprende comunque una buona selezione, che al solito sarà ampliata man mano che riuscirò a recuperare tutto.

In ogni caso si sarà magari notata una tendenza a preferire titoli più di nicchia ai consueti blockbuster supereroistici: non perché si creda che il cinema spettacolare non debba avere la sua importanza e non possa offrire grande qualità (ci sono alcuni esempi, mentre ne mancano altri come Iron Man 3), quanto perché la distribuzione continua a preferire sempre più formule eccessivamente standardizzate. L'annata appena trascorsa, infatti, ha fatto tra le altre cose registrare anche un forte momento di crisi, che ha colpito particolarmente il cinema di ricerca e meno incentrato sulle formule sicure garantite da franchise e saghe preesistenti, basti pensare che persino un kolossal a tutto tondo come Pacific Rim ha faticato a raccogliere visibilità – fatto che mette in crisi anche l'idea di un possibile “blockbuster d'autore”. Quindi la linea guida d'ora in poi sarà comunque più sbilanciata su titoli che meritino una maggiore “spinta”, con pochi e ricercati lavori di richiamo.

Per il resto si noterà come il parterre di nomi comprenda comunque talenti come i Wachowski, Tarantino, Soderbergh, Miyazaki, Friedkin, Scott, Del Toro, Garrone, Refn, Rob Zombie. E' stata un'annata di grandi autori, e la lista si allunga con gli assenti Spielberg, Bigelow, Zemeckis, P. T. Anderson e tanti altri che non cito per brevità. Basterebbe questo a decretare la riuscita di una stagione, che speriamo allunghi la sua ombra anche negli anni avanti a noi.

Ricordo come sempre che l'elenco qui sotto non è una classifica, serve semplicemente per avere sott'occhio tutti insieme i titoli regolarmente distribuiti e recensiti qui sul blog. Per una panoramica allargata oltre i confini delle distribuzioni ricordo anche i report dai festival, in particolare da quello di Torino.

Per il resto, il Nido continua la sua attività come sempre. Buone visioni!

2) Amour
3) Argo
20) Reality
22) Shark

Riedizioni:
28) Akira